“Da Vienna a Parigi. Gli ultimi giri di valzer”, l’ultimo libro di Pino Romeo
Mag 12, 2021 - redazione
Le note dell’autore
Aprendo un volume su Carlo Magno e Maometto e sulla storia delle Grandi Stagioni, Heiko Steuer nell’incipit al suo contributo scriveva:
La storia viene continuamente riscritta. Mutandosi il modo di considerare il presente, cambia anche la maniera di guardare agli avvenimenti del passato. Le interpretazioni dei motivi per cui gli eventi sono accaduti in quel modo, e non altrimenti, rimangono controverse. E sono proprio le tesi autenticamente formulate a stimolare la discussione degli storici su questioni dibattute relative ad un’epoca, consentendo così di penetrare più profondamente la storia.1
Una riflessione, che si adatta ad ogni processo storico e che lascia aperti spazi di interpretazione e di approfondimento soprattutto quando i tempi della storia non sono così rapidi nel definire un ordine politico risolutivo.
A questa, si potrebbe aggiungere l’osservazione di Edward Hallett Carr per il quale i fatti non parlano da soli, ma i fatti parlano perché la storia li fa parlare.2 Oppure, sottolineare come e in che misura la costruzione di una memoria diventa essa stessa uno strumento per definire, e collocare nel tempo, fatti storici che sopravvivono ben oltre il vissuto individuale e delle società nelle quali essi si manifestano o si consumano. Se così è, i fatti
scelti diventano fatti storici perché a tali fatti si assegna un significato storico, poiché ad essi si attribuisce un valore di comprensione e di comunicazione che tende ad influenzare le relazioni politiche successive.
D’altra parte, tra i banchi di scuola aleggiano sempre molti spiriti, quando la storia si avvolge su se stessa e cerca di superare le nebbie del ricordo per assumere le vesti dell’obiettiva narrazione dei fatti. La narrazione non è solo un’articolata successione di eventi. Per giungere ad una significativa comprensione della realtà futura, essa necessita di una comprensione delle scelte guardando alle motivazioni e agli interessi dell’agire politico. Ogni ricostruzione storica può assumere una sua importanza quando, a distanza di tempo e di eventi, si giunge ad una visione d’insieme che permette di guardare nella loro completezza, e “risultati alla mano”, i processi che hanno determinato l’avvio delle diverse epoche. Come scriveva Federico Chabod a premessa della sua L’Italia contemporanea (1918-1948), raccontare la storia nella contemporaneità degli eventi potrebbe spaventare dal momento che
Non si è giunti a quella distanza di tempo che consente allo storico di cogliere e intendere gli avvenimenti nel loro insieme.
Tuttavia, già nella prima edizione francese del volumetto edito nel 1950, Chabod, ad esempio, indicava proprio nel 1919 l’anno che avrebbe determinato il futuro dell’Italia e dell’Europa. Un periodo storico complicato, che si presentava aprendo il Novecento post-bellico con un’ambiguità di fondo rappresentata da una vittoria che non avrebbe portato quella pace definitiva su cui tutti i popoli contavano. Una vittoria senza vincitori, quella voluta dal presidente americano Woodrow Thomas Wilson, ma che avrebbe avuto risultati completamente contrari alle premesse ideali dell’intervento americano, considerato che, la Grande Guerra, avrebbe posto le basi per una nuova deriva che avrebbe trascinato ben presto l’Europa verso la tragica esperienza dei totalitarismi e nelle profondità di un nuovo conflitto mondiale.
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In un sistema resosi sempre più piccolo ed interdipendente, ogni popolo ancora oggi vive in un modello di relazioni politiche che è il prodotto di una memoria vivente, di quel passato nel quale si sono consumate velleità imperiali, imposte e difese con violenza. Velleità maturate nel grembo di società sempre più moderne ed economicamente dipendenti l’una dall’altra. Società che guardavano ad idee che si affrontavano in una corsa a dominare un nuovo assetto delle relazioni umane. Una rapida e necessaria conquista di un’utopistica visione unilaterale della diversità umana. Una diversità, che aveva ben poco di moderno nelle sue espressioni ancorate ad una divisione del mondo ispirata all’unica unità possibile: quella garantita dal dominio della cultura europea.
La Grande Guerra fu certamente prima perché coinvolse gli Stati e il mondo nella sua globalità. Ma fu pure l’ultima guerra dell’Ottocento post-viennese, nemesi del fulgore vittoriano e dello slancio verso la scoperta e conquista dell’ancora ignoto o dell’ancora non dominato. Essa fu anche la prima guerra del Novecento che avrebbe spostato in avanti il forte legame tra dottrine militari e tecnologia. Tra conoscenze e sentimenti. Essa fu moderna per il coinvolgimento totale delle popolazioni, degli animi e delle volontà. Fu uno scontro che pose le monarchie e i popoli sullo stesso piano del dramma e costrinse l’Europa a piegare se stessa al giudizio ideologico di un nuovo modo di vedere l’altro. Un giudizio diviso tra un positivismo evoluzionista selettivo e futurista, un liberismo volto al profitto e una proposta universalistica totalitaria, barcamenandosi tra il marxismo, la socialdemocrazia e il nazionalismo più radicale. Modelli di pensiero, questi ultimi, e alternative di organizzazione della vita politica sociale ed economica, che avrebbero ben presto fatto delle masse e degli Stati gli attori protagonisti di un confronto che li avrebbe visti scendere al piano di un realismo disarmante che affonderà quel sussulto di dignità che sarà rappresentato dalla Repubblica di Weimar.
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Dalle effimere pretese di potenza di nazioni legate tra di esse da un cordone stretto alla vita di una diplomazia segreta ottocentesca, la Grande Guerra avrebbe aperto quell’epoca che Ernst Nolte – senza lasciarsi andare a fantasie accademiche con buona concretezza e lucida obiettività – definirà la seconda guerra dei Trent’anni, quella compresa tra il 1915 e il 1945. Ponendo in campo l’idea di una conflittualità diffusa che non sarà risolta dalla Conferenza di pace di Parigi apertasi il 18 gennaio 1919, la guerra civile europea fu un prodotto di transizione che sommerà due guerre per drammaticità e per definitiva scomparsa di quella centralità europea
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sopravvissuta alla sua conservazione a Vienna nel 1815 quale guida dei destini del mondo. Un eurocentrismo che collasserà dopo il novembre del 1918 perché costruito sulla poca chiarezza, o fiducia, tra coloro che sarebbero stati gli artefici del disastro, dove la differenza tra vincitori o sconfitti avrebbe avuto ben poca importanza all’indomani dell’ascesa del millenarismo nazionalsocialista.
La riservatezza e il segreto furono i caratteri di una diplomazia miope, poco attenta ai cambiamenti nei processi sociali e che fece sì che ogni cancelleria diventasse vittima irresponsabile di se stessa, delle diverse tessiture fatte al di sopra dei destini di popoli esclusi da ogni conoscenza di scelte delle quali ne avrebbero pagato il prezzo. Su questo, Immanuel Kant ebbe le idee chiare, riferendosi ai trattati di pace, affermando che
Un trattato di pace non può valere come tale se viene fatto con la segreta riserva di materia per una futura guerra.
Con queste parole il filosofo di Königsberg, nell’introdurre la prima regola nella Parte Prima della sua Per la pace perpetua, sottolineò come e in che misura la segretezza della diplomazia, della contrattazione rappresentasse lo specchio di un’Europa pretenziosa che all’indomani della Grande Guerra rischiava di non avere più un suo futuro.4 Dopo la Conferenza di pace di Parigi, e dopo tutti i negoziati maturati al suo interno, ciò che si voleva offrire era un ordine nuovo. Un ordine costruito su relazioni politiche che avrebbero dovuto dare certezza sulle diverse leadership, sulla credibilità di ogni attore protagonista, nel continente quanto nella comunità internazionale. Le monarchie sconfitte sarebbero crollate, inabissandosi nel mare della storia. Quella austro-ungàrica, nel disfacimento dell’Impero e nell’affermazione del nazionalismo quale pensiero dominante nel cammino dei popoli. Quella tedesca, nella disfatta economica e sociale di una concezione imperiale che avrebbe trascinato con sé, al termine del conflitto, i buoni propositi socialdemocratici di Weimar. Eppure, le potenze vincitrici, ad eccezione degli Stati Uniti, non sarebbero state esenti dal dover pagare i costi della vittoria con un’erosione del potere coloniale e con la perdita della visione eurocentrica di un mondo che non sarebbe stato più lo stesso. Un declino che fu la conseguenza del convincimento di appartenere ad un’epoca storica immutabile, quella delle esperienze imperiali, credendo, negli anni a seguire, di poter andare oltre l’orizzonte del disastro annunciato dell’Europa dei totalitarismi.
Così, se la fine della prima guerra dei Trent’anni coinvolse un’Europa, nel 1648, alla ricerca di un ordine più chiaro nei rapporti di potenza aprendo le porte alle monarchie nazionali – aspetto, questo, che segnerà le epoche napoleoniche, ma anche la crescita delle idee illuministiche – la rottura delle regole vestfaliane, la fine della legittimazione indiscussa delle case regnanti sarebbe stata la ragione della crisi degli Imperi. Di quelle esperienze storiche di potere che, riproposte nella ricostruzione post-napoleonica viennese, si sarebbero dissolte sui campi di battaglia tra il 1914 e il 1918. Alla Conferenza di pace di Parigi, nel 1919, altre regole ordinatorie, o costituenti, sarebbero ben presto franate, nonostante l’idealismo wilsoniano, laddove il convincimento del mai più guerre si sarebbe annullato nell’assenza di prospettiva sugli effetti che, ad esempio, il trattato di Versailles del 28 giugno 1919 avrebbe avuto sul popolo tedesco e sugli altri Stati considerati sconfitti. La seconda guerra dei Trent’anni, quella che avrebbe trascinato l’Europa nuovamente nei drammi civili, quali premesse della nuova tragedia bellica alle porte, avrebbe dovuto individuare una strada per ricostruire nuovi assetti. Nuove sistemazioni ricercate nei campi di battaglia di società sempre più aperte, o lungo quelle linee di frattura interetniche delle popolazioni che sarebbero divenute le linee di conflittualità sulle quali una nuova architettura della violenza avrebbe costruito il suo edificio di distruzione. E questo, perché le guerre nella pace che seguirono la Conferenza di Parigi, fecero sì che lo scontro sociale, politico ed economico nato a Versailles, o a Saint-Germain-en-Laye, a Neuilly-sur-Seine piuttosto che al Trianon o a Sèvres trascinasse sul piano militare, da lì a pochi anni, nuovamente popoli e potenti. I primi, alla ricerca di un’armonia fondata sulla partecipazione dal basso contro ogni tentazione di verticalizzazione della politica; i secondi, ad affermare, nuovamente, il primato della propria potenza su quella altrui credendo di poter contare su nuove stratificazioni sociali. Ma i risultati favorirono i primi nell’ignavia dei secondi. Infatti, a distanza di qualche secolo, le conseguenze furono chiare. Se nel 1648, al termine della Guerra dei Sette Anni, a Vestfalia si affermò l’Europa delle nazioni, se nel 1814 l’Europa legittimista rispondeva ricompattandosi per arginare ogni pericolo di tentazioni post-napoleoniche, se a Vienna nel 1815 si decise di ricollocare il continente al centro del mondo, nel fallimento di Versailles nel 1919 uscì vincitrice una sola idea: quella di un’Europa dei popoli piuttosto che delle nazioni. Ma si trattava di un’idea debole, che avrebbe dovuto sacrificare ancora molte vite sugli altari dei nazionalismi non sopiti per definire un’idea politicamente compiuta del continente.
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Ma la Grande Guerra potrebbe essere riletta anche secondo nuovi punti di vista. Ad esempio, essa può essere considerata il risultato di una sovrapposizione tra idee imperialistiche fondate su una superficiale validità del laissez-faire, per quanto poco sostenibile, di fronte ad un mercantilismo neocapitalistico che si contrapponeva ad un umanitarismo predicatore. Oppure, che essa fu una sorta di lento, ma decisivo epilogo di un gioco al rialzo tra la Gran Bretagna, il suo dominio nei mari e la volontà tedesca di competere nel dirigere l’economia mondiale (Weltwirtschaft) cercando un improbabile punto di equilibrio e di coesistenza con le ambizioni di Londra.
Ciò che sarebbe rimasto sul tavolo della storia sin dall’inizio del conflitto, e da cui ripartire per definire ogni utile spiegazione alla genesi del dramma, sarebbe stata l’unica domanda alla quale ogni attore protagonista sapeva di dover rispondere prima o poi: di chi fu la colpa?
Una domanda non casuale e non da poco considerato che la risposta diventò pregiudiziale ad ogni possibilità di contrattazione, alla stessa negoziazione e firma dei trattati di pace. Un aspetto assolutamente non di secondo piano e per due ordini di motivi. Il primo, perché la definizione delle responsabilità avrebbe assolto i vincitori dall’aver avuto in qualche modo una parte attiva nel promuovere e non impedire la Conflagrazione. Il problema principale, infatti, fu come e in che misura superare l’imbarazzante peso di una corresponsabilità dovuta, per le potenze vincitrici, al non essere state capaci, agli occhi delle rispettive opinioni pubbliche, ad evitare lo scontro. Il secondo, perché l’attribuzione della colpa avrebbe stimolato un’interpretazione più ampia dei fatti che misero in ginocchio l’Europa e si sarebbe posta quale ulteriore elemento scatenante la reazione nazista verso la Francia e le nazioni ad essa alleate. Vi è anche un terzo, per quanto poco considerato, aspetto. Quello di riuscire a superare, in qualche modo, il mito di una religione laica della guerra e quello delle responsabilità. Un mito che per gli europei poteva fondarsi sull’ideale di guerra giusta tipico di una cristianità d’altri tempi.6 Tommaso Palamenghi-Crispi, nel suo Chi è responsabile della guerra?, mise a premessa un’osservazione fondata su due interrogativi che mantengono ancora oggi una loro ragione:
La questione “chi ha dichiarato la guerra?” ha un valore storico minimo dinanzi all’altra questione “chi è responsabile della guerra?”. La prima è di forma, la seconda di sostanza. Dichiarare la guerra non vuol dire sempre averla voluta.
Ma l’Ottocento fu anche altro. Esso rappresentò un incubatore ideologico dove maturarono socialismo e nazionalismo. Sentimenti, prim’ancora che ideologie, pronti a usare il potere della cultura di massa laddove i conti tra le potenze non sarebbero tornati come nel confronto tra Francia e Germania; dove l’economia dei consumi sarebbe stata il vero motore e la vera ragione dei nuovi rapporti economici, di classe e di potenza tra gli Stati e tra questi ultimi e le rispettive popolazioni. Popolazioni, divise da schemi non compatibili per la nuova stratificazione creatasi ai margini dei processi produttivi in quasi tutte le società europee, ad eccezione di quella più fragile e meno moderna dell’Impero austro-ungàrico. In questo, molti autori potrebbero essere riletti ancora oggi, guardando ai risultati che sono seguiti al 1918 e, tra questi, Arno J. Mayer per il quale
La Grande Guerra fu un’espressione del declino e della caduta del vecchio ordine che si batteva per prolungare la propria vita, molto più che non dell’ascesa esplosiva di un capitalismo industriale impegnato ad imporre la propria supremazia.
Una riflessione, per la quale Mayer sembra non essersi così allontanato molto dalla verità nel ritenere che
La Grande Guerra del 1914, ovvero la fase prima e originaria di questa crisi generale, fu il portato di una rimobilitazione, avvenuta di fresco, degli anciens régimes europei. Pur perdendo terreno rispetto al capitalismo industriale, le forze del vecchio ordine erano ancora sufficientemente ostinate e potenti da far resistenza al corso della storia, e rallentarlo, se necessario mediante il ricorso alla violenza,
ma soprattutto, e ancora, che
Nel 1917 in tutta Europa le tensioni provocate dal prolungarsi del conflitto avevano ormai scosso e frantumato le fondamenta del vecchio ordine, che del conflitto era stato l’incubatrice […] dopo il 1918-19 le forze della
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persistenza si ripresero a sufficienza da aggravare la crisi generale dell’Europa, patrocinare il fascismo e contribuire al riemergere della guerra totale nel 1939.9
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Un’immagine che ha una sua verità e che ben spiegherebbe le ragioni del disastro se la guerra fosse letta, questa volta, quale confine tra un secolo di transizione e una nuova modernità che riduceva la dimensione della contemporaneità. Un’interpretazione che ritiene l’Ottocento il secolo dove le forze del progresso si sarebbero contrapposte con la resistenza del vecchio ordine, anche se più che resistenza Mayer usa il termine persistenza. Un termine, quest’ultimo, che forse più di ogni altro può descrivere l’attrito che scatenò la grande conflagrazione. Infatti, la persistenza dell’ordine di Vienna del 1815, la diffusione non percepita dalle monarchie delle ragioni dei popoli verso l’autodeterminazione e la laicizzazione del potere avrebbe segnato un confronto tra chi resisteva e chi cercava nel cambiamento della modernità nuove vie per soddisfare l’accesso alla ricchezza e al potere mondiale. Una condizione nuova, che però fece sì che – al di là del fascino della Belle époque degli anni dell’euforia per il nuovo secolo – le società europee rimanessero sino al 1914 gerarchiche e funzionali a politiche di potenza per le quali i valori laici di democrazia e di liberalismo potevano essere sacrificati, ancora una volta, in nome del legittimismo e della sacralità di poteri dinastici ormai alla resa dei conti con se stessi.10
Proprio per questo, e non a caso, Mayer, così come Ernst Nolte, definì il periodo tra il 1915 e il 1945 la seconda guerra dei Trent’anni. Ma Nolte, come ricordato, superando la prospettiva marxista che caratterizzava l’analisi di Mayer, cercò di cogliere delle singolarità storiche tali da riaprire sia il tema della Grande Guerra che il racconto di un’epoca che si sarebbe assunta la responsabilità di trascinare con sé i destini delle potenze continentali.
(…)
Ringraziamenti
Ringrazio Valter Coralluzzo, per avermi introdotto allo studio delle Relazioni internazionali e per il raccordo con l’Editore. Un ringraziamento ad Umberto Morelli per la fiducia accordatami negli anni affidandomi seminari e conferenze in materia di Storia delle relazioni internazionali. Un pensiero a Paolo Calzini che mi ha indirizzato verso la Storia dei trattati e della politica internazionale nel periodo milanese. Un ricordo di gratitudine alla memoria dell’avvocato e professore Vincenzo Fusco. I suoi insegnamenti, oltre che di Filosofia, di Storia contemporanea aggraziati, forse ad insaputa di noi studenti del Liceo Scientifico “Michele Guerrisi” di Cittanova, da pillole di Scienza Politica rimangono e rimarranno per me un’esperienza indimenticabile. Un grazie all’Editore, alla redazione e a Jessica Cardaioli, quest’ultima in particolare per la pazienza stoica dimostrata nel succedersi delle bozze. Un grazie alla mia famiglia, ai miei figli, Walter e Deborah alle prese con la vita in un Paese che dimentica spesso il suo passato.
Nota biografica
Giuseppe Romeo, Pino per chi lo conosce, è un analista politico e pubblicista nato a Benestare in provincia di Reggio Calabria. Dopo aver frequentato l’Accademia Militare di Modena e la Scuola Ufficiali Carabinieri si è laureato in Giurisprudenza, Scienze Politiche e Scienze Strategiche. Da anni collabora a vario titolo con diverse università italiane con lezioni e seminari nelle materie di Diritto dell’Unione europea, Storia dei trattati e politica internazionale, Sociologia delle relazioni internazionali, Studi strategici e Analisi della politica estera. Dopo aver svolto a vario tiolo attività accademiche in diverse università italiane, ad oggi è cultore di Storia delle relazioni internazionali presso il Dipartimento Culture, Politica e Società dell’Università degli studi di Torino. Autore di diversi articoli per riviste di settore nell’ambito della difesa e delle relazioni internazionali tra le quali “Rivista Militare”, “Informazioni della Difesa”, “Affari Sociali Internazionali”, “Eurasia”, “Imperi” “Rivista di Politica” per il webzine di geopolitica “Vision and global trends” – The Platform for Future Issues and Challenges, e altre riviste di settore. Tra i volumi pubblicati: Ricominciare da Sud (1997); La politica estera italiana nell’era Andreotti (2000); Mezzogiorno Duemila (2000); Eurosicurezza. La sfida continentale. Dal disordine mondiale ad un ordine europeo (2001); La fine di un mondo. Dai resti delle torri gemelle una nuova teoria delle relazioni internazionali (2002); La guerra come destino? Palestinesi ed israeliani a confronto. Dagli accordi di Oslo alla “road map”. La paura della pace. (2003); L’acqua. Scenari per una crisi (2005); All’ombra della mezzaluna. Dopo Saddam, dopo Arafat, dopo la guerra (2005); Il Fronte Sud dell’Europa. Prospettive economiche e strategie politiche nel Mediterraneo (2007); L’Ultimo soldato. Pace e guerra nel nuovo mondo (2008); La Russia postimperiale. La tentazione di potenza (con Alessandro Vitale – 2009); Lettere dal Sud (2012); Un solo Dio per tutti? Politica e fede nelle religioni del Libro (con Alessandro Meluzzi – 2017); Sussidiarietà, governance e sovranità. Paradigmi o strumenti per una nuova società mondiale. Pubblicato in D. Ciaffi, F.M. Giordano (a cura di). Storie, percorsi e politiche della sussidiarietà (2020). Difesa comune e forze armate. Dall’esperienza UEO alla EU-Global Strategy. In U. Morelli, G. Romeo e L. Soncin (a cura di). Forze Armate Europee? Riflessioni e proposte per una politica della difesa europea. Monografia per “Jean Monnet Chair No Fear for Europe”. Università di Torino, 2020. Calabrese per Caso (2020). E, oggi Da Vienna a Parigi. Gli ultimi giri di valzer. La Grande Guerra, la Conferenza di pace e l’ordine mondiale. Storia di un’Europa sconfitta. (2021) uscito in questi giorni.