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Marco Pantani, aspettando giustizia

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Nel libro scritto da Antonio Giangrande “SPORTOPOLI”, un capitolo è dedicato alla vicenda giudiziaria sulla morte di Marco Pantani

Marco Pantani, aspettando giustizia

Nel libro scritto da Antonio Giangrande “SPORTOPOLI”, un capitolo è dedicato alla vicenda giudiziaria sulla morte di Marco Pantani

 

 

Su questo Antonio Giangrande, il noto saggista e sociologo storico che ha
pubblicato la collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”
ha svolto una sua inchiesta indipendente. Giangrande sui vari aspetti dello
sport in Italia ha pubblicato un volume “Sportopoli. L’Italia delle frodi
sportive”.

MARCO PANTANI. ASPETTANDO GIUSTIZIA

La solitudine, il residence e la coca. Quegli ultimi giorni del Pirata,
scrive Alessandra Nanni su “Quotidiano Nazionale”. La morte di Marco
Pantani comincia il 9 febbraio del 2004, quando arriva a Rimini a bordo di
un taxi. Sta scappando da Milano, dopo una lite furibonda con i genitori.
Sarà l’ultima volta che vedranno quel figlio in fuga da se stesso, dal
campione che era stato e di cui lui per primo non vede più che l’ombra. È
l’inchiesta che ha portato al processo, a ricostruire i suoi ultimi giorni
di vita. Il Pirata è sprofondato nella cocaina, e mentre il suo corpo tiene
ancora il colpo di 15 grammi al giorno, il suo cuore batte di una rabbia
smisurata. Come quando correva è di nuovo irraggiungibile, ma la sua ‘vetta’
ora è solo la coca, e in riviera c’è il suo fidato fornitore, Fabio
Miradossa. Al processo riminese, testimoni, investigatori e imputati hanno
messo insieme i pezzi di quei cinque giorni. Pantani si fa scaricare
dall’autista lungo il viale, e va dritto a casa degli amici che ospitano lo
spacciatore. Ma Miradossa non c’è, mamma Tonina ha minacciato di farlo
arrestare se avesse continuato a vendere droga al figlio. Si è spaventato ed
è tornato di corsa a Napoli. Per lui, per tutti, il campione è diventato un
cliente che scotta. Ma Pantani non accetta un rifiuto, pianta una grana:
devono trovare il napoletano. Capiscono che non mollerà, e fanno pressione
su Miradossa: liberaci di Pantani. Lo spacciatore cede e incarica il suo
galoppino di accontentare il campione. È Ciro Veneruso, quella stessa sera,
a consegnare a Pantani i 30 grammi di cocaina che lo uccideranno il 14
febbraio. Appartamento 5D, al quinto piano del residence Le Rose. Il Pirata
ci arriva a mezzogiorno di quel lunedì, e da allora lo vedranno di rado.
Racconteranno di un uomo rinchiuso in un mondo immaginario, frasi sconnesse,
insofferenza. Scende solo a fare colazione, qualche incursione al bar per
una pizzetta. Non mangia altro e tollera a malapena la donna delle pulizie.
Come un animale braccato che si lecca le ferite dell’ingiustizia, sceglie il
buio. Le tapparelle della stanza sono abbassate come in una grotta, sta
macinando migliaia di chilometri solo con se stesso. «Si lamentava del
rumore — racconteranno i clienti — bastava un passo per fargli spalancare la
porta». «Chiamate i carabinieri» urla in un delirio che riempie di pena chi
è testimone di tutto quel dolore. Alle 11,30 di sabato, Pantani chiama la
portineria e chiede di non essere disturbato più, non gli interessa che la
camera venga rifatta. Sono le 19, quando il portiere suona alla porta del
5D. Nessuna risposta, scende in cortile per cercare una luce al quinto
piano, ma non riesce a vedere e il telefono della stanza dà sempre occupato.
È preoccupato, decide di entrare con una pila di asciugamani. Usa il
passepartout, ma la porta si apre solo di uno spiraglio, il mobile della tv
e del telefono sono rovesciati. Dentro l’appartamento il caos, come un
uragano. «Poi sono salito nel soppalco, era a terra adagiato su un fianco,
non respirava più». Fine della corsa.

CHI HA UCCISO PANTANI ? A DIECI ANNI DALLA SUA MORTE, IL CASO RIAPRE E SI
INDAGA………..

PANTANI, CASO RIAPERTO DOPO 10 ANNI: “FU UCCISO? DOBBIAMO APPROFONDIRE”,
scrive Guglielmo Buccheri per “la Stampa”. Cinquemila pagine fotocopiate,
decine di testimonianze e immagini. L’esposto voluto dalla famiglia di Marco
Pantani è finito sul tavolo del procuratore di Rimini Paolo Giovagnoli ed
ora l’indagine è aperta come riporta la Gazzetta dello Sport. «Non fu
suicidio volontario, ma Pantani fu ucciso…», sostengono i familiari del
campione romagnolo e, da ieri, è l’ipotesi a cui lavoreranno gli inquirenti.
«Nessun commento, dobbiamo approfondire. Bisognerà fare delle valutazioni
anche alla luce del risultato del processo che ci fu a suo tempo. Quando –
precisa il procuratore Giovagnoli – arriva un esposto-denuncia per omicidio
volontario è sempre un atto dovuto aprire un’indagine…». La svolta,
clamorosa, è sul tavolo. E, in un attimo, i fatti della notte del 14
febbraio di dieci anni fa tornano sotto i riflettori. La procura di Rimini
si metterà al lavoro, lo farà dopo l’estate e l’indagine appena aperta
durerà almeno un anno prima di arrivare alle sue conclusioni. La famiglia
del Pirata, da sempre, ha sostenuto come non fossi possibile che il loro
Marco avesse deciso di chiudersi nella stanza della pensione sul lungomare
per dire basta. Ora, dopo un decennio di dubbi e perplessità, ecco il primo
passo: l’esposto presentato in procura dall’avvocato Antonio De Rensis, e
accompagnato da una perizia accurata, è stato giudicato fondato, ma dire
oggi quale potrebbe essere il punto di arrivo è fin troppo prematuro. «Non
fu suicidio, ma Pantani fu ucciso…», sostengono nella loro dettagliata
ricostruzione i familiari del Pirata. «Ora esca la verità…», così gli ex
colleghi, ma, soprattutto, amici del romagnolo, Claudio Chiappucci e Davide
Cassani. «Non capisco perchè ci sia stato tutto questo ritardo, è giusto che
si vada a fondo sulla tragica morte di Marco…», sottolinea Chiappucci.
«Forse – così Cassani – si sono date per scontate troppe cose che non lo
erano. Chi ha voluto bene a Marco vuole capire cosa realmente sia accaduto
quella notte…». Il lavoro della procura di Rimini non sarà facile. Come
detto dal procuratore Giovagnoli occorrerà ripartire nell’inchiesta tenendo
conto degli sviluppi che hanno portato alle conclusioni del processo già
celebrato. Da tempo la famiglia Pantani non perdeva occasione per chiedere
la riapertura del caso che, adesso, riaccendere l’attenzione sugli attimi di
vita del campione delle due ruote. Per presentare l’esposto c’è voluto un
faticoso impegno, fra difficoltà nel reperire il materiale e riuscire nella
visione di documenti e faldoni datati quasi dieci anni. Dopo l’estate, i pm
si metteranno in azione.

AVEVA CHIESTO AIUTO E FORSE NON ERA SOLO NELLA STANZA MALEDETTA, scrive
Giorgio Viberti per “la Stampa”.

Domande e risposte sui misteri di quella notte.

Perché Marco Pantani è uno dei campioni più amati e insieme discussi nella
storia dello sport e non solo nel ciclismo?

«Perché si dimostrò pressoché imbattibile sulle montagne, dove fece
entusiasmare i tifosi quasi come ai tempi di Bartali e Coppi, ma subì poi
una sospensione dalle corse molto discussa e morì ancora giovane, a 34 anni,
in circostanze quasi misteriose».

Per molti Pantani non fu soprattutto il simbolo di un ciclismo diventato
ostaggio del doping?

«In quegli anni tanti corridori usarono farmaci vietati e alcuni in seguito
lo confessarono, eppure Pantani in 12 anni di professionismo non risultò mai
positivo all’antidoping».

Ma non morì per un eccesso di cocaina?

«È quanto asserì l’inchiesta dopo la sua morte, avvenuta il 14 febbraio
2004. E paradossalmente fu quella l’unica volta in cui Pantani risultò
positivo a una sostanza dopante».

Pantani assumeva cocaina anche quando correva?

«Non venne mai rilevata nei tanti test ai quali si sottopose da corridore,
ma è probabile che Pantani abbia cominciato ad assumere cocaina dopo lo choc
per l’esclusione dal Giro d’Italia 1999, che aveva ormai quasi vinto, a due
tappe dalla fine per ematocrito alto, cioè perché aveva il sangue troppo
denso».

Perché si torna a indagare sulla morte del Pirata dopo dieci anni dalla sua
morte?

«La mamma Tonina e il papà Paolo non hanno mai accettato la tesi del
suicidio involontario per overdose di cocaina. Insieme con i loro legali
hanno raccolto una serie di dati e testimonianze che hanno convinto i
giudici a riaprire l’inchiesta».

Ma è lecito pensare che la prima inchiesta non sia riuscita a fare piena
luce sulle cause della morte?

«Secondo molti ci sarebbero tante incongruenze e contraddizioni che
quantomeno lascerebbero molti dubbi sulle conclusioni delle indagini di
dieci anni fa. Di sicuro, se è stata riaperta l’inchiesta, devono essere
emersi elementi nuovi e importanti di valutazione».

Per esempio?

«C’è l’ipotesi che Pantani non fosse solo nella stanza del residence in cui
fu trovato senza vita. Lo farebbero pensare alcuni abiti che non dovevano
essere lì, del cibo che il Pirata non amava e non avrebbe mai mangiato, il
disordine troppo «ordinato» della stanza, una doppia ma vana richiesta di
aiuto che il Pirata fece alla reception, l’enorme quantità di cocaina
trovata nel suo organismo come se fosse stato costretto a ingerirla, le
escoriazioni sul suo corpo, i segni sul pavimento come se il cadavere fosse
stato trascinato… Incredibile poi che l’hotel nel quale morì Pantani sia
stato ristrutturato pochissimo tempo dopo, come se fosse urgente cancellare
ogni prova residua».

Chi è riuscito, dopo tanto tempo, a trovare tanti nuovi indizi?

«L’avvocato Antonio De Rensis, per conto dei signori Pantani, ha studiato i
faldoni sia delle indagini di allora, sia quelli relativi al successivo
processo. Ma non basta, perché sono stati sentiti di nuovo alcuni testimoni
chiave di quella vicenda. È stata poi molto preziosa una perizia
medico-legale eseguita dal professor Francesco Maria Avato, che ha aggiunto
tantissimi elementi nuovi».

Ma perché queste cose non emersero subito?

«È quanto eventualmente stabilirà questa seconda inchiesta. Di sicuro la
prima autopsia sul corpo di Pantani sbagliò a indicare l’ora presunta della
morte e si rivelò molto superficiale anche nel valutare alcuni dati di
medicina legale che avrebbero potuto aiutare a fare chiarezza sul caso».

Chi avrebbe avuto interesse a falsificare l’esito dell’inchiesta?

«Difficile dirlo, di sicuro Pantani era finito in un giro di droga che
magari coinvolgeva anche persone molto importanti. Avrebbe potuto parlare e
fare dei nomi».

Per questo potrebbe essere stato ucciso?

«È questa la tesi sostenuta dai legali dei genitori di Marco. Ed è quanto
dovrà appurare questa seconda inchiesta. L’ipotesi di reato è addirittura di
omicidio volontario a carico di ignoti e alterazione del cadavere e dei
luoghi. Il procuratore capo di Rimini, Paolo Giovagnoli, ha affidato il
fascicolo a Elisa Milocco, giovane sostituto procuratore. Toccherà a lei far
luce su quanto avvenne quel giorno».

«LO SCRISSI GIÀ ALLORA: TROPPI PUNTI OSCURI», scrive ancora Giorgio Vibereti
per “la Stampa”. Philippe Brunel, giornalista francese e inviato speciale
del quotidiano parigino L’Équipe, l’aveva già scritto nel suo libro «Gli
ultimi giorni di Marco Pantani»: la morte del Pirata ha molti lati oscuri.

Brunel, che ne pensa di questa nuova inchiesta?

«L’avevo già detto dieci anni fa. Nella morte di Pantani ci sono troppe
incongruenze, troppi episodi inspiegabili per poter accreditare la tesi del
suicidio involontario».

È quanto però emerse dalla prima inchiesta…

«Mi interesso da molti anni di ciclismo, soprattutto italiano, e fui
incaricato da L’Équipe di indagare, cercare di capire, raccogliere
testimonianze e prove sulla morte di Pantani. E le cose non quadravano».

Che cosa soprattutto la lasciò perplesso?

«Tante cose. Marco era una persona precisa, quadrata e amabile. Impossibile
che si sia messo a urlare e spaccare tutto nella sua stanza d’albergo, come
dissero invece gli inquirenti della prima inchiesta».

Tutto qui?

«No, certo. Nella camera del residence Le Rose era stato portato del cibo
che Marco odiava e non avrebbe mai mangiato, e poi le escoriazioni sul suo
corpo, la bottiglia d’acqua mai analizzata, certi indumenti che non
avrebbero dovuto essere lì, quel disordine troppo ordinato, il mancato
rilevamento delle impronte…».

Per lei Pantani non era solo in quella stanza, vero?

«Ne sono sicuro. In quel residence si poteva entrare anche dal parcheggio
sul retro, di sicuro Marco è stato raggiunto dal suo pusher ma credo anche
da altre persone. Incredibile poi che quell’albergo, cioè la scena della
morte di Pantani, sia stato completamente ristrutturato dopo pochissimo
tempo, cancellando di fatto anche le eventuali possibili prove rimaste».

Ma chi e perché avrebbe voluto la morte di Pantani?

«Temo ci fossero sotto interessi molto grossi, che magari coinvolgevano
anche persone importanti. Una storia di droga e prostituzione. Pantani era
diventato un tossicodipendente, che frequentava gente senza scrupoli. A un
certo punto non ha più saputo controllare la situazione, e ci ha rimesso la
vita. Una morte oscura e irrisolta, però, come quelle di Tenco o Pasolini».

Brunel, che cosa si augura ora dalla nuova inchiesta?

«Marco era una persona sensibile e generosa che spesso si spingeva fino agli
estremi, come faceva in bici. Per lui il ciclismo era finito e si sentiva
smarrito, perduto. Ma era un uomo sincero e molto intelligente, che diceva
sempre ciò che pensava e che sarebbe potuto diventare scomodo. Non può
essere morto come un disperato, per un’overdose, da solo in una stanza
d’albergo. Non è andata così. Marco merita giustizia».

«Verità lontana dagli atti ufficiali». Da una parte gli atti di un processo
che non ha mai convinto fino in fondo. Dall’altra le indagini fatte
dall’avvocato Antonio De Rensis. Sono questi i tasselli utilizzati dal
professor Francesco…, scrive “Il Tempo”. Da una parte gli atti di un
processo che non ha mai convinto fino in fondo. Dall’altra le indagini fatte
dall’avvocato Antonio De Rensis. Sono questi i tasselli utilizzati dal
professor Francesco Maria Avato per la sua perizia, il cuore dell’esposto
che ha fatto riaprire il caso Pantani con l’ipotesi di reato, per ora a
carico di ignoti, di omicidio volontario. Il medico legale – perito, tra
l’altro, del caso Bergamini – per definirsi usa lessico da ciclista: «Ho
solo aggiunto un tassello da umile gregario al lavoro del legale», commenta.
«La mia esperienza mi ha portato a conclusioni diverse sulla morte di Marco
Pantani. Si è trattato di rivedere gli atti di causa e non solo, ma anche
informazioni recuperate dalle indagini difensive mettendo insieme i
frammenti come in un puzzle. È stato un lavoro di equipe con De Rensis». Il
lavoro del professor Avato si è basato sull’autopsia del campione morto a
Rimini il 14 febbraio 2004 e sull’analisi di foto e video delle indagini,
giungendo a conclusioni differenti rispetto alla prima perizia e all’esame
autoptico effettuato quasi 48 ore dopo il ritrovamento del cadavere di Marco
Pantani. «Sono questioni di pertinenza dell’autorità giudiziaria – aggiunge
il medico legale – non posso esprimermi al di là del fatto che il
quantitativo di cocaina rinvenuta suggeriva modalità di assunzione diverse
da quelle classiche. Sono indagini molto delicate e complesse. Non vogliamo
creare confusione o disagio». La parola adesso è ai magistrati. «Il mio
lavoro finito? – risponde Avato – Dipende dalle informazioni ulteriori che
possono giungere, tutto è perfettibile nella vita».

«Pantani non è stato ucciso». Parla Fortuni, il medico della prima perizia
sulla morte del campione. «Overdose al termine di un delirio da cocaina. Lo
provano i suoi scritti», scrive Davide Di Santo su “Il Tempo”. «Non ci sono
veri nuovi elementi oggettivi» che facciano pensare a «una overdose
“omicidiaria”». A parlare è Giuseppe Fortuni, il medico legale nominato
dalla Procura di Rimini per eseguire la perizia sul corpo di Marco Pantani
ai tempi del processo ai suoi pusher. È l’uomo «famoso» per essersi portato
il cuore del Pirata a casa, dopo l’autopsia terminata nella notte del 16
febbraio 2004. Pensava di essere seguito da auto sospette – più tardi si
apprese che si trattava di giornalisti – mentre tornava al laboratorio per
depositare i tessuti. Le sue conclusioni di allora sono messe oggi in
discussione dall’esposto presentato dal nuovo legale della famiglia Pantani,
Antonio De Rensis, secondo il quale il campione cesenate, quel giorno di San
Valentino di dieci anni fa, nel residence Le Rose di Rimini nel quale si era
barricato, in realtà sarebbe stato ucciso. La ricostruzione si basa sulle
indagini del legale e sulla nuova perizia di parte del professor Francesco
Maria Avato. Pantani avrebbe ricevuto la visita di uno o più uomini che dopo
un diverbio lo avrebbero aggredito e immobilizzato, costringendolo a bere un
cocktail letale di acqua e cocaina. Per Fortuni, però, il Pirata è morto da
solo e in preda ad allucinazioni. «Nessuno parla degli scritti deliranti di
Pantani che furono ritrovati nel residence – le sue parole – prova certa del
suo delirio e in alcun modo causabili da un overdose “omicidiaria” ma solo
da un uso continuo e crescente della cocaina». Il riferimento è a quanto
scritto dal campione nelle sue ultime ore. Pensieri affidati a fogli e
quaderni, ma anche scritti sul muri del bagno del bilocale riminese. Si va
da accuse inquietanti, cariche di astio («Hanno voluto colpire solo me»,
forse un riferimento alla vicenda del doping) alle composizioni nonsense
(«Colori, uno su tutti rosa arancio come contenta, le rose sono rosa e la
rosa rossa è la più contata». E ancora: «Con tutti Marte e Venere segnano
per sentire»). Prove certe di un «delirio da cocaina», per il perito della
Procura. Eppure molti amici di Marco sostengono che anche quando era lucido
il campione scrivera poesiole e pensieri dello stesso tipo. La madre, la
signora Tonina, conserva ancora fogli e quaderni con quelle strane poesie.
L’altro elemento sottolineato nella prima perizia è la morte sopraggiunta
dopo l’assunzione prolungata di droga, circostanza che si scontra con
l’ingestione coatta, in un solo atto. Nell’organismo c’era una quantità sei
volte superiore a quella considerata la dose letale minima, ma nel sangue
«periferico» la concentrazione era addirittura tredici volte più alta,
mentre l’esame del midollo ha mostrato una compatibilità con un uso cronico
della sostanza. Il tutto in un quadro in cui omissioni e incongruenze sono
superiori alle certezze.

Morte Pantani, professor Avato: “Provinciale l’approccio alle indagini”.
“Ogni ricostruzione di un delitto dovrebbe partire dalla medicina legale”
afferma il professor Francesco Maria Avato sul caso Pantani. La sua perizia
ha contribuito all’indagine sulla morte del Pirata. “Un cold case è sempre
il segno di una primitiva sconfitta”, scrive Alessandro Mastroluca su “Fan
Page”. Pantani è stato costretto ad assumere un enorme quantitativo di
droga. È questa la conclusione principale della nuova perizia medica
completata dal professor Francesco Maria Avato, incaricato dalla famiglia
del Pirata e dall’avvocato De Rensis. Il suo esame, insieme ai risultati
delle prime indagini di De Rensis, ha convinto Paolo Giovagnoli a riaprire
il caso per omicidio. Avato, coordinatore della sezione di Medicina Legale e
delle Assicurazioni dell’Università di Ferrara, ha eseguito la prima
autopsia sul corpo di Denis Bergamini, il “calciatore suicidato”. È il
perito incaricato dalla difesa di Alberto Stasi, accusato di aver ucciso la
fidanzata, Chiara Poggi, a Garlasco. Nel febbraio 2011, poi, insieme a
Giuseppe Micieli della Neurologia dell’Università di Pavia e a Francesco
Montorsi dell’Urologia del San Raffaele di Milano, incontra Bernardo
Provenzano, per valutarne i problemi di salute che lo avevano indotto a
chiedere il permesso di poter uscire dal supercarcere di Novara. Il suo
esame sul corpo di Pantani si è basato sull’autopsia del professor Fortuni e
sull’analisi di quasi 200 foto a colori e del video della Scientifica, ed è
giunto a conclusioni diverse dal primo esame autoptico effettuato quasi 2
giorni dopo il ritrovamento del cadavere. Avato accerta la presenza nel
corpo di un quantitativo di cocaina sei volte superiore alla dose letale. La
droga, ci spiega il professor Avato che abbiamo raggiunto telefonicamente,
“era in quantità tale da lasciar intuire un’assunzione in forme diverse da
quella classica. Il conteggio però è complicato, eviterei le
semplificazioni”, aggiunge. “Se poi l’abbia bevuta disciolta nell’acqua o
l’abbia mangiata, attiene alla ricostruzione di competenza dell’autorità
giudiziaria”. Fatto sta che nella stanza D5 del residence Le Rose c’erano
molliche di pane rigurgitate, con presenza di polvere bianca, e una
bottiglietta d’acqua mai esaminata dalla scientifica. Avato sposta l’ora
della morte tra le 10.45 e le 11.45 della mattina di San Valentino del 2004
e conclude che il cadavere sia stato spostato, probabilmente nel pomeriggio,
perché anche nel video della polizia si notano segni di trascinamento
spiegabili solo se il sangue fuoruscito non si era ancora rappreso. “Il
corpo era poggiato sul fianco sinistro” sottolinea Avato, “con la parte
destra più alta. Rimanendo così per molte ore, a causa dell’emorragia il
sangue sarebbe defluito maggiormente nel polmone sinistro”. Invece è il
destro a pesare di più, circa 200 grammi. Come nel caso della morte di Denis
Bergamini, anche la gestione delle prime ore dopo il ritrovamento del
cadavere “aprirebbe un discorso davvero molto ampio sulle indagini
investigative, sulle modalità di approccio al delitto che definirei un po’
‘provinciale'” spiega Avato. “La medicina legale dovrebbe essere la
genitrice prima di ogni ricostruzione. Noi avevamo un sistema di indagine
che è stato un modello per tutto il mondo, ma l’abbiamo trascurato e abbiamo
sviluppato un approccio inglese, alla Scotland Yard, che è antico”. Ogni
vicenda delittuosa, prosegue Avato, “ogni episodio che richieda competenze
medico-legali è sempre diverso”. Nelle inchieste sulla morte di Bergamini e
di Pantani, tuttavia, c’è uno schema ricorrente: un’indagine frettolosa, una
tesi accettata dal primo momento come vera, sopralluoghi tutt’altro che da
manuale sulla scena. “Qui si tratterebbe di considerare dall’inizio tutti i
passaggi, le decisioni che hanno portato alla formulazione iniziale. Il
punto sostanziale è che le competenze richieste in situazioni del genere
devono sempre essere intese come competenze di altissimo livello”. Ma così
non è stato, come dimostra lo stesso video della Scientifica in cui si
vedono addetti che perlustrano la stanza senza protezioni, senza guanti e
non prendono le impronte digitali. Per questo, conclude Avato, “il cold case
non va inteso come un’occasione per mettere in rilievo le capacità tecniche.
Possiamo discutere se l’insufficienza originaria dipenda da un’impostazione
organizzativa o da altre cause. Ma la riapertura di un cold case è sempre il
marchio di una primitiva sconfitta”.

Marco Pantani non aveva più controllo sul proprio patrimonio economico e
immobiliare, scrive “Il Tempo”. È quanto filtra da ambienti investigativi di
polizia, secondo cui il Pirata di fatto aveva un vitalizio che gestiva con
la carta di credito trovatagli nel portafoglio messo sotto sequestro l’altro
ieri, come tutta la stanza del residence Le Rose dove ha trovato la morte
nel giorno di San Valentino. Questo spiegherebbe anche i rapporti tesi con
la famiglia, di cui si è parlato nelle ultime ore, e l’ allontanamento del
campione da Cesenatico, dove non si faceva vedere da parecchio tempo. Non ci
sarebbero però accuse ai parenti fra i biglietti trovati nella stanza del
residence, affermano fonti investigative. Le stesse fonti smentiscono
categoricamente le indiscrezioni sul contenuto dei foglietti riportate da
alcuni giornali, in realtà una sorta di testamento di una persona molto
provata psicologicamente che si è sfogata devastando la camera dell’albergo
dove aveva preso alloggio e affidando i propri pensieri a parole e frasi
sconnesse, non riconducibili una all’altra, di interpretazione impossibile.
L’unico riferimento al mondo del ciclismo che Pantani avrebbe fatto su un
pezzo di carta dell’albergo è quello alla sua bicicletta, una sconclusionata
dichiarazione d’amore. Il ciclista nella sua carriera aveva accumulato una
fortuna: si parla di sei milioni di euro che erano stati investiti in varie
società, soprattutto immobiliari a Cesenatico e in Romagna. Di queste
società il campionissimo risultava essere l’amministratore unico.
Amministratore unico insieme al padre Ferdinando. Questo già nel 2003, e
forse da prima. Dopo il ciclone Marco continuava a seguire le vicende delle
sue aziende partecipando alle assemblee ordinarie. Lo testimonierebbe, ad
esempio, il verbale dell’assemblea della società immobiliare «Sotero» del 30
maggio 2003 che aveva come ordine del giorno la presentazione del bilancio
2002. All’incontro erano presenti Marco Pantani e Ferdinando Pantani in
qualità di amministratore unico. La precaria situazione psicofisica del
figlio aveva spinto il genitore a subentrargli nelle vicende finanziarie.
Marco avrebbe reagito male. In un momento delicato della sua vita, segnata
dalla fine della carriera sportiva, dallo scandalo mal digerito e
dall’accentuarsi dei problemi psicologici, forse l’ingerenza del padre è
suonata come una prova ulteriore del suo fallimento. È anche vero che negli
ultimi tempi la deresponsabilizzazione di Marco era diventata un fardello
pesante.
Vita notturna sfrenata, serate in discoteca che si prolungavano fino
all’alba, amicizie discutibili. Quelle vecchie che appartenevano a un mondo
passato, cancellate. «Non mi cercate più» aveva detto a tutti quelli che
avevano cercato di ributtarlo nel mondo delle due ruote. Poi quel lungo
viaggio a Cuba in novembre. Una fuga, la precisa volontà di allontanarsi
dalla famiglia, da casa. La rottura coi genitori, nella quale ha un peso
determinante anche la molla economica, sembrerebbe pure il motivo per cui
Pantani a un certo punto era andato a vivere nella casa di un amico a
Predappio. Michel, l’amico che lo ha ospitato e che non ha nulla a che fare
con il mondo del ciclismo, in questo momento è chiuso nel suo dolore e non
vuole parlare. Sembra però che durante un colloquio informale si sia
lasciato andare affermando che nella scelta di Marco di allontanarsi dalla
famiglia c’era pure il suo zampino.

La morte di Pantani è iniziata a Campiglio, scrive Xavier Jacobelli su “La
Provincia di Varese”. Marco era un ragazzo generoso, trasparente. Gli hanno
teso un tranello perché dava fastidio. La gente era tutta per lui e per il
ciclismo; il calcio e la Formula Uno perdevano seguito e milioni di euro:
per questo lo hanno fatto fuori». Col du Galibier, 2.301 metri di
altitudine, Alta Savoia, Francia, 19 giugno 2011. Paolo Pantani ha gli occhi
lucidi. Come Tonina, sua moglie. Lui e lei hanno appena assistito
all’inaugurazione del monumento dedicato a Marco, voluto con tutte le
proprie forze da Sergio Piumetto, piemontese di Cherasco trapiantato a Les
Deux Alpes dove il 27 luglio 1998 il Pirata firmò una delle imprese più
memorabili della sua straordinaria carriera. Quella che lo lanciò al trionfo
nel Tour, due mesi dopo avere vinto il Giro. Quel giorno di giugno sono sul
Galibier, accanto a Paolo e a Tonina. Dirigo quotidiano.net, l’edizione on
line dei giornali della Poligrafici Editoriale (Il Resto del Carlino, La
Nazione, il Giorno, Quotidiano Nazionale). Piumetto era venuto a trovarmi un
anno prima, a Bologna, per raccontarmi il suo sogno. Erigere un monumento al
Pirata lassù, sulle montagne francesi. E siccome chi sogna non si arrende
mai, sino a quando la vita che s’immagina diventa realtà, noi di
quotidiano.net avevano deciso di accompagnare passo dopo passo la
costruzione di quel sogno. Le parole di Paolo Pantani mi sono tornate alla
memoria in queste ore in cui ha fatto il giro del mondo la notizia della
riapertura delle indagini sulla fine di Marco, trovato morto nel bilocale D5
del residence Le Rose di Rimini. L’ipotesi di reato è: «omicidio e
alterazione di cadavere e dei luoghi». La magistratura si è mossa dopo avere
ricevuto l’esposto dall’avvocato Antonio De Rensis, legale dei Pantani. Né
Paolo né Tonina hanno mai accettato la tesi che Marco fosse morto per
overdose lui spontaneamente assunta. Mai. Ecco perché, adesso, Tonina ripete
le parole che aveva pronunciato quel giorno sul Galibier, che i due genitori
hanno pronunciato sempre da quando Marco se n’è andato: «Da una parte sono
contenta, finalmente non sto più urlando al vento. Ma dentro di me c’è anche
rabbia, rabbia e ancora rabbia: perché tutto questo tempo? Perché nel 2004
diverse cose non erano al loro posto e nessuno ha fatto nulla per darmi
delle risposte?». Tonina e Paolo hanno sempre difeso strenuamente la memoria
di Marco. E lo avevano sempre difeso anche prima della notte di San
Valentino in cui se ne andò. Lo avevano difeso dalle accuse di doping, lui
che non era mai stato positivo a un controllo; avevano chiesto invano di
sapere che cosa fosse esattamente successo a Campiglio, quando il 5 giugno
del ’99, mentre stava vincendo il Giro, venne squalificato per un valore
dell’ematocrito alterato di un punto. Ai cialtroni e ai mentecatti che da
quel giorno hanno sputato solo veleno addosso a Marco, spingendolo nel
tunnel senza ritorno della depressione, bisogna ricordare le parole del
campione: «Ero già stato controllato due volte, avevo già la maglia rosa e
il mio ematocrito era del 46 per cento. Ora invece mi sveglio con questa
sorpresa: c’è qualcosa di strano». Pantani lascia Madonna di Campiglio alle
13.05. A Imola, nel pomeriggio, si sottopone a un esame del sangue in un
laboratorio accreditato dall’Uci: nei due test il suo ematocrito risulta
pari a 47,8 e 48,1. Regolare. Ma dal Giro l’hanno fatto fuori per sempre. La
mattina di Campiglio un giornale aveva titolato: Marco pedala nella
leggenda. Il giorno dopo l’ha scaricato come un pacco postale. Paolo e
Tonina non hanno mai dimenticato. Ora hanno il diritto di sapere la verità
anche su Campiglio. Mentre le jene sono andate a nascondersi.

Pantani, un uomo sempre solo quando vinceva e quando sbandava. Non era un
angelo né un diavolo: arrivava da un ciclismo antico, parlava una lingua
diversa, sulla canna della sua bici c’era l’Italia. Dieci anni fa la morte
misteriosa, scrive Gianni Mura su “La Repubblica”. Dieci anni, di già. Ma
siete ancora qui a esaltare un drogato? Oppure: ma non avete ancora capito
che era l’agnello sacrificale? Dieci anni dopo la morte, Marco Pantani
continua a dividere, come dieci giorni dopo. Solo quando correva e vinceva
tutti lo sentivano loro. Io non mi riconosco in nessuna delle due fazioni,
quella del diavolo e quella dell’angelo. Troppo estreme, in un certo senso
troppo comode. Sarebbe meglio conciliare: anche i diavoli hanno slanci
positivi, anche gli angeli non resistono alle tentazioni. E, comunque,
Pantani era un uomo. Un uomo solo al comando quando staccava tutti in
salita. Un uomo solo allo sbando dopo Madonna di Campiglio. La lunga,
sofferta discesa in fondo alla quale non sapeva più distinguere gli amici
veri dai finti, quelli che si preoccupano della tua infelicità e quelli che
la rivestono di polveri bianche e donne a pagamento. Mi riconosco pure in un
libro appena uscito: «Pantani era un dio». L’ha scritto Marco Pastonesi,
collega della Gazzetta che ha per primo amore il rugby ma che nel ciclismo
tiene bene la ruota dei grandi suiveurs sui fogli rosa. È uno che sa
osservare e sa ascoltare, Pastonesi. E anche onesto. Prime righe della
prefazione: «Pantani non era uno dei miei. Nessun campione, nessun capitano,
nessun vincitore né vincente né vittorioso è uno dei miei. I miei sono i
corridori che, da professionisti, non ne hanno vinta neanche una». Dunque
non Pantani. In questi dieci anni sono usciti molti libri sulla vita e la
morte di Pantani, scritti da giornalisti italiani e stranieri, dalla
manager, dalla madre Tonina. Più un film per la tv e un lungo, doloroso e
umanissimo spettacolo del Teatro delle Albe di Ravenna (romagnoli come lui)
e una decina di canzoni, dai Nomadi ai Litfiba, da Lolli agli Stadio. Più le
processioni: sui blog, al cimitero di Cesenatico, sulle salite di Pantani.
Quelle domestiche, l’amato Carpegna, il Centoforche, il Fumaiolo. Quelle più
famose. Mortirolo, Alpe d’Huez, Galibier, Ventoux. Per come correva, posso
dire che tutte le salite erano di Pantani. Erano il suo pascolo naturale, il
suo mare verticale, erano croce e delizia. La croce era quella che chiamava
agonia, la fatica più dura. La delizia era quel suo attaccarle stando in
coda al gruppo e poi un po’ alla volta sorpassare tutti gli altri
guardandoli in faccia. Lo faceva apposta, non era un caso. Non era un caso
l’alleggerirsi in vista dell’attacco, era un segnale per gli avversari, un
avvertimento, come il drin di un campanello: tra un po’ comincio a darci
dentro, mi venga dietro chi può. Non a caso, ancora, Pastonesi dilata il
quadro, dà voce a tutti i gregari di Pantani, a chi s’è allenato con lui e
ha corso con lui, anzi per lui, perché la Mercatone Uno prevedeva un solo
capitano, Pantani, e tutti gli altri al servizio della causa, Se vinceva
lui, vincevano tutti. E se perdeva, tutti perdevano. Nella dilatazione del
quadro ci sono i grandi ciclisti romagnoli del passato, e i grandi scalatori
come Gaul, Bahamontes, Massignan. Come il primo dei grandi scalatori, René
Pottier, vincitore del Tour 1906, che s’impiccò a una trave delle officine
Peugeot il 25 gennaio del 1907. Delusione d’amore, dissero ai tempi. Nessun
biglietto lasciato, un’altra morte misteriosa. Come quella di Pantani. Che
ha due grandi punti interrogativi su due stanze d’albergo. Una è quella di
Madonna di Campiglio, 5 giugno 1999, l’inizio della fine. Come mai,
trattandosi di una visita annunciata, non a sorpresa, il sangue di Pantani
presentava un ematocrito a 52? E cosa accadde veramente nella stanza D5 del
residence Le Rose, a Rimini, la fine della fine? Un libro di Philippe Brunel
dell’Equipe ha documentato quante smagliature e lacune ci fossero
nell’inchiesta. I dubbi restano e quel residence non c’è più, è stato
demolito in tempi brevi, sorprendenti per la burocrazia nostrana. I dubbi
non restano in chi parla di Pantani solo come di un drogato, in bici e giù
dalla bici, o solo come di un angelo innocente tirato giù dal cielo.
Rivivere quegli anni, tra la fine degli ’80 e poco oltre il 2000, è come
seguire le piste dell’Epo. Pantani ne ha fatto uso? Sì, come tutti. In che
misura? Pastonesi cita livelli alquanto alti. Avrebbe vinto ugualmente? Sì,
a parità di carburante. Ma, a Pantani morto, è saltato fuori che su qualcuno
(Armstrong) l’Uci teneva aperto un larghissimo ombrello. Per onestà, come
Pastonesi ha scritto che Pantani non era uno dei suoi, devo scrivere che
Pantani è stato uno dei miei. Perché, come i vecchi ciclisti, in corsa
faceva di testa sua, non usava il cardiofrequenzimetro e quando s’allenava
dalle sue parti beveva alle fontane e mangiava pane e pecorino. Perché, più
ancora delle vittorie, ricordo l’attesa delle vittorie, o comunque
dell’attacco in salita. E l’entusiasmo della gente, come un ascensore sonoro
fra tornante e tornante. E l’Italia sulla canna di quella bicicletta, e i
francesi che s’incazzavano, ma neanche tanto. Perché gli piaceva ascoltare
Charlie Parker. Perché dipingeva. Perché era piccolino. Perché parlava una
lingua diversa. Pontani (Aligi, quasi un omonimo) mi chiamò dalla redazione
quel 14 febbraio 2004. Ero in ferie, stavo cenando a Firenze. È morto
Pantani. Non si sa di preciso, in un residence. Serve un coccodrillo, di
corsa. Taxi, albergo, speciale Tg, dettare. Trovo ancora lettori che mi
dicono che quel pezzo a caldo, in morte di Pantani, è tra i più belli che ho
scritto. Non avrei mai voluto scriverlo e non l’ho scritto, è venuto fuori
così. Come aprire un rubinetto, o una vena.

Pantani, dopo quella morte speculazione infinita, scrive Eugenio Capodacqua
su “La Repubblica”. Avevo fatto un patto con me stesso, in nome
dell’amicizia che mi ha legato per breve tempo a Marco Pantani, e cioè che
non avrei più scritto un rigo su di lui e sulle sue tragiche vicende. Pur
conoscendo la sua storia nei minimi particolari non ritenevo di dover
puntualizzare fatti e situazioni; proprio per rispetto di un uomo che ha
comunque pagato il prezzo più alto. Ma evidentemente non c ‘è pace sotto gli
ulivi. E, con la riapertura d’ufficio dell’inchiesta sulla morte, riecco
Pantani pronto ad essere di nuovo immolato sull’altare della cronaca.
Quella più bieca e nera che allunga un triste velo di grigio sull’ immagine
dell’uomo e dell’atleta, comunque rimasto profondamente nel cuore di molti
appassionati e tifosi. Un atto dovuto da parte dei magistrati dopo l’esposto
dei genitori e l’accurata perizia dell’avvocato di parte che ipotizza
l’omicidio. Diciamo subito che se ci sono dubbi (e ce ne sono) sulle
circostanze di questa tragedia è doveroso andare fino in fondo. Anche se il
cammino delle indagini, a dieci anni di distanza dai fatti, risulta
piuttosto difficile. Ma, più in generale, sembra arrivato il momento di fare
un minimo di chiarezza. Per lunghissimi dieci anni l’informazione (specie la
tv di stato) ha contribuito a mistificare un dramma che è e resta umano
prima ancora che sportivo. Pantani trasformato in un eroe. Pantani campione,
esempio da seguire e imitare. Pantani vittima di chissà quale complotto.
Pantani “capro espiatorio” di una realtà che invece tutti conosciamo,
purtroppo. E cioè la realtà di un ciclismo all’epoca stradopato che ha
tradito la passione degli spettatori propinando uno “spettacolo” al di fuori
e al di sopra di ogni umana credibilità. Pantani faceva sognare e del sogno
in questa dannata società c’è fame come dell’aria, dell’acqua, del pane. Lui
incarnava l’attacco, il successo, la botta vincente. Quello che tanti
“travet” covano nell’intimo. Il “come” poco importava. Quanti erano in grado
di capire, o volevano capire il “come”? E forse poco importa, adesso. Da
questo punto di vista Pantani è stato un grande. Ha toccato nel più profondo
l’animo degli appassionati. Ancorché alle prese con un problema
esistenziale che tormenta spesso, troppo spesso, la vita di tanti
protagonisti. Un problema che Madonna di Campiglio ha acuito e fatto
esplodere. Mettendo in risalto tutta la fragilità dell’uomo, ma anche
l’insensibilità, l’egoismo e l’ignoranza di qualcuno che gli è stato
accanto. Vediamo di ragionare con un minimo di freddezza. Pantani è stato un
eccellente ciclista. Un eccellente scalatore che, doping o meno,
probabilmente avrebbe inebriato ugualmente le folle con le sue gesta in
salita, con il suo carattere e la sua personalità. Perché comunque il
ciclismo si fa e si esalta in salita. Ma che facesse come tutti gli altri lo
ammette anche la stessa madre che – è comprensibile: è la mamma – continua
una sua battaglia infinita. La capisco: la mia, di mamma, è andata fuori di
testa alla morte del figlio 25enne in un incidente aereo di cui non si è mai
data ragione. E comunque si vuole restituire dignità. Ma quale dignità?
Quella del “così fan (hanno fatto) tutti”? Ben magra consolazione… Perché
che facesse come tutti i ciclisti della sua epoca è ormai chiarissimo. E
adesso, dopo l’indagine del Senato francese sul Tour 1998, è addirittura
comprovato al di là di ogni sospetto. Niente da aggiungere. Niente da
chiedere al mondo ipocrita del ciclismo. La dignità a Pantani la si
restituisce non arzigogolando attorno a presunti complotti, ma spiegando
come la vita possa mettere trappole mortali anche sulla strada degli uomini
di più grande successo. Insegnando a diffidare della notorietà, della gloria
effimera (un giorno sugli altari, il giorno dopo nella polvere); ad essere
guardinghi e mai esagerati. La breve vita del Pirata è un paradigma dove c’è
tutto: dall’esaltazione nel momento della gloria, alla più profonda
depressione quando un mondo costruito con cura crolla davanti al test di
Campiglio. Pantani come gli altri. Tanti altri. L’osservatore un minimo
distaccato tocca con mano la profondità del baratro quando si finisce nei
meandri della droga. Vede come sia facile scivolare, cadere definitivamente.
Eppure cosa era è successo, in fondo, a Madonna di Campiglio? Nient’altro
che quello che è successo a decine di altri corridori. Uno stop (di soli 15
giorni, neppure una squalifica…) per essere fuori dalle regole stabilite in
quel momento. Scontata quella pena che all’epoca non aveva neppure il
marchio del doping (“sospensione a tutela della salute”) tutto era finito.
Ma paradossalmente è stata proprio la sensibilità particolarissima
dell’uomo, la coscienza e il sentimento di vergogna per essere stato
scoperto e messo a nudo, a perderlo. Non ha retto, dicono, e si è rifugiato
nella droga, trascinato in un mondo che gli turbinava attorno da tempo. In
un mondo di cinici si è comportato come l’ultimo dei romantici. Ciò che lo
rende umano, umanissimo. Tutt’altro che un dio: umanissimo uomo. Per questo
ancora più apprezzabile. Per questo, a me non danno fastidio le celebrazioni
e i ricordi. Men che meno che si scavi per chiarire i dubbi sulla morte. Mi
da fastidio il sentimento peloso che trasuda interesse economico attorno a
tutta la vicenda. Mi da fastidio chi su quella morte ci ha guadagnato e
continua a guadagnarci, speculando sull’emozione. Pantani è stato un
business milionario da vivo e ancora di più da morto. I libri basati sulla
sua tragica epopea sono andati a ruba. Al ritmo di 25-27 mila copie vendute.
Fra il 2003 e il 2005, raggranellando cifre di gadget, dvd, bandane,
donazioni, libri, poster, foto e tutto il merchandising connesso sono
arrivato a calcolare quasi un milione di euro. Una cifra che si può
tranquillamente moltiplicare per 3, per 5 arrivando ai nostri giorni. Chiaro
che a questo mercato serva l’eroe. Anche se eroe non è. Pace all’anima sua.
Il sistema che in qualche modo lo ha messo in un angolo, continua a
succhiarne la linfa. Come? Raccontando la favola dell’eroe tragico. Della
vittima predestinata. Del campione che suscita invidia e viene eliminato.
Emozione, sentimento, partecipazione. Sul piano umano è tutto più che
comprensibile, dopo la grande tragedia. Ma se vogliamo dare un esempio ai
giovani non possiamo continuare a proporre tesi senza fondamento. Complotto?
E chi mai avrebbe avuto interesse a complottare contro il Pirata? La Fiat
perché lui aveva scelto la Citroen come sponsor? Ma, andiamo! Chi lo voleva
in squadra ottenendo il rifiuto? E come si sarebbe realizzato il complotto?
Corrompendo i medici prelevatori? Quello che si è letto negli anni e di
recente appare chiaramente strumentale. E a mio avviso infondato. Oggi c’è
di mezzo la giustizia ordinaria e un’indagine ufficiale, ma se ne sono viste
e lette in passato… Soprattutto per assecondare la tesi della trappola.
Qualcuno ha tirato fuori perfino la provetta di quel tragico prelievo
ematico a Campiglio che sarebbe stata scaldata per alzare l’ematocrito. Ma –
è addirittura banale – scaldando il sangue si scalda e aumenta di volume
anche la parte liquida non solo quella corpuscolare e il rapporto in
percentuale dell’ematocrito resta inalterato. Insostenibile
scientificamente, eppure c’è chi ne ha fatto un elemento saliente della tesi
complottistica. E poi: chi l’avrebbe scaldata? Il medico prelevatore? I
medici dell’ospedale di Parma che nella serata di quel 5 giugno 1999 hanno
ripetuto i test su ordine del pm di Trento Giardina trovando gli stessi
valori dei medici Uci? Si può sostenere un’accusa così grave, che sfiora la
calunnia, in modo così generico? Chi fa riferimento al complotto deve anche
spiegare chi, come e dove può aver complottato. Per questo dico che sono
solo speculazioni per suscitare emotività e vendere copie (o altro) al
tifoso. Pantani era la gallina dalle uova d’oro per il ciclismo di quel
tempo. E non solo. L’atleta che era riuscito a riportare milioni di tifosi
sulle strade del Giro e con loro gli sponsor, cioè il potere economico. Cioè
il dio denaro. Tanto e disponibile per tanti. Su Campiglio ha indagato la
Procura di Trento. Il verdetto è stato univoco: nessuna truffa, nessuna
sostituzione di provette (il sangue era di Pantani, come hanno provato i
test del DNA), nessun complotto, nessuna manomissione. Resta solo l’ombra
delle scommesse. Ma le indagini fin qui fatte non hanno portato a nulla. E
ad anni di distanza il nome di quell’ “amico” di Vallanzasca che gli avrebbe
consigliato di non scommettere su Pantani perché non sarebbe arrivato a
Milano nonostante la maglia rosa sulle spalle e la classifica ormai blindata
dai risultati, ancora non viene fuori. Su Pantani si specula. Come definire
altrimenti il sottolineare l’irregolarità della procedura punto centrale in
una delle ultime pubblicazioni? La provetta sarebbe stata scelta da uno dei
medici prelevatori e non dall’atleta come vuole il regolamento. Un vizio di
forma ininfluente ai fini del test. A meno di non chiamare in causa la
stessa ditta produttrice delle provette, che sono sigillate e sottovuoto.
Tutte. E anche qui senza prove si sfiora la calunnia. Ma a cosa può servire
tirare fuori un vizio di forma di fronte al quale oggi non si può fare nulla
se non instillare senza motivo il dubbio generico che qualcosa di irregolare
sia accaduto? Facile rispondere: è una mossa furba per accalappiare ancora
di più il tifoso. Ma dire, 14 anni dopo, che si sarebbe potuto fare ricorso
contro le modalità di quel test, non toglie nulla alla realtà storica:
l’ematocrito fuori norma per le regole del tempo. Controllato otto volte sul
sangue del Pirata. Valori fiori norma. Non per la prima volta, come del
resto provano i dati emersi nel processo Conconi alle cui cure Pantani si
era affidato già dal ’94. E baggianate come “il prelevatore ha messo la
provetta in tasca alzando la temperatura, ecc. ecc.” dicono sopratutto
dell’ignoranza se non della malafede di chi sostiene tale ridicola tesi.
Basta pensare alla temperatura corporea: 38 gradi circa. Ci sono 38 gradi in
una tasca? Difficile. Dunque caso mai la provetta si sarà raffreddata non
riscaldata. Ma tant’è. Lo dico chiaro: queste “spiegazioni postume” non mi
convincono. Come quella che la macchina da analisi (Coulter Act) avrebbe
“visto” un ematocrito alto per via del raggrumarsi delle piastrine. Ma gli
esperti sono chiarissimi: “E’ impossibile – sostiene Benedetto Ronci
ematologo di fama dell’Ospedale San Giovanni Addolorata di Roma, consulente
dei pm nella inchieste doping più clamorose – anche se le piastrine hanno
tendenza ad aggregarsi non incidono sul volume corpuscolare; non possono
modificare in alcun modo l’ematocrito”. Piuttosto al medico che avrebbe
fatto l’ematocrito a tutta la squadra in quei giorni andrebbe posta una
semplice domanda. Perché? Si sa che con lo sforzo prolungato per settimane
l’ematocrito cala. Che bisogno c’era di controllare? Altro discorso è la
morte nel residence. Ma qui la scelta è ancora più netta. O si sposa la tesi
dell’esagerata ingestione di cocaina (sette volte la dose mortale), overdose
accidentale, come dice il referto di morte e dunque si spiega così il
delirio la gran baraonda trovata in quella tristissima camera n.5 del
Residence Le Rose, che è poi la tesi ufficiale di chi ha indagato. Oppure si
allineano una serie di elementi di dubbio. Particolari incerti che dall’ora
della morte, al cibo cinese (odiato dal Pirata), trovato in camera, alle
ferite sul corpo, ai boxer che farebbero sospettare un trascinamento, al
particolare del cuore portato via dal medico che eseguì l’autopsia timoroso
che venisse rubato (da chi?); alimentano dubbi concreti. Cui dovrà
rispondere l’indagine. Si continua a confondere il piano umano che merita il
massimo della comprensione per una morte assurda con quello sportivo
sfruttando la mozione degli affetti. Cosa dobbiamo fare? Giustificare tutto
in nome della tragedia? E cosa raccontiamo ai nostri figli? Segui
quell’esempio e sarai felice?

Protagonisti e comparse. Ecco il dizionario del mistero Pantani. Chi poteva
volere morto il campione? L’inchiesta della Procura di Rimini parte da nomi
e ruoli dei personaggi dell’affaire, scrive Pier Augusto Stagi su “Il
Giornale”. «Pantani è stato ucciso». Questo è il titolo del «romanzo noir»
di questa estate italiana poco assolata e calda. A gridarlo da anni mamma
Tonina. A raccogliere il suo grido di dolore e le prove per presentare un
fascicolo presso la Procura di Rimini che ha competenza sull’accaduto è
l’avvocato De Rensis. La richiesta: riaprire il caso sulla base dei molti
fatti nuovi contenuti nelle pagine (120) dell’istanza. Un romanzo che ha una
storia buia, molti protagonisti e qualche comparsa. Ecco un dizionario per
orientarsi, mentre la Procura rinvia a settembre la decisione su chi
assegnare la delega a indagare, carabinieri o polizia.

A come avvocato. Antonio De Rensis è l’avvocato della famiglia Pantani, che
in nove mesi di lavoro ha raccolto una serie impressionante di
contraddizioni e anomalie. È a lui che si deve l’esposto per la riapertura
del caso.

D come dubbi. Il lavoro del professor Avato si discosta di molto dalle
conclusioni prospettate all’epoca dal collega Giuseppe Fortuni, che aveva
eseguito l’autopsia su incarico della Procura. Quali sono i rilievi di
Avato? Molti. A partire dall’ora della morte: posizionata tra le 10.45 e le
11.45. La quantità di droga trovata su Pantani equivarrebbe a diverse decine
di grammi, tale da essere paragonabile ai pacchetti ingeriti dai corrieri
per eludere i controlli. Impossibile per qualunque persona mangiare o
inalare una dose simile. L’unico modo per farlo è diluirla nell’acqua e
farla bere a forza (la bottiglia trovata nella stanza, non viene nemmeno
analizzata). Le numerose ferite sul corpo di Pantani sono compatibili con
opera di terzi, con evidenti segni di trascinamento del cadavere. Il corpo
di Pantani è poggiato sul fianco sinistro ma per Avato è il polmone destro a
pesare 200 grammi di più: quindi, il corpo di Marco è stato spostato dalla
posizione originaria della morte. E poi c’è la stanza, con il suo «disordine
ordinato». L’ipotesi è fin troppo chiara: far passare Pantani in preda al
delirio per celare altro. Nessuna impronta fu presa e non sarà più possibile
farlo neppure 10 anni dopo.

E come esperto. Francesco Maria Avato è il perito di parte, il medico-legale
(lo stesso che ha contribuito a far riaprire dopo 23 anni il caso Bergamini,
il calciatore «suicidato») che ha fornito un contributo fondamentale per
completare e avvalorare l’esposto preparato da De Rensis.

I come imputati. Dieci anni fa l’indagine sulla morte di Pantani viene
svolta dal sostituto procuratore romagnolo Paolo Gengarelli, con la Squadra
mobile di Rimini e la Polizia di Napoli. Tre mesi dopo la morte del Pirata,
il 14 maggio 2004 vengono arrestati Fabio Miradossa (il fornitore napoletano
di cocaina del romagnolo già dal dicembre 2003), Elena Korovina (la cubista
russa che ebbe una relazione con il corridore), Fabio Carlino (leccese,
titolare di un’agenzia di immagine) e Ciro Veneruso (il corriere napoletano
che portò la dose letale a Pantani). Viene rinviato a giudizio anche il
barista peruviano Alfonso Ramirez Cueva. Il processo di primo grado inizia
il 12 aprile 2005 davanti al Gup di Rimini. Vengono in seguito accettati i
patteggiamenti di Miradossa (4 anni e 10 mesi) e di Veneruso (3 anni e 10
mesi) e Cueva (1 anno e 11 mesi). Gli altri accettano di affrontare il
dibattimento. La russa viene assolta. Fabio Carlino viene condannato in
primo grado e in appello, ma poi prosciolto in Cassazione.

M come manager. Manuela Ronchi è la manager del campione romagnolo. La sua è
una figura non marginale in tutta questa vicenda, anche perché è una delle
ultime a vedere Marco vivo. Doveva andare a sciare con suo marito, per
questo Marco passa il 26 gennaio da Cesenatico per prendere tre giacconi che
porta su a Milano. Il 31 gennaio Marco ha una lite con la manager davanti
agli occhi di mamma Tonina e papà Paolo, chiamati per l’occasione dalla
Ronchi. Il 9 febbrario Marco decide di andare a Rimini. La Ronchi gli fa
recapitare una «sportina» di effetti personali (non ha valige) ad un hotel
in piazza della Repubblica. Marco qualche giorno dopo parte per Rimini. Uno
dei grandi misteri di questa vicenda è: come ci sono arrivati i tre
giubbotti al residence Le Rose?

P come procuratore. Paolo Giovagnoli è il procuratore capo di Rimini al
quale è stato consegnato il fascicolo, il quale a sua volta l’ha assegnato
ad Elisa Milocco, giovane sostituto procuratore, arrivato a Rimini da pochi
mesi. Toccherà a lei far sul luce su quella sera del 14 febbraio 2004.

Pantani, il legale accusa: “Inchiesta piena di buchi”. Nove mesi di indagini
private e una perizia medica hanno messo in forse la tesi del suicidio.
L’avvocato di famiglia contro il pm che archiviò: “Troppi silenzi”, scrive
Pier Augusto Stagi su “Il Giornale”. Quando facciamo suonare il suo
cellulare l’avvocato Antonio De Rensis è alla buca 18. Cerca, dopo mesi duri
e difficili, di rilassarsi un po’, di liberare la mente dalle tossine
accumulate durante la preparazione di un’indagine difensiva molto delicata.
«In verità forse mi conveniva restare a casa, perché sono riuscito a giocare
pochissimo». Per dirla con un linguaggio molto caro al nostro presidente del
Consiglio, l’avvocato De Rensis per certi versi assomiglia a un
«rottamatore»: non vuole mandare a casa nessuno ma smontare teorie e
ricostruzioni fatte dieci anni fa, quello sì. E grazie ai suoi nove mesi di
lavoro, di indagini e alla perizia di parte effettuata dal medico-legale, il
professor Francesco Maria Avato, la ricostruzione originaria sulla fine
tragica di Marco Pantani è stata smontata pezzo per pezzo. Ci vorranno mesi,
per arrivare ad una nuova fase di questa storia che in dieci anni non ha
finora trovato la vera parola fine. E una verità. Al momento il bandolo
della matassa è nelle mani del procuratore Capo di Rimini Paolo Giovagnoli e
in quelle della pm Elisa Milocco. «È esattamente così – spiega l’avvocato De
Rensis -, ci vorranno mesi di lavoro, anche perché ovviamente sono
tantissime le cose che la dottoressa Milocco dovrà esaminare. Bisognerà solo
avere pazienza». Si parte dalle accuse di mamma Tonina, che non ha mai
creduto al suicidio del figlio, ai nove mesi di indagini condotte
dall’avvocato Rensis, trascorsi a recuperare carte e materiale di ogni tipo
e studiandole successivamente con assoluta minuzia e passione. «Il tutto è
concentrato in centodieci pagine, dense di dati e osservazioni», puntualizza
il legale. Lui, però, non se la sente di stilare una graduatoria tra le
tante incongruenze che nella sua inchiesta ha portato alla luce. «Mi creda,
non voglio apparire per quello che vuole eludere ad una legittima curiosità
o a una domanda, ma si fa fatica a dire quali di queste incongruenze possa
essere più decisiva rispetto ad altre. Vedrà, sono e saranno tutte decisive
perché concatenate l’una all’altra». Paolo Gengarelli, il pubblico ministero
della prima inchiesta, non si è soffermato molto su questo nuovo capitolo
della storia tragica di Marco Pantani, limitandosi a dire stizzito che «non
sono abituato a commentare le notizie, come del resto dovrebbero fare in
tanti». L’avvocato De Rensis, non esita a rispondergli: «Anche noi cerchiamo
di parlare con i fatti. Anche noi cerchiamo di rispettare le indagini. Ma
soprattutto noi vogliamo raccontare che all’epoca dei fatti non sono state
prese le impronte digitali; che il video dei carabinieri dura 51 minuti
mentre il girato è di due ore e cinquantasei minuti e via elencando. Non mi
sembra di parlare di atti dell’indagine. Mi sembra solo di evidenziare cosa
è stato fatto o meglio, non è stato fatto all’epoca. Anche noi staremo zitti
nel momento in cui si tratterà di affrontare le cose da fare, ma queste sono
fatti accaduti in passato ed è giusto portarli alla luce. Se il silenzio è
luminoso ha un senso, i silenzi con le ombre a me non piacciono neanche un
po’». L’avvocato De Rensis è capace di attaccare, ma si dimostra abile anche
in fase difensiva. Quando gli chi chiede se ha un’idea di chi abbia ucciso
Marco, si chiude a riccio. «Se sia stata una persona o più persone che fanno
sempre parte del giro dei pusher? Se si tratta di persone fuori da questi
giri? La prego, non mi chieda nulla. Sui nomi non mi esprimo. Non posso e
non voglio». Più morbido all’ultima domanda: ma se la pm Milocco, alla fine
dovesse decidere di chiudere il tutto con un nulla di fatto, quale sarebbe
la sua reazione. Si griderebbe al complotto? «È una eventualità che non
voglio nemmeno prendere in considerazione. Ho grande fiducia nel procuratore
Capo Paolo Giovagnoli e nella dottoressa Elisa Milocco. Il procuratore capo
è un galantuomo e la dottoressa Milocco – che ho conosciuto da poco – mi ha
dato l’idea di essere una persona molto rigorosa. Quindi…».

Pantani, l’avvocato di famiglia: «Leggendo le carte la strada s’illuminerà
da sola», scrive “Giornalettismo”. Antonio De Renzis, legale della famiglia
del Pirata, parla della perizia che potrebbe far emergere una nuova verità
sulla morte del ciclista romagnolo. Intanto, il ristoratore che consegnò
l’ultima cena ricorda: «Non aveva la faccia di uno che volesse suicidarsi».
Ufficialmente per la giustizia italiana Marco Pantani, trovato morto in una
stanza d’albergo il 14 febbraio del 2004, è deceduto «come conseguenza
accidentale di overdose». Per la famiglia del campione romagnolo, invece, la
verità è un altra. Il Pirata sarebbe stato ucciso da una o più persone che
lo avrebbero raggiunto quella sera al Residence Le Rose di Rimini, forse
dopo essere stato costretto a bere cocaina disciolta nell’acqua. A parlare
dopo la riapertura del caso è innnanzitutto la mamma di Pantani, Tonina
Belletti, che ha provveduto a presentare un esposto-denuncia per omicidio
volontario in Procura. Ma ad esporsi è anche l’avvocato della famiglia del
ciclista, Antonio De Renzis, che alle telecamere di Sky racconta oggi di
«mancanze», «lacune», «incongruenze», «anomalie», «accertamenti non fatti»,
che avrebbero condizionato la prima inchiesta sulla morte del Pirata che
risale a 10 anni fa e che fu chiusa a tempo di record, in soli 55 giorni. Il
legale, descrivendo la segnalazione alla Procura, parla di «rilettura» di
quegli «atti d’indagine e processuali» che avrebbero determinato una verità
giudiziaria a suo parere lontana dalla realtà, di una rilettura che contiene
«elementi che convergono e vanno in una direzione precisa» e opposta
rispetto a quanto emerso finora. Secondo De Renzis, in sostanza, la tesi
seguita poche ore dopo la scoperta del corpo di Pantani, e «mai più
abbandonata», andrebbe dunque «assolutamente rivisitata», ed è possibile che
fancendo luce sulle «mancanze» della prima inchiesta emergerà un’altra
verità. «Le carte e il video parlano molto», ha detto l’avvocato parlando
della «corposa e approfondita consulenza» (perizia medico-legale) realizzata
da professor Francesco Maria Avato. E ha aggiunto: «Credo che leggendo bene
le carte sia possibile colmare queste lacune», «la strada si illuminerà da
sola». Molto chiara è stata la signora Tonina, la prima ad annunciare, su
Facebook, la riapertura del caso Pantani. «Me l’hanno ammazzato. La mia
sensazione, sin da subito, è che avesse scoperto qualcosa e gli abbiano
tappato la bocca», ha dichiarato nei giorni scorsi la madre del Pirata. «Non
vedo altre ragioni – ha spiegato a TgCom24 -. Non mi sono mai sbagliata su
Marco. Così come non credo siano stati gli spacciatori». «Sono dieci anni –
ha aggiunto – che lotto e non mollerò, fino alla fine. Voglio la verità,
voglio sapere cosa è successo a mio figlio. Da subito ho detto che me
l’hanno ammazzato e, infatti, me l’hanno ammazzato». La signora Tonina ha
poi parlato anche di una richiesta di aiuto del Pirata nelle ultime ore di
vita: «Ha chiamato i carabinieri, parlando di ‘persone che gli davano
fastidio’». E infine: «Marco aveva pestato i piedi a qualcuno, perché lui
quello che pensava diceva: parlava di doping, diceva che il doping esiste».

Morte di Marco Pantani, legale: “Realtà è molto diversa da quella
ufficiale”. Per l’avvocato Antonio De Rensis le indagini che vennero
condotte dieci anni fa “presentano lacune e contraddizioni”. Il legale ha
ottenuto la riapertura delle indagini da parte della procura di Rimini che
indaga per “omicidio volontario a carico di ignoti”. La tesi della famiglia
e della difesa è che il campione non morì di overdose ma venne ucciso,
scrive “Il Fatto Quotidiano”. La realtà che emerse dieci anni fa sulla
morte di Marco Pantani è “molto diversa” da quello che è accaduto realmente
la mattina del 14 febbraio 2004, nel bilocale del residence Le Rose di
Rimini. Ne è convinto l’avvocato dei familiari del Pirata, Antonio De
Rensis, che spinto dalla tenacia della madre del campione, Tonina, ha
riletto e analizzato migliaia di pagine che compongono le indagini e il
processo. Per il legale le conclusioni a cui gli inquirenti giunsero dieci
anni fa sono piene di “lacune e contraddizioni”. Pantani non morì per
un’overdose, ma venne ucciso da una o più persone che il campione romagnolo
conosceva e a cui lui stesso aprì la porta. Nella stanza scoppiò una lite.
Il Pirata ebbe la peggio. L’aggressore (o gli aggressori) fecero bere al
ciclista una dose letale di cocaina diluita in acqua. In sostanza, gli
investigatori condussero le indagini su una messa in scena. Quelle certezze
sono state messe nero su bianco dall’avvocato De Rensis che ha presentato un
esposto alla procura di Rimini. “Accolto”. Il fascicolo accantonato per
dieci anni è stato riaperto per “omicidio volontario a carico di ignoti”.
“Mi limito a dire – ha dichiarato all’Ansa il legale – che è già importante
comprendere tutti che la realtà fattuale è molto diversa. E già questo è
tanto, perché porta poi in direzioni molto precise. Intanto facciamo
emergere le enormi lacune e contraddizioni, facciamo emergere ciò che si
poteva comprendere facilmente all’epoca e poi partiamo tutti insieme da qui
per arrivare a ristabilire una verità. È un’indagine nuova che si apre con
una ipotesi di reato grave. Sarà un’indagine che durerà molto, perché
comunque è complessa. Gli elementi che dovrà valutare la procura sono
tantissimi, però il nostro intendimento è di evidenziare in modo chiaro che
la verità ufficiale è piuttosto lontano da quella fattuale”. De Rensis,
avvocato del foro di Bologna, è un legale abituato alle battaglie che legano
lo sport alla giustizia: ha assistito Antonio Conte nella vicenda del calcio
scommesse. Il lavoro dell’avvocato su carte e riscontri investigativi è
suffragato dalla perizia medico scientifica del prof. Francesco Maria Avato,
che con un suo lavoro aveva portato alla riapertura del caso di Denis
Bergamini, il calciatore del Cosenza morto il 18 novembre 1989 a Roseto Capo
Spulico (Cosenza). Un caso che per anni è stato considerato un suicidio poi
è stato riaperto per omicidio. “Un lavoro faticoso e impegnativo – dice De
Rensis – anche di rilettura. Gli atti non è stato nemmeno semplice
acquisirli. Questi faldoni sono negli archivi, sono migliaia e migliaia di
pagine che sono state analizzate, sezionate, studiate, confrontate. Poi il
lavoro scientifico del prof. Avato, che si è andato a confrontare e
intrecciare continuativamente con le analisi degli atti di indagine e
processuali, a confronto reciproco e intreccio reciproco. Quindi le indagini
difensive che sicuramente, seppure assolutamente riservate, hanno
evidenziato elementi importantissimi”. “Io nutro un grande rispetto per la
magistratura – precisa De Rensis – Noi abbiamo lavorato pensando che
dovevamo aprire una pagina nuova sulla base di enormi lacune e enormi
contraddizioni”. “Queste lacune e incongruenze per noi possono essere
colmate – conclude – possono essere riviste e credo che questo sia un dovere
morale, oltre che giudiziario, da parte di tutti. Dobbiamo lavorare insieme
per riscrivere la pagina di quella dolorosissima vicenda il più possibile
vicino alla realtà”. Un ricordo di Pantani lo offre in queste ore anche
Oliver Laghi, il ristoratore di Rimini che in albergo consegnò al campione
romagnolo la sua ultima cena, un’omelette di prosciutto e formaggio. Il
Piarata appariva stanco , ma sereno. «Ricordo – ha detto Laghi al Corriere
della Sera – come ieri il volto di Marco: stanco, le occhiaie profonde, la
barba un po’ lunga, ma ho pensato che fosse colpa del viaggio e che una
bella dormita avrebbe rimesso tutto a posto, tanto che prima di andarmene
gli chiesi se potevo tornare il giorno dopo con mio figlio piccolo per un
autografo e lui mi rispose con un sorriso timido e una pacca sulla spalla:
‘Va bene, a domani’». E ancora: «Il Marco con cui ho parlato quella sera non
aveva la faccia di uno che volesse suicidarsi». Ora gli occhi sono tutti
puntati sulla procura di Rimini che dovrà esprimersi sulla perizia del
dottor Aveta (secondo la quale le ferite presenti sul corpo di Pantani «non
sono autoprocurate, ma opera di terzi») e che dovrà esprimersi relativamente
alla nuova ipotesi«omicidio con alterazione del cadavere e dei luoghi». Il
lavoro spetta innanzitutto al pm Elisa Milocco, cui è stato affidato il
fascicolo dell’indagine bis, e comincia senza che alcuna persona risulti
indagata. Va ricordato che tre anni fa la corte di Cassazione aveva assolto
il presunto pusher di Pantani, accusato di aver provocato la morte del
campione vendendogli cocaina purissima, «perché il fatto non costituisce
reato».

Il timer fissa la durata del girato in due ore e 56 minuti, ma ne restano
solo 51. Caso Pantani, un buco di 125 minuti nel video della polizia
scientifica. Per i pm cinque nuovi testimoni che potrebbero raccontare una
verità diversa sulla morte del Pirata. Tutti i punti oscuri del caso, scrive
Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Un «buco» di 125 minuti nel
video della Polizia scientifica e almeno cinque nuovi testimoni che
potrebbero raccontare una diversa verità sulla morte di Marco Pantani.
Riparte da qui la nuova indagine avviata dalla procura di Rimini e si
concentra su almeno sei anomalie denunciate dalla famiglia del «Pirata» con
l’esposto presentato dall’avvocato Antonio De Rensis. Ricomincia da
un’imputazione di omicidio volontario che non sarà facile dimostrare a oltre
dieci anni di distanza da quel San Valentino che il ciclista trascorse
nell’appartamento D5 del Residence «Le Rose». Anche perché la struttura
alberghiera è stata completamente modificata, ma soprattutto perché
l’ipotesi più probabile è che se davvero qualcuno è entrato in quel bilocale
e ha picchiato Pantani, è possibile che lo abbia fatto per fargli pagare uno
«sgarro», non per ucciderlo. E che la situazione gli sia poi sfuggita di
mano. Il campione era un uomo disperato, preda dei suoi demoni e della sua
totale dipendenza dalla droga. Ma – questo dicono alcune nuove testimonianze
– non sembrava affatto «fuori di testa» come qualcuno ha voluto far credere.
«L’ho trovato stanco ma lucido – ha raccontato Oliver Laghi, il ristoratore
che la sera del 13 febbraio 2004 gli portò un’omelette al prosciutto e
formaggio -, mi disse di tornare il giorno dopo con mio figlio che voleva
l’autografo». Secondo l’inchiesta svolta dieci anni fa e chiusa avvalorando
la tesi del suicidio, Laghi è stato l’ultimo a vedere Pantani vivo. Il
procuratore Paolo Giovagnoli e il sostituto Elisa Milocco dovranno stabilire
se è davvero così. Ma la convinzione è che qualcuno sia comunque entrato in
quella stanza prima delle 20,30 del 14 febbraio, quando i soccorritori
accertarono che per Pantani non c’era ormai più nulla da fare. Agli atti del
processo contro i due spacciatori Fabio Miradossa e Ciro Veneruso – hanno
patteggiato condanne rispettivamente a 4 anni e 10 mesi e 3 anni e 10 mesi –
c’è un video girato dai poliziotti della Scientifica che comincia alle 22,45
del 14 febbraio e termina all’1.01 del 15 febbraio. Il timer fissa dunque la
durata in due ore e 56 minuti ma il «girato» è di soli 51 minuti e termina
prima dalla fine dell’ispezione. Chi ha effettuato i «tagli»? Perché ci sono
dei «salti» tra una scena e l’altra? Eppure è proprio il filmato a fornire
le tracce più evidenti di una ricostruzione diversa da quella ufficiale
mostrando indizi evidenti per accreditare l’ipotesi che, almeno in un certo
lasso di tempo di quel giorno, Pantani non sia stato da solo. Ma anche per
dimostrare quelle che appaiono alcune «lacune» nelle indagini. L’avvocato
della famiglia ha infatti denunciato come nel fascicolo processuale non
risulta la rilevazione di alcuna impronta digitale durante il lungo
sopralluogo. E questo nonostante ci fossero molti mobili spostati, alcuni
rotti, un filo dell’antenna tv legato come un cappio e pendente dal
soppalco, una confusione pressoché totale. Lo stesso filmato mostra svariate
dosi di cocaina. Secondo quanto accertato al processo, Pantani aveva
acquistato 20 grammi di droga. La nuova relazione medico-legale, firmata dal
professor Francesco Maria Avato e basata sulla rilettura delle analisi
effettuate dieci anni fa, assicura invece che Pantani aveva assunto cocaina
in quantità sei volte maggiore di quanto una persona possa sopportare e
altra sia rimasta inutilizzata. Proprio questo accredita l’ipotesi che
qualcuno l’abbia portata durante la giornata. Nella denuncia si parla di
«costrizione a bere cocaina sciolta nell’acqua», una circostanza difficile
da dimostrare e che probabilmente costituirà uno dei punti più controversi
della nuova inchiesta. Strano anche quanto accertato riguardo ai pasti
consumati da Pantani. Secondo la versione ufficiale l’ultimo cibo ingerito è
l’omelette portata da Laghi. Per l’autopsia Pantani ha invece fatto
colazione, i resti vengono rinvenuti nello stomaco. I dipendenti del
residence hanno sempre dichiarato che il Pirata non ha mai lasciato
l’appartamento e che nessuno è entrato. E allora come ha fatto a
procurarsela? In realtà rileggendo quanto verbalizzato all’epoca, il legale
ha scoperto il racconto di un custode che ha spiegato come fino alle 21
fosse «possibile entrare passando dal garage». E dunque potrebbe essere
proprio questa la strada percorsa da chi voleva incontrare il campione senza
essere visto. E che potrebbe aver lasciato almeno due indizi: nel bilocale
non c’era il frigobar, ma è stata trovata la carta di un cornetto Algida;
Pantani era arrivato con un piccolissimo bagaglio, «una sporta», ma lì
c’erano tre giubbotti pesanti. Un quadro indiziario nuovo, lo definiscono
gli stessi inquirenti che prima di riaprire il fascicolo, sia pur come «atto
dovuto», hanno avuto un lungo incontro con il legale della famiglia. E
adesso dovranno concentrarsi sulla visione del filmato incrociata con la
relazione medico-legale che evidenzia due punti: il corpo trascinato sulle
tracce di sangue e dunque spostato dopo il decesso; lesioni ed ecchimosi
incompatibili con l’autolesionismo, sia pure in una persona completamente
stravolta dalla cocaina.

Caso Pantani, depistaggi e buchi nell’indagine. “Quando lo trovammo non
c’era sangue”. I racconti dei primi soccorritori contraddicono la perizia
fatta all’epoca dal medico legale. E le testimonianze di chi lo vide nelle
sue ultime ore si smentiscono a vicenda, scrivono Marco Mensurati e Matteo
Pinci su “La Repubblica”. Testimonianze stridenti, perizie divergenti e
protagonisti dimenticati s’intrecciano intorno alle ultime ore di vita di
Marco Pantani. E con il passare dei giorni i dettagli inquietanti sembrano
quasi sommarsi, alimentarsi uno con l’altro, accentuando i depistaggi, le
lacune nella versione ufficiale, ma anche nei racconti di chi per primo
intervenne sul corpo dell’atleta, fino a quelli dei testimoni della
primissima ora. “Non c’erano tracce di sangue”. Così lo raccontano i medici
del 118, i primi a intervenire dopo la segnalazione del portiere del
residence Le Rose. Eppure, i filmati della polizia dimostrano come Pantani
sia stato trovato riverso a terra in una pozza di sangue, il viso una
maschera rossa. La lettura dell’esame autoptico rivela poi anche una serie
di ferite sul corpo, sulla fronte, sul naso, intorno al capo. Eppure, chi
arriva per primo nella stanza D5 di viale Regina Elena, a Rimini, proprio
non riesce a ricordarle: “Marco non aveva alcuna ferita sul viso”.
Incongruenze curiose, come le divergenze sulle macchie di sangue presenti
nella stanza. Quegli schizzi secondo la perizia del professor Avato allegata
alle indagini condotte dal legale della famiglia, Antonio De Rensis, non
possono essere frutto della caduta. Non la pensava così però il dottor
Fortuni, il medico legale che condusse l’autopsia, seppur 48 ore dopo il
ritrovamento del corpo: volevano lui, anche a costo di doverlo aspettare due
giorni. E pensare che Fortuni e Avato hanno sostenuto tesi opposte anche sul
caso Aldrovandi, controverso almeno quanto la morte del Pirata: il primo
consulente della difesa dei poliziotti sotto accusa, l’altro per la famiglia
del giovane. Ma incollato come un’ombra al nome di Fortuni è rimasto
soprattutto il dettaglio macabro del cuore del Pirata portato via dal
laboratorio e custodito in casa per una notte, per evitare furti. Un pezzo
del cuore del campione di Cesenatico che rappresentava “un corpo di reato,
sotto la mia custodia in qualità di perito, che ovviamente non poteva andare
né perso né distrutto”. Procedura non inconsueta, eppure oggetto di
attenzioni quasi morbose. Il cuore di un uomo farneticante: così almeno lo
raccontavano le indagini dell’epoca. Un ritratto che nasce dalle
dichiarazioni notturne di tre ragazzi, giovani, 27 anni appena: si
presentano spontaneamente alle 23.30 della notte di San Valentino per
consegnare la loro verità sul campione scomparso a un ispettore mentre nella
stanza D5 del residence Le Rose si muovono ancora inquirenti al lavoro e
civili, filmati impietosamente dall’occhio delle telecamere della polizia.
Avevano incontrato Pantani, dicono, la sera prima, sul pianerottolo, intorno
alle 22.15. Avevano impiegato un po’ a riconoscerlo, poco curato, una barba
sciatta. Lo avevano sentito dire cose surreali, lo avevano salutato con un
generico “a domani”, salvo sorprendersi nel sentirlo rispondere in dialetto
“non so se ci sarà un domani per me”. Visibilmente turbato, poco lucido e
tragicamente inquieto, quasi consapevole del proprio destino irreversibile.
Testimonianza ritenuta credibile al punto da essere inserita nella
consulenza medico legale. Quella testimonianza diventa l’elemento per dare
coerenza alla tesi di un Pantani in preda al delirio, quello che avrebbe
potuto demolire la stanza del residence o barricarsi in camera e drogarsi
fino a morire. Apparentemente affermazioni utili a raccontare lo sviluppo
delle ultime ore del campione caduto. Eppure, nessuno sentirà la necessità
di ascoltarli ancora: né durante le indagini, né durante il procedimento
giudiziario. Curioso, almeno. Viene da chiedersi perché, al contrario,
durante la pur fugace indagine non sia venuto in mente a nessuno di
ascoltare se avesse qualcosa dire l’ultima persona che, con certezza, ebbe
occasione di incontrare Pantani vivo. Eppure era proprio lì, a pochi metri
dalle stanze ormai demolite e rivoluzionate del Le Rose. Oliver Laghi è il
ristoratore a cui viene ordinata l’ultima cena del Pirata, un’omelette
prosciutto e formaggio, qualche succo di frutta che prende dal concierge
dove scopre che il cliente da servire, stavolta, è il suo idolo. Tra le 21 e
le 21.30, Pantani gli apre la porta: se qualcuno lo avesse sentito
all’epoca, Laghi avrebbe detto quello che dice soltanto ora. “Non aveva la
faccia di chi voleva suicidarsi”, dice. Racconta che emozionato per
quell’incontro inatteso gli chiese di poter tornare con il figlio, che
sarebbe impazzito per un suo autografo. Marco gli diede una pacca sulla
spalla e rispose “va bene, ci vediamo domani”. L’esatto opposto di quello
che solo un’ora dopo, un Pantani sconvolto e delirante avrebbe detto ai tre
ragazzi. Almeno stridente, se non inquietante. In un’ora scarsa, Pantani
avrebbe dovuto mangiare la cena ricevuta per poi imbottirsi di cocaina e
uscire dalla stanza per apparire instabile, in preda a manie persecutorie,
perso in discorsi surreali ai giovani che lo incontrano sul pianerottolo.
Rimini parla, racconta, aspetta. La pm Elisa Milocco dalle vacanze genovesi
inizia a cercare risposte.

Pantani, il giallo dei pusher. Contatti frenetici al telefono mentre Marco
era già morto. L’indagine per omicidio: cellulari impazziti tra le 13 e le
20. Il gelo del magistrato che archiviò: per me parlano gli atti. Si riparte
da zero: il fascicolo affidato a una giovane pm, l’ultima arrivata nella
procura. Dall’esame dei tabulati l’ultimo mistero sulla fine del Pirata nel
motel Le Rose di Rimini.Il legale della famiglia: “Possibile colmare le
lacune”, scrivono Marco Mensurati e Matteo Pinci su “La Repubblica”. La
nuova indagine sulla morte del Pirata ripartirà da una serie di tabulati
telefonici. Numeri che si incrociano in maniera convulsa nelle ore
immediatamente successive all’omicidio di Marco Pantani, in quel tragico
pomeriggio del 14 febbraio 2004, e che disegnano una strana, fittissima
triangolazione tra Fabio Miradossa, Ciro Veneruso – vale a dire il fornitore
e lo spacciatore del ciclista (successivamente per questo condannati) – e
altri numeri per il momento non meglio identificati. Cosa c’era all’origine
di quel febbrile giro di chiamate rimbalzato nell’etere tra le 13 e le 20 di
quel giorno? Chi sapeva cosa? Per quale motivo, di punto in bianco, due
“pesci piccoli” dello spaccio in Riviera cominciano ad agitarsi in maniera
scomposta? Ci vorranno mesi per saperlo. Le indagini penali, si sa, hanno
tempi lunghi, specialmente quando diventano tecniche. Ma ormai la macchina
si è messa in moto, e comunque vada, alla fine, una risposta definitiva
sulla morte di uno dei campioni più amati di sempre dovrà pur venire fuori.
Almeno questo è l’intento del procuratore di Rimini Paolo Giovagnoli.
“Abbiamo appena ricevuto le carte presentate dai familiari e aperto
un’indagine. È un atto dovuto quando arriva un esposto-denuncia per omicidio
volontario. Leggeremo le carte, se ci sarà l’esigenza di indagini chiederemo
al giudice”. Le carte, in realtà, Giovagnoli le aveva già lette la scorsa
settimana facendo in tempo ad aprire il fascicolo “contro ignoti” e ad
affidare l’inchiesta a una giovane fidata collega, il pm Elisa Milocco. In
procura – dove tutti si nascondono dietro il più assoluto segreto
istruttorio – nessuno sottovaluta la difficoltà di un cold case del genere,
con una vittima tanto famosa e amata, uno scenario alternativo così
suggestivo, e con dieci anni di distanza a rendere tutto, se possibile,
ancor più complicato. Basti pensare che il luogo del delitto, semplicemente,
non c’è più: il residence Le Rose, nella cui stanza D5 venne ritrovato, il
14 febbraio 2004, il cadavere di Marco Pantani, è stato demolito. E non è un
dettaglio da poco. Molto, nella ricostruzione originaria, quella fatta a
pezzi dalle indagini difensive condotte dall’avvocato Antonio De Rensis,
ruotava attorno al fatto che nessuno fosse entrato o uscito in quei giorni
dalla stanza di Pantani, visto che nessuno era passato per la portineria
chiedendo di lui. In realtà, si è scoperto, quella stanza, così come tutte
le altre in quel residence, poteva essere raggiunta comodamente e con la
massima discrezione dal garage (non c’era nemmeno una telecamera di
controllo). Insomma, in quei giorni chiunque potrebbe essere entrato e
uscito dalla stanza di Pantani, spacciatori, vecchi amici del posto, gente
venuta da Milano. Chiunque, insomma, oltre allo stesso Pantani e ai suoi
eventuali assassini. Purtroppo però non sarà possibile effettuare alcun
sopralluogo. Ciononostante la voglia di fare luce su un caso che da anni
avvelena le acque di questa piccola procura è tanta. Ancora ieri Paolo
Gengarelli, il pm della prima inchiesta, quella oggi sotto tiro ha
rilasciato una dichiarazione non proprio amichevole: “Io non commento la
notizia, sono un magistrato con l’abitudine di non parlare come dovrebbero
fare in tanti, lascio che siano gli atti a farlo”. La scelta di affidare
l’incartamento a un magistrato “nuovo” dell’ambiente, lontano per
definizione da ogni possibile pressione locale non appare casuale. La strada
dell’indagine a questo punto è abbastanza scontata. La dottoressa Milocco al
ritorno dalle vacanze (ha chiuso ieri l’ufficio portando con sé il
fascicolo) avvierà i primi accertamenti, delegando la polizia giudiziaria.
Poi disporrà una nuova perizia. Il cuore delle accurate indagini effettuate
da De Rensis e il suo staff è infatti la perizia medico legale del professor
Francesco Maria Avato che ha parlato di “ferite non autoprodotte, ma inferte
da terzi” sul corpo di Pantani, di “evidenti segni di trascinamento del
cadavere”, e della “probabile ingestione della cocaina da una bottiglia di
acqua” ritrovata sulla scena e “mai repertata”. Elementi che, se confermati,
non lascerebbero più dubbi sull’omicidio di Pantani. Resterebbe a quel punto
da rispondere alle altre domande: chi e perché ha ucciso Pantani, e chi e
perché ha coperto l’assassino? Nell’istanza presentata da Rensis ci sono
numerosi altri elementi che potrebbero aiutare a rispondere anche a queste
domande. E i tabulati telefonici sono uno di questi. “Quando i genitori di
Marco mi hanno contattato, mi sono riservato prima di capire perchè non
volevo creare false illusioni ma non c’è voluto molto per comprendere che
c’era molto lavoro da fare – racconta l’avvocato De Rensis ai microfoni di
Sky -. La stessa consulenza scientifica è stata inizialmente un percorso
esplorativo ma abbiamo capito subito che dovevamo buttarci a capofitto con
una rilettura della vicenda. Sono stati mesi molto faticosi, dolorosi, pieni
di tensione e speranza. Adesso sappiamo che abbiamo molto lavoro da fare
insieme e mi concentro sul fatto che inizia un nuovo percorso faticoso,
lungo, ma che affronteremo con determinazione massima. La prima indagine?
Penso al passato soltanto in proiezione futura, sono molto concentrato su
quello che dobbiamo fare”. L’esposto presentato, spiega De Rensis, “è una
rilettura, un esame degli atti di indagine e processuali, c’è una corposa e
approfondita consulenza scientifica, tutti elementi che convergono verso una
direzione molto precisa. Ci sono state molte mancanze, molte lacune,
accertamenti non fatti e una tesi seguita poche ore dopo la scoperta del
corpo di Marco mai più abbandonata e che credo vada invece assolutamente
rivisitata”. Ancora nessuna pronuncia su possibili sospetti: “Iniziando a
fare luce sulle mancanze, sulle lacune, sulle incongruenze, sulle anomalie,
credo che la strada si illuminerà da sola, il percorso sarà molto chiaro e
preciso. Il perchè certe cose sono venute meno non lo devo dire io, chi fa
le indagini avrà molti punti da chiarificare e credo che questo sia
assolutamente possibile. Colmare le lacune credo sia possibile, le carte
parlano molto, il video parla molto, leggendo le carte nel modo giusto,
leggendo il video e altri dati credo che sia possibile colmare queste
lacune”. “Credo che adesso inizierà un’indagine molto faticosa – conclude De
Rensis – ma il procuratore capo di Rimini è un galantuomo, la dottoressa
Milocco mi ha dato l’impressione di una persona molto rigorosa. C’è
grandissima fiducia nell’opera della magistratura e daremo il nostro piccolo
supporto perchè i fatti vengano chiarificati e la verità fattuale prevalga
su quella ufficiale che penso sia molto lontana dalla verità dei fatti”.