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TAURIANOVA (RC), SABATO 11 GENNAIO 2025

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“Rosso”, ecco il diciassettesimo capitolo del libro di Mario Aloe

“Rosso”, ecco il diciassettesimo capitolo del libro di Mario Aloe

| Il 28, Apr 2014

Ogni lunedì pubblicheremo un capitolo dell’avvincente romanzo sulla nave dei veleni dello scrittore di Amantea. Ecco il sedicesimo

“Rosso”, ecco il diciassettesimo capitolo del libro di Mario Aloe

Ogni lunedì pubblicheremo un capitolo dell’avvincente romanzo sulla nave dei veleni dello scrittore di Amantea. Ecco il diciassettesimo

 

 

VIAGGIO IN CALABRIA
Al direttore del giornale degli scandali piacciono i trans: la vita nascosta di chi non ha rispetto degli altri.
Il pezzo era stato pubblicato dal settimanale Il Veloce, appena uscito in edicola, non in grande evidenza, ma su due pagine, tra la cronaca e il costume, corredate di foto da cui risultava, in maniera inequivocabile, la vita privata dell’uomo.
I giornali, in questo ultimo periodo, sembravano impazziti, si erano trasformati in un campo di battaglia per eliminare uomini riducendoli a scandalo e richiamando l’attenzione del pubblico sulle loro debolezze e sui loro vizi privati.
Le pagine lisce del settimanale si incollavano alle sue dita: non poteva fare a meno di leggere l’articolo, di godere della notizia e nel contempo sentire disgusto per la lapidazione morale che vi veniva compiuta.
Non sopportava questo gioco, nascosto e vigliacco, con il quale si distruggeva la dignità delle persone.
Il treno correva: erano in Calabria.
Da poco avevano attraversato il ponte sul Lao e il paesaggio accidentato lasciava il posto alla pianura costiera, una striscia di terra strappata alla montagna dal lavorio incessante delle fiumare e dagli eventi naturali.
Il fiume lo aveva disceso, varie volte, in canoa, un’avventura emozionante, tra gorghi e anse, con lo stomaco stretto dall’ansia e la voglia di continuare a sentire l’adrenalina che lo attanagliava e poi lo lasciava libero e senza forza mentale appena il pericolo passava.
Avevano colpito di nuovo i suoi alleati, Davide forse?
Non era sicuro di quanto avveniva, ma lo confortava il fatto di non essere solo, di avere cognizione che il gioco, in cui era immerso, contava tanti giocatori ed alcuni di essi giocavano nella sua squadra.
Il bene e il male a confronto e mentre continuava ad approfondire la conoscenza della densità del male, ad averne
maggiore consapevolezza, invece del bene percepiva solo un quadro confuso in cui predominava l’incertezza.
Gli operai liguri erano il bene, Chiara era il bene ed anche l’amico deputato, ma Davide apparteneva a questo campo e coloro che contrastavano gli interessi di Lagherio e compagni potevano essere classificabili come angeli?
Lui era un guerriero del bene o un cronista senza ideali che si trovava catapultato per caso in una guerra e combatteva, costretto a farlo senza una meta ed un obiettivo? Arruolato per forza?
Luglio splendeva sul Tirreno e lo colorava d’estate e di caldo mentre sulle colline tra il verde si intravvedeva ancora il giallo delle ginestre.
Un respiro profondo ad incamerare aria ed odori, un respiro di pienezza vitale lo fece sussultare.
Terra selvaggia la Calabria che nemmeno l’edilizia disordinata aveva piegato al moderno. Il caos urbano delle coste e quelle terribili case ad alveare erano una riconferma della selvatichezza: un mondo che resiste disperatamente e non vuole farsi moderno.
Giocoforza, apparteneva ad una squadra e la partita poteva concludersi solo con un risultato, non credeva che ci potesse essere un pareggio.
Sarebbe arrivato tra meno di un’ora e poi l’ignoto, sebbene il suo programma e la scaletta di domande a cui cercava risposte.
La procura aveva avviato un’inchiesta sulla nave ed era trapelato la notizia sullo svuotamento della stiva. Doveva trovare testimoni oculari, ascoltare le storie e valutarne l’attendibilità.
Un lavoro giornalistico difficile, uno di quelli che lo interessavano e accendevano la sua curiosità. Gente nuova che s’incontra, con cui si discorre, così per caso, e, poi, l’illuminazione, la pista giusta e la persona che sa, che ha visto o ascoltato o che indica il nome di chi ha assistito ai fatti.
Intanto la fisionomia della gente conosciuta acquista spessore, con alcuni si entra in sintonia, si va a cena e si parla, mentre l’animo di questa nuova gente incontrata lentamente viene fuori.
Maratea, Paia a Mare, Scalea, Diamante un universo magico, lo stesso del viaggio di Vittorini in Conversazione in Sicilia, era quello che avvertiva intorno e di cui respirava gli odori. I luoghi gli trasmettevano forte questa sensazione da sogno, un mondo senza tempo, in cui la natura e gli uomini ancora vivevano a contatto.
Erano passati 50 anni dal viaggio dello scrittore siciliano e il turismo di massa aveva sconvolto i luoghi e portato una nuova ricchezza, ma lui sentiva l’esistenza, ancora, di un nucleo di sentimenti immodificati, presenti e vissuti.
Il campionato poteva concludersi anche per infortunio dei giocatori. La squadra avversaria si dedicava, metodicamente, all’azzoppamento e all’eliminazione fisica dei competitori.
Lo stavamo seguendo sul treno? Avvertì una fitta nella testa, che lo distolse dalla riflessione e lo privò della calma beata che lo avvolgeva.
Avevano intenzione di ostacolarlo, creargli problemi, arrecargli danno?
I suoi sensi erano in all’erta.
Decise di ispezionare i dintorni, cercava di cogliere negli atteggiamenti, di chi passava nel corridoio, qualche segno che denotasse attenzione nei suoi confronti ed infine fece finta di assopirsi osservando, tra le palpebre, quello che succedeva intorno a lui.
Niente, nessun indizio.
Forse avevano allentato la presa o ritenevano che non avrebbe trovato nulla, oppure lo avrebbero raggiunto poi… e fermato.
Si scosse.
Non poteva vivere le giornate con questa presenza ingombrante, rischiava di averli vicino sempre, di interiorizzare la minaccia e vivere assieme a dei fantasmi.
Le torri, resti di un passato di attenzione e di resistenza ai pirati saraceni, erano ancora là, messaggere del tempo, si susseguivano, a distanza regolare, in maniera che una vedesse l’altra.
Oggi chi avvisava dell’arrivo dei nuovi pirati, chi dava l’allarme e chiamava le genti dalla campagna nelle mura delle città?
Non vedeva luoghi fisici di avvistamento, torri moderne costruite per contrastare gli attuali predoni, sistemi di difesa.
Esistevano luoghi di resistenza e persone impegnate nella denuncia, altri che si mettevano al servizio della collettività, ma non una rete di difesa, un piano generale organizzato dallo Stato.
I ruderi e l’abbandono delle fortificazioni, gli arbusti che li circondavano, l’erba che si annidava sulle loro mura erano il segno dello stato delle cose.
Un dolore gli pervadeva la mente, un dolore morale che faceva propria la desolazione e si nutriva dell’incuria.
I greti dei torrenti pieni di detriti e discariche abusive riempirono, poi, la coscienza del senso di degrado e di abbandono.
La coscienza civile si era ritirata lasciando il campo alla rassegnazione, alla ripetizione di gesti, che negavano la presenza del bene collettivo, che non si curavano dei beni comuni e della necessità di conservarne l’uso, di preservarne l’integrità, di garantirne l’utilizzazione anche per le generazioni future.
La sola presenza dello Stato la notavi nei lavori pubblici incompiuti o nelle opere mal costruite, una presenza non rassicurante.
Lui andava e in Calabria aveva già trovato uomini pronti a discutere, parlare, cercare, a non accettare l’aggressione alla propria terra.
Il treno regionale lo portò a destinazione.
Falconara Albanese, Longobardi, luoghi che già nel nome annunciavano la propria storia, la presenza di popoli che arrivarono da lontano e scelsero, questo lembo di Calabria, quale rifugio.
Gli albanesi, i longobardi, popoli che si avvicendarono, che costruirono e lasciarono traccia di sé anche nel dialetto: lui doveva fermarsi qua per capire cosa era avvenuto e, se possibile, aggiungere un’altra tessera al mosaico della moderna pirateria.
Le spiagge erano brune ed intravvedeva dal treno la ghiaia fatta di sassolini minuti ed il mare, di un colore celeste, addolcito dai raggi del sole.
Si sentiva stanco, bisognoso di riposo, di calma e di equilibrio interiore.
Chiara era lontana, ne avvertiva la mancanza, come se una parte di sé stesso fosse assente e l’idea di non averla più lo angustiava.
Era adulto, non poteva permettersi di non essere padrone dei propri sentimenti, eppure non lo era, ma doveva resistere. Non rispondeva più alle sue telefonate, aveva deciso di non leggere le sue lettere: doveva costringerla a considerarlo morto.
Forse, lei avrebbe equivocato, sarebbe stata costretta dai suoi dinieghi a rivisitare il loro rapporto e rileggere i fatti in maniera diversa, forse…
Doveva allentare la tensione, sgomberare la mente.
Sua Santità il Dalai Lama aveva ragione: sgomberare la mente, rendere la visione un tappeto vellutato di nulla in cui, lentamente, i pensieri si perdono fino ad annullarsi ed intanto i muscoli del volto, della fronte, del collo si rilassano.
Perché non aveva scelto l’Oriente, qualche corrispondenza da Pechino o Tokio?
Prese possesso della sua stanza in albergo ed avvisò la redazione del suo arrivo. Avevano deciso che avrebbe chiamato
ad orari fissi in modo che, eventuali pericoli, sarebbero subito stati percepiti anche a Roma.
Una misura di prudenza estrema, ma necessaria alla luce di quanto avvenuto.
Seduti al bar discorrevano.
La piazza sembrava un rifugio, racchiusa tra le case, un luogo dove era possibile discorrere senza timori, a distanza dalle macchine, e in attesa che si parlasse dei rifiuti.
Aveva dato appuntamento ai suoi amici alle nove e mezza e loro lo avevano invitato al bar per il caffè.
Non avrebbe potuto sbagliare, bastava seguire la via principale salendo dal mare verso la collina.
I tavoli era disposti in un angolo della piazza, delimitati dalle aiuole e dalle palme e riparatiti dagli ombrelloni.
Faceva caldo, ma la mattina, ancora, tratteneva il fresco del grecale appena passato e consentiva un approccio alla giornata tranquillo, quasi gioioso.
Il sonno aveva allentato la tensione e fatta giustizia del guazzabuglio esistenziale che stava vivendo. Un armistizio non dichiarato gli consentiva di vivere il sole, le strade, le persone.
Si era alzato presto, la luce irrorava di sé tutto e senza fermarsi in albergo aveva raggiunto la spiaggia.
Respirando, a polmoni pieni, aveva inalato salsedine insieme all’aria del mattino e camminato, a piedi nudi, nell’acqua ricevendone una scossa salutare e un massaggio all’anima, come se dita sottili tenessero il suo spirito delicatamente e liberassero lentamente le sinapsi cerebrali.
I piedi sui sassi ed affondati nella sabbia gli avevano restituito poi il senso della fisicità, della presenza del corpo facendogli ricordare che era una sola cosa e che materia ed anima non erano separati.
Gli scogli vicini sembravano sentinelle, immobili e inflessibili, sul mare.
Avevano assistito all’avvicendarsi di generazioni di uomini, sentito il fischio del vento delle tempeste ed erano stati accarezzati, dolcemente, dalle onde o sommersi dal mare in burrasca: erano là ad aspettare altre generazioni di uomini ed altre tempeste, senza battere ciglia.
L’immobilità delle cose lo affascinava: aveva, sempre, desiderato essere un sasso, indifferente alle emozioni, un sasso trasportato dalla corrente del fiume e sbalzato sui greti dei torrenti.
Una sensazione di estrema pace lo attraversava quando sognava che la sua energia vitale veniva intrappolata in una pietra e il vento vi soffiava sopra o l’acqua piovana lo solleticava ed, ancor di più, lo emozionava il pensiero della farfalla che vi si posava, il suo battito lieve di ali: la voce degli angeli e l’alito dell’immortalità.
Non era vero che il tocco degli angeli sarebbe riuscito a bruciare gli umani rendendoli infelici per l’acquisita consapevolezza della propria pochezza: le ali della farfalla potevano trasmettere l’eterno presente nella vita.
Pochi altri stavano seduti ai tavoli.
Ascoltava le loro parole dialettali, una cadenza dolce: non il calabrese duro dell’interno, ma la contaminazione di tante lingue e storie, l’aspettativa di nuovi arrivi e l’apertura allo straniero.
Aveva sbagliato a considerare questi luoghi lontani dalla storia? Si era ingannato seguendo le proprie percezioni?
C’era ancora speranza e desiderio di costruire il futuro, divenendo padroni del presente, in questa gente. Si trovava con una giovane donna e due maschi, rappresentanti del movimento spontaneo, nato in paese, per la ricerca della verità sui rifiuti.
Ne aveva seguito la storia nei ritagli della stampa locale, le uscite pubbliche, le richieste alle autorità e l’appoggio incondizionato dato alle inchieste dei pubblici ministeri.
Loro potevano rappresentare la porta da cui entrare per esplorare la casa, conoscerne gli abitanti, avere indicazioni e suggestioni per, poi, indagare su quanto avvenuto.
La ragazza, di carnagione scura, parlava a scatti, come a saltare, da una pietra all’altra, per non bagnarsi i piedi nell’attraversamento di un torrente. Ti fissava con occhi neri per cercare la tua approvazione e, poi, continuava.
«Protesto perché mia madre si è ammalata di leucemia. Abbiamo scoperto la sua malattia e non ha impiegato molto per
andarsene. Pochi mesi tra la diagnosi e gli ospedali, tra paure e speranze poi niente: non è stato possibile fare niente. Ti sembrerà strano e irragionevole, ma ho creduto sempre che doveva essere successo qualcosa e che un elemento esterno avesse turbato il suo equilibrio fisico. Mia madre era una donna forte, in salute e piena di energia… può accadere che ci si ammali, ma se ciò avviene a più persone e scopri che prima non succedeva, rimani perplessa: ti chiedi e non trovi risposta. Un giorno ti accorgi che, vicino a casa tua, hanno seppellito schifezze in grado di causare la leucemia ed, allora, ti incazzi».
«Abbiamo raccolto testimonianze – era il più vecchio dei maschi a parlare – e le abbiamo messe assieme in un dossier. Quando è avvenuto lo spiaggiamento non abbiamo capito, non sapevamo cosa significassero tutte quelle persone intorno alla nave, presenze inquietanti mentre la gente del paese veniva tenuta lontana. Strane presenze quelle che si aggiravano intorno alla nave, forse, agenti segreti. Il materiale trasportato, le stive svuotate velocemente…».
Era noioso sentirlo: Salvatore non aveva bisogno di lezioni, voleva ascoltare fatti ed avvertire emozioni.
«A distanza di anni, abbiamo compreso che era avvenuto qualcosa di losco in quei giorni. La vallata del fiume Uva, erano diretti lì i camion e in molti hanno sentito le ruspe scavare, i mezzi con le cisterne piene di cemento risalire la valle, fermarsi a scaricare il loro contenuto. Molti di noi hanno pensato che la ditta, proveniente da fuori, stesse facendo dei lavori di regimentazione dell’alveo».
«Nessuno ha parlato, ha segnalato il traffico alle autorità…».
«Salvato’, tu vivi a Roma, qua le cose vanno diversamente. Non ci si impiccia degli affari degli altri, specialmente, quando galleggiano tra lecito ed illecito – il più giovane dei maschi era simpatico, immediato, solare – A che proposito interessarsi? Potevano pulire le cisterne dai residui di cemento, rubare la ghiaia dal letto del fiume e cosa avremmo ricavato dalle denunce? Solo fastidi, carte da firmare, deposizioni da ripetere e tanti problemi e se poi erano in regola…. Meglio il silenzio, farsi i cazzi propri».
«Così facendo ce la siamo presi nel culo e senza nemmeno saperlo». Filomena non usava mezzi termini, né era intenzionata ad addolcire le espressioni: voleva, così facendo, segnalare la propria presenza, riconquistare la scena della vita. Pensava che bastasse segnare il territorio con le parole e nessuno lo avrebbe più invaso, arrecandole nuovo dolore.
«La città lentamente si è svegliata – Mario aveva riconquistato la scena – È stato difficile vincere le diffidenze della gente. In tanti vivono di turismo ed hanno avvertito il nostro agire come una minaccia, cattiva propaganda, denigrazione dei luoghi. Vallo a spiegare a chi fitta la casa e ricava dai mesi estivi tre o quattro milioni di lire o ai proprietari delle pizzerie e dei negozi. Da noi non è semplice la denuncia. Non sai mai come va a finire e se, in seguito, vieni raggiunto dall’altra “giustizia”, che ti chiede conto inesorabilmente, i tuoi guai peggiorano. L’aumento dei morti per tumori e i molti malati di leucemie hanno costretto anche gli albergatori e i ristoratori a prendere coscienza, ad avere dei dubbi: la salute è importante, un bene unico e non più recuperabile. Quando tuo fratello muore e lascia da soli una giovane moglie e dei figli piccoli ti senti ferito e il dolore ti spinge ad andare oltre l’interesse immediato. La famiglia da noi ha ancora un forte valore, è sacra».
Mario, sebbene la sua area d’insegnante, era entrato nel vivo del problema, gli indicava una traccia.
Totò aveva bisogno dei nomi, avrebbe parlato con loro, ascoltato i racconti e, poi, scritto.
Il pezzo non gli veniva in testa, non ne vedeva la forma sul giornale e non riusciva a valutarne le conseguenze sul pubblico: era necessario capire, riuscire non solo a raccontare, ma, anche, a delineare i perché.
«E le autorità cosa hanno fatto, non hanno chiesto che si facesse chiarezza e si fugassero i dubbi? Non credo che siano state insensibili, anche loro hanno casa qui, anche loro e i loro cari sono esposti a possibili rischi».
«Hanno negato dotto’. Faceva comodo allontanare il male, credere che nulla fosse avvenuto». Era sempre Mario a rispondere «La ricchezza del paese, i villeggianti impauriti… i voti da prendere».
L’Uva, una fiumara perenne sfociava a mare, dopo una decina di chilometri di corso, formando un’ampia vallata, che iniziava dalle falde dell’Appennino Costiero raccogliendo le acque di vari torrenti montani.
In pochi chilometri salivi dal mare a 800-1000 metri, dalla vegetazione mediterranea a quella dei boschi di montagna: una varietà di microambienti e una diversità climatica sorprendente.
Nei giorni precedenti aveva raccolto resoconti significativi incontrando testimoni ed avuto conferma del traffico di mezzi dopo lo spiaggiamento.
«Ho visto i camion condotti da gente che non conoscevo salire la valle e fermarsi a scaricare e le ruspe scavare. Ho chiesto: mi dicevano che costruivano barriere per drenare la sabbia e pulire il letto del fiume. – Alfonso, un giovane uomo sulla trentina cotto dal sole e dalla fatica dei campi, era stato di una chiarezza e precisione estrema. – Mi ero insospettito e ho chiesto ad altri se sapessero qualcosa. Non mi hanno, mai, fatto avvicinare alla zona dove scaricavano il cemento e costruivano un cassone nel greto del fiume. Un cassone a cosa serviva? Non di sicuro a raccogliere ghiaia. Da lontano ho visto svuotare i cassoni dei camion dal loro contenuto in quella bara di cemento e, poi, hanno sigillato tutto con nuovo cemento ed interrato sotto la griglia. Guarda è la che è avvenuto il lavoro ed è là che non hanno cercato finora».
Era avvenuta una rimozione collettiva ed erano bastate le poche giustificazioni addotte dagli armatori per spegnere i sospetti: sotterravano polvere di marmo, lino e cotone.
Nessuno aveva compreso che il marmo potesse coprire sostanze nocive diminuendo i valori misurabili con le attrezzature in maniera da non farle individuare
Erano passati gli anni e, poi, l’aumento delle malattie e i casi di tumori alla tiroide avevano costretto a riaprire la vicenda.
Il paesaggio era spettacolare e la macchia mediterranea con le querce sugherelle accompagnava la loro passeggiata.
L’acqua limpida non lasciava trasparire segni di inquinamento, ma, secondo quanto Salvatore aveva raccolto e le ipotesi di indagine della magistratura la valle era divenuta una
discarica a cielo aperto: berillio, cobalto, rame, stagno, mercurio, zinco, vanadio, manganese, antimonio, cadmio e altri radionuclidi di uso medicale e industriale.
I valori riscontrati, in alcuni punti del territorio, superavano, abbondantemente, le soglie consentite e potevano causare danni alla salute dell’uomo.
Percorreva la valle insieme a Filomena, Mario, Gianfrancesco e altri amici: non riusciva a rendersi conto di come, l’eventuale occultamento di rifiuti tossici, fosse avvenuto senza lasciare traccia, suscitare, da subito, la reazione delle popolazioni.
Tutto era accaduto nell’ombra o qualcuno aveva collaborato ad individuare i luoghi, fornito assistenza e copertura?
«Mia sorella si è ammalata di tumore alla tiroide: noi viviamo nella valle, abbiamo casa e terra da sempre qua. Aveva ventuno anni ed era universitaria a Cosenza. La vita era dalla sua parte con la forza pulsante della sua giovinezza. Voleva fare l’agronoma e migliorare l’azienda, darle una veste moderna. Ho sentito, tante volte, i suoi sogni ed ascoltato le sue aspettative: le vecchie colture da migliorare, l’olio da rendere biologico, l’uva a cui far produrre vino di qualità. Mi diceva: “Alfò, non basta la fatica a far rendere i campi, è necessario che miglioriamo la qualità dei prodotti. Faremo grandi cose insieme, la renderemo produttiva”. La guardavo con fiducia e tenerezza, a volte, la vedo, ancora sui sentieri, al mio fianco, vedo la sua ombra. È morta e, in seguito, abbiamo saputo che il cesio 137 ha una causa diretta nello sviluppo della malattia che l’ha uccisa. Vogliamo giustizia ed, ancor di più, pretendiamo che la valle sia bonificata: altri non debbono soffrire come noi, vedere interrotti i sogni dei propri cari».
Alfonso diceva queste cose e non cercava protagonismi o riscatti sociali.
Non desiderava organizzare rivolte o intraprendere carriere politiche; desiderava soltanto che la vita ritornasse normale sulla sua terra e che lo scorrere del tempo non fosse interrotto da lutti provocati dalla merda sotterrata sotto il greto del fiume.
Salvatore riusciva a cogliere la consapevolezza nelle parole delle persone che incontrava, una consapevolezza che rompe125
va il muro del riserbo tipico di questa gente. Le paure svanivano e con esse le omertà. Correvano dei rischi e non esitavano: era forte, in paese, la voglia di far calare il silenzio su tutto.
Avevano provato a zittirli, ad opporre alle loro richieste i dati forniti dagli armatori e la mancanza di riscontri medici e giudiziari certi.
Il falco volava alto sui boschi di querce sugherelle e volteggiava, a circoli, sulla preda: un topo, una lucertola o qualche piccolo volatile.
Altri predatori avevano visitato queste zone incontaminate rubando l’unico bene in possesso di queste popolazioni: il territorio.