Corte di Cassazione: “Sequestrare i cellulari ai giornalisti è un metodo da Stato di polizia”. Luigi Longo: “In due mesi due sentenze innovative della suprema corte. Adesso tocca alla politica bloccare la deriva “poliziesca” di alcuni pubblici ministeri
Mar 23, 2025 - redazione
Ecco la sentenza integrale. C’è una parte della magistratura inquirente, che non rispetta le leggi dello Stato italiano, nei fatti si stanno mettendo fuori dalla costituzione italiana. Per alcuni aspetti, hanno disprezzo di tutto ciò che nei loro teoremi non vengono applicati. La responsabilità civile si rende necessaria per far ritornare con piedi per terra questi pubblici ministeri, che entrano nella vita di ognuno di noi, con sistema di stato di polizia
REPUBBLICA ITALIANA
In Nome del Popolo Italiano
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SESTA SEZIONE PENALE
Emilia Anna Giordano Giuseppina Anna Rosaria Pacilli Benedetto Paternò Raddusa ha pronunciato la seguente sul ricorso proposto da: Presidente N. sent. sez. 8 Relatore CC 22/01/2025 N. R.G. 34965/2024 SENTENZA avverso l’ordinanza n. 164/24 del Tribunale di Firenze del 01/10/2024 letti gli atti, il ricorso e l’ordinanza impugnata; udita la relazione del consigliere Orlando Villoni; letta la requisitoria scritta del pubblico ministero in persona del Sostituto Procuratore generale Fabio Picuti, che ha concluso per il rigetto; letta la memoria scritta depositata per il ricorrente dall’avv. con cui si insiste per l’accoglimento dei motivi di ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con l’ordinanza impugnata il Tribunale di Firenze ha rigettato l’istanza di riesame del decreto di perquisizione locale e telematica e contestuale sequestro emesso dal Procuratore della Repubblica presso lo stesso Tribunale in data 24/07/2024 ed eseguito il successivo 31/07/2024, istanza proposta nell’interesse di indagato per il reato di cui agli artt. 110, 326 cod. pen. in concorso con pubblici ufficiali in corso di identificazione, che gli avrebbero fornito atti coperti da segreto istruttorio relativi al suicidio di un’allieva della Scuola Marescialli dell’Arma dei Carabinieri di successivamente pubblicati in un articolo del periodico in formato cartaceo e telematico. 2. Avverso l’ordinanza ha proposto ricorso per cassazione l’indagato, attraverso i suoi difensori, che deducono tre motivi di censura. 2.1. Nullità del decreto di perquisizione e sequestro per violazione degli artt. 247 e 253 cod. proc. pen. stante l’insussistenza del fumus commissi delicti nonché per difetto dei necessari elementi in ordine alla sussistenza del reato (artt. 110, 326 cod. pen.) ipotizzato a carico del ricorrente. Nella fattispecie mancano i presupposti per la configurabilità del delitto ipotizzato di concorso in rivelazione di segreti d’ufficio, atteso che al momento della redazione dell’articolo non v’era alcuna indagine formalmente aperta sul suicidio dell’allieva Marescialla dei Carabinieri, essendo stata solo disposta una iscrizione a mod. 45 presso la Procura della Repubblica di Firenze, risultando il suicidio in questione un fatto non costituente reato. Quella comunicazione e gli atti ad essa allegati – che comunque non sono stati utilizzati per la redazione dell’articolo giornalistico – il giorno 17 magio 2024 non erano coperti da alcun segreto investigativo, non potendosi gli stessi definire atti d’indagine. Del resto l’art. 329 cod. proc. pen. che fissa l’obbligo del segreto per gli atti d’indagine riguarda soltanto procedimenti aventi ad oggetto ipotesi di reato relativi ad iscrizioni contro ignoti a mod. 44 o contro noti a mod. 21. Altrettanto insostenibile è la tesi che nel reato, semmai ipotizzabile, abbia concorso il ricorrente giornalista: è pacifico, infatti, che in difetto di identificazione del presunto Pubblico Ufficiale che avrebbe tradito il segreto, sia giuridicamente preclusa l’ipotesi del concorso morale dell’extraneus giornalista con l’intraneus rimasto ignoto. L’arresto giurisprudenziale citato a sostegno della decisione del Tribunale è del resto in contrasto con la rimanente giurisprudenza formatasi sul tema. Non ricorreva, inoltre, alcun concreto pericolo derivante dalla pubblicazione delle scarne notizie relativi agli esiti degli accertamenti fin allora condotti e conclusi, così da doversi escludere anche sotto tale profilo l’astratta configurabilità del reato. Il ricorrente si è limitato a riportare il numero delle persone sentite a sommarie informazioni testimoniali nell’immediatezza dei fatti, il luogo dove l’atto suicidiario si era verificato e l’uso della pistola d’ordinanza oltre che una ultima telefonata intercorsa tra la vittima e la madre ed alcune poco rilevanti confidenze condivise con una compagna di corso, nulla cioè che avrebbe potuto inquinare la ricostruzione della dinamica dei fatti, posto che tutti gli accertamenti erano stati ormai espletati e conclusi già il giorno successivo all’evento. 2.2. Difetto di motivazione dell’ordinanza impugnata in ordine alla dedotta nullità del decreto di perquisizione e sequestro per violazione degli artt. 256, 200 e 191 od. proc. pen. La Procura della Repubblica ha sequestrato tutto il materiale informatico rinvenuto nei dispositivi del ricorrente con modalità invasive, senza esplorazione di modalità alternative e con palese violazione del principio di proporzionalità tra il contenuto del provvedimento ablativo, conclusosi con la duplicazione integrale delle memorie di tutti gli apparecchi rinvenuti e le esigenze di accertamenti dei fatti. Pur avendo citato fonti normative anche sovranazionali e ricordato importanti precedenti giurisprudenziali a tutela del lavoro dei giornalisti professionisti, stigmatizzando provvedimenti eventualmente in contrasto con il principio di proporzionalità, il Tribunale ha, tuttavia, spostato l’attenzione dalle modalità esecutive della perquisizione e del sequestro, obiettivamente illegittime, alle operazioni successive a detto momento ed al tempo necessario per portarle a compimento. In conclusione nulla il Tribunale ha argomentato quanto alla totale duplicazione dell’archivio del ricorrente, comportante la chiara compromissione della libertà di espressione di cui la libertà del giornalista costituisce elemento fondante, così come la tutela delle sue fonti. L’atto impugnato con istanza di riesame si è tradotto, dunque, in un palese aggiramento del principio di cui all’art. 200 cod. proc. pen., in quanto eseguito con modalità che hanno violato i presidi normativi, dettati per evitare indebite invasioni nella sfera relazionale tra il giornalista e le sue fonti, ivi compreso il rispetto della particolare procedura ivi delineata.
2.3. Difetto di motivazione dell’ordinanza impugnata in ordine alla dedotta nullità del decreto di perquisizione e sequestro per violazione degli artt. 256 cod. proc. pen., 15 Cost. e 1, 8, 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Come anticipato, nonostante l’indicazione da parte del Pubblico Ministero nel provvedimento di perquisizione di determinate chiavi di ricerca, per quanto solo a titolo esemplificativo, nell’estrarre la copia forense dei dati allocati sui dispositivi del ricorrente, ne è stato duplicato l’intero contenuto, senza alcuna particolare selezione. Tutto ciò è vero che in sede di perizia del materiale informatico, l’Ufficiale di P.G. addetto non è stato in grado di ricostruire quali chiavi di ricerca siano state utilizzati per analizzare i contenuti estratti in sede di perquisizione. Al momento della stesura del ricorso nulla è stato, infine, riconsegnato al ricorrente, sebbene in alcun dispositivo sequestrato siano stati rinvenuti elementi utili alle indagini.
CONSIDERATO IN DIRITTO 1.
Il ricorso è fondato e merita accoglimento. 2. Con il primo motivo di doglianza, i difensori del ricorrente pongono, per quanto in maniera non particolarmente approfondita e insieme a diverse altre, la questione fondamentale della vicenda in esame e vale a dire la possibilità di ravvisare la responsabilità del giornalista in ordine al reato di cui all’art. 326 cod. pen., quando non siano emersi elementi concreti atti a dimostrarne un ruolo attivo, mediante determinazione, istigazione o induzione, nell’acquisizione della notizia destinata a rimanere riservata ovvero quando difettino gli estremi di una condotta di concorso nel reato di cui all’art. 326 cod. pen., essendosi egli limitato alla pubblicazione di notizie ricevute da chi al mantenimento del segreto era, invece, tenuto. Dalla risposta a tale quesito derivano, infatti, importanti conseguenze non limitate alla vicenda in esame ma anche e soprattutto di carattere generale riguardo all’ampiezza della sfera di conoscenza riconosciuta al giornalista nello esercizio della propria attività (art. 15 Cost.), con riferimento specifico alla tutela delle sue fonti fiduciarie che l’ordinamento gli riconosce nei termini e nei limiti di cui all’art. 200, comma 3, cod. proc. pen.
3. La valutazione sul tema prende necessariamente le mosse dai termini in cui la legge, interpretata alla luce della giurisprudenza di questa Corte di legittimità, individua la responsabilità a titolo concorsuale del soggetto extraneus nel delitto di rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio, costituente reato proprio che può essere commesso unicamente da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio. Il Collegio è consapevole che la stessa giurisprudenza di questa Corte di cassazione non appare univoca sul punto. Sono intervenute, infatti, diverse pronunce che hanno fornito un’applicazione estensiva dell’art. 326 cod. pen. al soggetto estraneo, anche cioè in assenza di condotte di induzione e/o istigazione allo stesso ascrivibili. E’ stato cosi affermato che nel integra il concorso delitto di rivelazione di segreti d’ufficio la divulgazione da parte dell’extraneus di una notizia segreta, riferitagli come tale, realizzandosi in tal modo una condotta ulteriore rispetto a quella dell’originario propalatore (Sez. 5, n. 1957 del 17/11/2020, Giardini, Rv. 280413). Nel medesimo solco interpretativo si è, altresì, affermato che integra il concorso nel delitto di rivelazione di segreti d’ufficio la divulgazione da parte dell’ extraneus del contenuto di informative di reato redatte da un ufficiale di polizia giudiziaria, realizzandosi in tal modo una condotta ulteriore rispetto a quella dell’originario propalatore (Sez. 6, n. 42109 del 14/10/2009, Pezzuto, Rv. 245021, in fattispecie in cui il contenuto delle informative era stato trasmesso via fax a diverse autorità e trasferito su supporto informatico in CD-ROM poi consegnato ad un giornalista, pronuncia citata a pag. 6 dell’ordinanza impugnata). Ed ancora che in tema di rivelazione di segreti di ufficio, il soggetto ‘estraneo’ risponde del reato a titolo di concorso con l’autore principale qualora abbia rivelato ad altri una notizia segreta riferitagli come tale, giacché realizza una condotta ulteriore rispetto a quella dell’originario propalatore (Sez. 6, n. 15489 del 26/02/2004, Iervolino ed al., Rv. 229344). 4. In senso contrario, nel senso, cioè, che occorre la determinazione, l’istigazione o l’induzione da parte dell’estraneo nei confronti del soggetto divulgatore del segreto a fondare la sua responsabilità a titolo di concorso nel reato stanno una serie di pronunce, alcune molto recenti, che si ricollegano, peraltro, ad un orientamento interpretativo da tempo presente nella giurisprudenza di questa Corte, a partire da una lontana decisione delle Sezioni Unite rimasta insuperata nella nettezza delle sue affermazioni.
Il delitto di rivelazione dei segreti di ufficio si risolve in una fattispecie plurisoggettiva anomala, essendo la condotta incriminata legata a chi riceve la notizia e alla previsione della punizione nei confronti del solo autore della rivelazione, nel senso, cioè, che il mero recettore della notizia non può essere assoggettato a pena in conformità del principio di legalità. Tuttavia, in base all’ordinaria disciplina del concorso di persone nel reato, non può escludersi la partecipazione morale del destinatario della rivelazione; partecipazione, questa, che, oltre alle tradizionali forme della determinazione e della istigazione, comprende anche l’accordo criminoso e, comunque, può estrinsecarsi nei modi più vari ed indifferenziati, ribellandosi a qualsiasi catalogazione o tipizzazione, a cui invece deve uniformarsi la condotta dell’autore dell’illecito e, quindi, del concorrente che esegue l’azione vietata dalla norma e non già quella del partecipe (Sez. U, n. 420 del 28/11/1981, dep. 1982, Folino, Rv. 151619) Si è, così, in seguito ribadito che in tema di rivelazione di segreti d’ufficio, ai fini della sussistenza del concorso nel reato dell’extraneus, è necessario che questi non si sia limitato a ricevere la notizia, ma abbia istigato o indotto il pubblico ufficiale ad attuare la rivelazione, non essendo sufficiente ad integrare il reato la mera rivelazione a terzi della notizia coperta da segreto (Sez. 6, n. 34928 del 17/04/2018, Guglielmo, Rv. 273786; conf. Sez. 6, n. 47997 del 18/09/2015, Gatto, Rv. 265752; Sez. 1, n. 5842 del 17/01/2011, Barranca, Rv. 249357). E ancora che ai fini della configurabilità della responsabilità dell’extraneus per concorso nel reato proprio, è indispensabile, oltre alla cooperazione materiale ovvero alla determinazione o istigazione alla commissione del reato, che l’intraneus esecutore materiale del reato sia riconosciuto responsabile del reato proprio, indipendentemente dalla sua punibilità in concreto per la eventuale presenza di cause personali di esclusione della responsabilità (Sez. 2, n. 219 del 17/10/2018, dep. 2019, Di Silvio, Rv. 274461). In apparenza parzialmente difforme, ma solo per la peculiarità della vicenda sostanziale, è quella pronuncia che ha affermato il principio che risponde del reato di rivelazione di segreti di ufficio, a titolo di concorso con il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, il soggetto extraneus che, ricevuta una notizia coperta da segreto, abbia istigato o indotto il suo informatore o terzi a conoscenza della stessa, a renderla nota ad altri soggetti (Sez. 6, n. 39428 del 31/03/2015, Berlusconi, Rv. 264782). Molto di recente l’orientamento restrittivo è stato riaffermato anche da Sez. 6, n. 3755/25 del 04/12/2024, Davigo non massimata.
5. Tutto quanto premesso, i rilievi difensivi circa la pretesa impossibilità di configurare il delitto di cui all’art. 326 cod. pen. a seconda della modalità di iscrizione da parte del Pubblico Ministero della notizia di reato, per quanto infondati, evidenziano, mediante il riferimento all’iscrizione della notizia unicamente nel Registro mod. 45 (fatti non costituenti reato) al momento della pubblicazione del servizio, che l’atto di indagine è stato disposto sul presupposto dell’inesistenza di profili di responsabilità a carico di soggetti qualificati (pubblici ufficiali) per quanto ancora ignoti, ciò che avrebbe imposto l’iscrizione nel Registro mod. 21 e che la perquisizione era verosimilmente deputata proprio alla identificazione della o delle fonti e dei responsabili della rivelazione della notizia riservata, sempre che possa ritenersi tale quella relativa ad un suicidio. In altri termini, la dedotta violazione dell’art. 15 Cost. nonché dell’art. 200 cod. proc. pen. è consistita nel fatto che la perquisizione è stata deliberatamente mirata a disvelare la fonte informativa del giornalista, sebbene potenzialmente rilevante ai fini dell’individuazione del responsabile del reato di cui all’art. 326 cod. pen., senza alcun vera ricaduta sulle indagini, che oltre tutto sembrano essersi limitate agli accertamenti, preliminari e funzionali, volti a stabilire che si fosse effettivamente trattato di un suicidio. Tale modus operandi da parte dell’organo requirente non è obiettivamente consentito alla luce del quadro normativo costituzionale e primario vigente. L’art. 200, comma 3, cod. proc. pen. estende ai giornalisti professionisti iscritti all’albo professionale le guarentigie riconosciute dalla legge alle altre categorie professionali indicate comma 1 ‘relativamente ai nomi delle persone dalle quali i medesimi hanno avuto notizie di carattere fiduciario nell’esercizio della loro professione’, aggiungendo ‘che se le notizie sono indispensabili ai fini della prova del reato per cui si procede e la loro veridicità può essere accertata solo attraverso l’identificazione delle fonti’ il giudice e non il Pubblico Ministero ‘ordina al giornalista di indicare la fonte delle sue informazioni’. Deve, dunque, sussistere la necessità di accertare dei fatti costituenti reato, il che non era nel caso di specie, e ricorrere l’evenienza che l’esame testimoniale della fonte riservata costituisca la sola modalità per l’accertamento di quei fatti, anch’essa non riscontrabile nella fattispecie in esame in cui l’eventuale identificazione del pubblico ufficiale responsabile della divulgazione della notizia presunta riservata non avrebbe avuto alcuna incidenza sul fatto da accertare (modalità del decesso della Marescialla rinvenuta morta). Resta ovviamente all’Arma dei Carabinieri la possibilità di avviare indagini interne volte ad accertare, a fini disciplinari o propriamente investigativi, modalità ed eventuali responsabili della divulgazione all’esterno della notizia ritenuta di carattere riservato.
5. L’ordinanza impugnata nonché lo stesso decreto del Pubblico Ministero del 24/07/2024 debbono, pertanto, essere annullati senza rinvio difettando del tutto il fumus del reato ipotizzato e tutto quanto sequestrato deve essere restituito al ricorrente avente diritto. Atteso il carattere pregiudiziale delle considerazioni che precedono in ordine alla non configurabilità dell’illecito penale nei confronti del ricorrente indagato, risultano assorbiti tutti gli ulteriori profili.
P. Q. M.
Annulla l’ordinanza impugnata nonché il decreto di sequestro del Pubblico Ministero del 24/07/2024 e dispone la restituzione di quanto in sequestro all’avente diritto. Manda alla Cancelleria per l’immediata comunicazione al Procuratore Generale in sede per quanto di competenza ai sensi dell’art. 626 cod. proc. pen.
Così deciso, 22 gennaio 2025
I consigliere estensore Orlando -Villpni SEZIONE VI PENALE
2 1 MAR 2025 DEPOSITATO IN CANCELLERIA IL FUNZIONARIO GIUDIZIARIO
Dott.ssy Gioppina Cirimele
Il Presidente Ercole Aprile