Una volta, incontrandolo, si accennava l’atto di togliersi il cappello e, iniziando appena un inchino, lo si salutava con un “Buongiorno don Evaristo, sia lodato Gesù Cristo”.
Oggi è diverso: lo si incontra a bordo di costose autovetture e gli si lancia un “Ciao Evaristo, stasera vengo a prendere un cognacchino in sacrestia”.
Anche il prete ha cambiato abito, in ogni senso. Alla tonaca ha sostituito la camicia con i bottoncini al collo, il pantalone di vigogna con le pieghe ben stirate, la giacca con i due spacchi: alle scarpe sbucciate dalle lunghe scarpinate ha sostituito il mocassino Tod’s e il sandalo di Ferragamo, ai pedali della sbrindellata bicicletta il motore ibrido teslato, donando così alla cura delle anime cui è dedito più brio e tempestività.
Anche dentro il prete ha cambiato veste, in nome della evoluzione: è più indulgente, più clemente, comprensivo, sportivo.
Ha smesso di parlare in latino e, a seconda dei casi, usa l’italiano o, specie il prete di campana, il vernacolo. Legge Socrate quando dice che “credere e sapere non sono la stessa cosa”.
Al burbero prete che aveva la vocazione del Pubblico Ministero è subentrato il serafico pastore che punisce col perdono, che “chiude un occhio” in nome di ciò che un giorno Montesquieu s’affannò a sentenziare: “Gli uomini compiono più facilmente una grande azione che una buona azione”.
Oggi il prete è più consapevole dei peccati, delle debolezze della carne, dei limiti dell’uomo: e assolve, magari pensando a chi dovrà assolvere lui.
Si è così quasi creato un rapporto di reciproco soccorso tra il pastore e il gregge. Il prete non è più il Ministro di Dio ma l’amico comune di Dio e degli uomini, in un rapporto che i comuni mortali tendono a rendere paritetico, avvicinando per affinità non se stessi a Dio ma Dio a se stessi. La clemenza del sacerdote assume così valore di permissività, la sua comprensione, incentivo a perpetuare le proprie debolezze.
I dieci comandamenti, percorrendo tale strada, diventano leggi fasciste del Codice Rocco; al peccato mortale si guarda con lo stesso sdegno che accompagna la richiesta di ripristino della pena di morte; la scomunica è antidemocratica e viziata di anticostituzionalità; la penitenza una sanzione afflittiva che urta contro i principi del recupero del reo.
Anche la liturgia, con il “tu”, il suono della chitarra e l’abbraccio, ha fatto sì che le distanze tra il sacerdote e i fedeli e tra la terra e il Cielo si dimezzassero. Solo che, semplificati i riti, modernizzati i costumi, mutate le coreografie il problema della fede religiosa è rimasto e la latitanza del gregge si è accentuata. Il “balletto”, in Chiesa o il prete in pantaloni non hanno fatto che avvicinare l’uomo all’uomo, triplicando le distanze con l’Eterno. Perché è inutile affannarsi nella ricerca di soluzioni alternative, come succede per la stretta creditizia o per la lotta all’evasione fiscale. Essere cristiani è una cosa seria: un Dio a cui dare del “tu” vestito di vigogna e presente dietro la porta di casa non si riesce ad immaginarlo.
Il dramma del prete è oggi questo: mostrare Dio più da vicino e sentire il gregge allontanarsi sempre più da Lui, umanizzare la divinità e ritrovarla sempre più isolata degli uomini! Perché Dio rimarrà sempre vivo solo nella stupenda immagine trasmessaci da Talete: “Dio, ciò che non comincia e non finisce”.