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TAURIANOVA (RC), MARTEDì 17 DICEMBRE 2024

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“Rosso”, ecco il ventesimo e ultimo capitolo del libro di Mario Aloe

“Rosso”, ecco il ventesimo e ultimo capitolo del libro di Mario Aloe

| Il 19, Mag 2014

Ogni lunedì pubblicheremo un capitolo dell’avvincente romanzo sulla nave dei veleni dello scrittore di Amantea. Ecco l’ultimo

“Rosso”, ecco il ventesimo e ultimo capitolo del libro di Mario Aloe

Ogni lunedì pubblicheremo un capitolo dell’avvincente romanzo sulla nave dei veleni dello scrittore di Amantea. Ecco l’ultimo

 

 

SOMALIA: LA FINE
I colori dell’Africa, il giallo oro e il verde delle sue oasi, prima di atterrare all’aeroporto di Bosaso, lo avevano stregato.
La città rappresentava la porta per raggiungere, più a sud, Quandala e il suo mondo sconosciuto e misterioso.
Davide, nell’ultimo incontro, gli aveva sconsigliato il viaggio: era una trappola, non doveva andare.
Non riusciva a capire l’interesse della spia, cosa la spingesse a proteggerlo. Non vedeva motivi per non partire.
Si era portato dietro una cassa di strumenti chirurgici e di farmaci come richiestogli da Ayman, il medico somalo, suo contatto nel Puntland: era giunto a lui tramite i suoi amici dell’università.
L’uomo, una figura notevole, era conosciuto per il suo impegno civile e la sua dedizione totale alla causa della pace. Gli studi romani avevano lasciato, anche dopo la sua partenza, una cerchia di amicizie consolidate e di relazioni creando uno scambio continuo e un canale di aiuti da Roma a Bosaso.
La situazione nel Corno d’Africa era incandescente dopo la caduta di Siad Barre e l’avvento dei signori della guerra: nel Puntland si stava consolidando una forma di autogoverno e stava nascendo un fenomeno nuovo, la pirateria.
Alcune navi erano state catturate e restituite, soltanto, dietro il pagamento di un riscatto, mentre erano avvenuti assalti a battelli da pesca, le cui attrezzature venivano rubate.
Non gli interessava il disordine sociale, era lì per i documenti di Fringuello, per i rifiuti: le due cose non potevano essere separate.
Giungeva da Nairobi e lo stava aspettando Ayman, lo avrebbe riconosciuto: i suoi amici avevano inviato in Somalia una sua foto.
Non riusciva a capacitarsi dell’accoglienza: un piccolo esercito lo attendeva all’aeroporto, decine di miliziani armati fino ai denti.
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«Ayman Darr, l’aspettavo. Sono il medico, l’amico del professore Nunzio Alberini».
Una vigorosa stretta di mano e subito i bagagli di Zafarone furono prelevati e sistemati in un fuoristrada.
Il somalo parlava un italiano perfetto e possedeva una cordialità innata.
«Dottore di lei si dicono meraviglie a Roma e la circonda un affetto genuino: un eroe moderno…».
Il somalo lo fissò con sguardo ridente e canzonatorio facendogli posto, al suo fianco, sul furgone.
«Signor Zafarone è Africa, sono nato qui, il mio clan familiare ha avuto, da sempre, una posizione sociale elevata, è naturale che il mestiere lo svolgessi tra la mia gente. Ho visto le due casse, la ringrazio, sono strumenti e medicamenti necessari per l’ospedale. Si chiederà il perché di tanta gente armata al nostro seguito: la situazione non è molto tranquilla e sono responsabile della sua integrità fisica, ho dovuto prendere le misure opportune per garantirla».
Il corteo, sei Hummer più il furgone, si mosse verso la città: il deserto era ai lati della strada costruita dagli italiani alla fine degli anni ottanta. Il primo e l’ultimo automezzo della colonna erano forniti di mitragliatrice pesante.
Si erano sbagliati e lo avevano indirizzato verso un signore della guerra; non si perdonava l’errore e nel silenzio osservava il paesaggio arido.
«Non siamo una banda: non partecipiamo alla spartizione della Somalia, né violentiamo questa nostra terra. Intravvedo nei suoi pensieri la preoccupazione; i suoi amici non hanno sbagliato ad indirizzarla».
Salvatore non poté fare a meno di rispondere: «Tutte queste armi e lo sfoggio di tanta potenza di fuoco non può che essere il segnale del passaggio di un capo e qui, negli ultimi anni, i capi fanno soltanto la guerra».
«Siamo noi le prede in questo gioco crudele, prede che vanno cacciate ed uccise per liberare Quandala e renderla disponibile agli interessi occidentali. Chiamami Ayman e dammi del tu: sono tuo amico».
«Quello che vedo ha un valore di circa mezzo miliardo di
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lire in mezzi ed armi e deve essere soltanto una parte del vostro arsenale…». Salvatore non era del tutto convinto.
«I soldi sono venuti dall’Italia, dal Giappone con il pagamento del riscatto delle navi: gli uomini che vedi sono pirati. Li avete descritti feroci e violenti invece difendono la loro terra e il mare».
«Pirati? Proprio quelli? Cosa hanno da spartire con te?» Totò usciva dalle sue preoccupazioni spinto dalla curiosità. «Non mi dire che sono come i bucanieri dell’Isola del tesoro: i pirati che rubano ai ricchi per dare ai poveri; no, quello era Robin Hood. Sto facendo un po’ di confusione e forse, nemmeno conosci quello di cui sto parlando. Mi chiamo Salvatore, ma per chi mi conosce sono: Toto’».
«Erano pescatori: interi villaggi si sono spopolati a causa della pesca illegale operata da voi occidentali ed anche la città ha subito un tracollo demografico. Hanno sopportato, prima, in silenzio e, negli ultimi mesi, si sono organizzati, una milizia popolare. Hanno tutta la mia comprensione e l’appoggio della mia famiglia».
Bosaso con le sue vie sterrate, le case colorate di verde e di ocra, i cumuli di macerie era diventata un grande agglomerato urbano. La guerra e le incertezze avevano attirato popolazione dai villaggi e la carestia aveva spinto pastori e agricoltori a inurbarsi.
Ayman gli aveva spiegato che tutto si reggeva sull’aiuto internazionale: gli emirati, l’Arabia Saudita e l’occidente erano le ultime risorse di cui viveva la Somalia.
Anche Quandala era diventata un agglomerato di case perdendo metà dei suoi abitanti e la sua proverbiale ricchezza: non era, più, il porto delle spezie e della gomma odorosa. Dalle sue spiagge non partivano le navi cariche per Aden, gli Emirati, la Persia e la lontana India e non si scaricavano i cereali, il frumento, i tessuti: la sua città stava morendo.
La voce dell’uomo soffriva nel racconto, si piegava alle sventure assumendo tonalità profonde, si lacerava nelle storie delle persone, si alterava nel descrivere l’abbandono dei villaggi: Ayman era l’anima dell’Africa e gli parlava.
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Lo svegliò il canto del muezzin che chiamava alla preghiera dell’alba, una nenia, ripetuta dall’altoparlante in cima al minareto, che lo avvolgeva, ma non lo destava del tutto.
I suoi amici sarebbero andati in moschea per la preghiera rituale recitata prima che il sole mettesse per intero la sua sfera fuori dall’orizzonte e l’alba si tramutasse in giorno.
Questo popolo era religioso: aveva imparato che il loro rapporto con Dio non era soltanto fede, ma una via per dare sicurezza alla vita e trovare la regola per vivere con gli altri; la loro società si fondava sui pilastri dell’Islam.
Lo avevano portato, a sud, a visitare i villaggi ed aveva conosciuto Wadi, il capo dei pirati: aveva girovagato sulle spiagge, era entrato nelle case, salito sulle barche, visitato la scuola e conosciuto Fatima.
Tutto era rallentato dal calore del sole che sembrava stemperarsi nelle cadenze flessuose dei corpi, nel ritmo vocale, nelle grida dei bambini al gioco: stava nascendo uno stato, la nazione dei pirati.
I suoi taccuini si erano riempiti di storie, i nastri del registratore di racconti, i rullini di bidoni e malati: l’inferno era pronto ad apparire sul giornale in Italia, un inferno di cui lui si sentiva colpevole.
Erano state le navi dell’occidente a sbarcare rifiuti radioattivi su queste spiagge, i soldi degli Europei a comprare complicità, i pescherecci coreani e canadesi a togliere il pesce a questa gente.
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Tra le montagne avevano dissotterrato, per lui, i bidoni: scritte in inglese, spagnolo, tedesco, francese ed italiano riempivano i fusti, testimonianza della malvagità inconsapevole del consumismo e del desiderio di ricchezza di diavoli umani.
Gli occhi di Fatima erano dolci e tristi, guardavano innanzi, ma una parte dell’iride era rimasta nel passato, a fianco del marito morto. A Totò piaceva pensare, che in seguito, quello sguardo si sarebbe liberato del passato ed avrebbe sognato il futuro, fermandosi nel presente di un nuovo amore, di un’altra vita coniugale.
Le donne, coi loro vestiti colorati, riempivano di canti nuovamente le strade, gli spiazzi davanti alle case: la vita stava ritornando nella regione di Bari.
«Ayman, è un miracolo quello che stai facendo. Sei tu la loro forza, il loro esempio: è la tua dedizione che li spinge a ritornare padroni di sé stessi».
Era con il suo amico all’Ospedale di Quandala. Lo aveva cercato: sentiva il bisogno di percepire la quiete, che proveniva da lui, per dissipare l’angoscia esistenziale che lo teneva.
Non sapeva decidere cosa fare: ritornare in Italia e rivedere Chiara o fermarsi e scordare.
Poteva dimenticare se stesso? Magari radicarsi e tenere la mano di Fatima, lasciando alla quotidianità il compito di allontanarlo dai ricordi e sperare di rinascere nuovo.
Come poteva essere utile a questa gente? Serviva loro un giornalista?
«Non ti angustiare, non occorre che tu decida adesso: hai tempo, non affrettarti e non scordare che sei un occidentale, un europeo. Non devi vivere il tuo passato come peso o colpa e impara a separare le responsabilità collettive da quelle individuali. Fatima ti prenderebbe subito, ma tu non puoi, al momento, assicurarle il futuro, garantire che non andrai più via. Amico mio, sei utile al mio popolo, scrivi: fallo è il tuo mestiere».
«La confusione è dentro di me, hai ragione: non posso decidere. Domani andrò a Bosaso, al consolato d’Italia, per inoltrare una serie di richieste ai miei amici italiani e coglierò
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l’occasione per spedire il materiale raccolto».
«Totò, tu non ti muovi senza scorta, non sottovalutare i pericoli. Da quanto mi hai detto in tanti vogliono la tua morte.
Bosaso brulicava di vita: uomini per le strade, miliziani a bordo delle loro jeep, bambini ad inseguire palloni. Cumuli di macerie, case semidistrutte o crivellate di colpi di mitra, copertoni accumulati agli angoli delle strade e sterpaglia li accompagnavano verso il centro città».
All’improvviso, si trovarono la via sbarrata da un camion: non fecero in tempo ad invertire la marcia che una gragnola di colpi li investì, un agguato.
I suoi accompagnatori rispondeva al fuoco, ma la strada era stata bloccata anche alle loro spalle.
Sparavano dai tetti delle case, dalle finestre: un volume di fuoco impressionante.
Salvatore era accucciato, dietro il sedile del guidatore ed assisteva impotente alla battaglia. Ben presto il fuoco di risposta dai due hummer diminuì per cessare del tutto.
Si tastò il petto, controllò l’addome e la testa: non era stato colpito; un moto di sollievo gli attraversò il cuore, subito scacciato dalle voci che si avvicinavano al mezzo.
Una sventagliata di mitra e la portiera veniva aperta: un colpo e un altro ancora.
Totò era precipitato nel buio, in un burrone senza fine: volevano lui, Davide aveva avuto ragione.
Chiara, era da lei che sarebbe ritornato; Chiara, che diveniva farfalla, si adagiava delicatamente su un sasso: l’avrebbe rincontrata così, nel ciclo delle reincarnazioni.