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TAURIANOVA (RC), MERCOLEDì 27 NOVEMBRE 2024

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Il linciaggio Le riflessioni dell'avvocato Cardona sulla consapevole difficoltà e dei limiti del giudicare

Il linciaggio Le riflessioni dell'avvocato Cardona sulla consapevole difficoltà e dei limiti del giudicare
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Narrano Plutarco e Svetonio nelle loro Istorie che, dopo la pubblicazione del testamento di Cesare, il quale aveva lasciato a ciascun romano un cospicuo legato, la folla appena ultimata la veglia funebre si scagliò contro i congiurati linciandone un tal Cinna, indicato, tra gli altri, da confidenti quale assassino di Caio Giulio Cesare.

Un piccolo particolare sfuggì al linciaggio del vulgo, ossia, il congiurante era un tal Lucio Cornelio Cinna, cognato di Giulio Cesare, mentre il linciato era Gaio Elvio Cinna, poeta lirico lodato da Catullo e grande estimatore dello stesso dittatore.

Il linciaggio, pertanto, va abiurato non ergendosi certo alla forma più alta di giustizia, essendo contrario ad ogni sentimento di umana pietà ed a fondanti principi civili, ritrovandolo sovente tra le pieghe di un perverso desiderio di esecuzione capitale, che alimenta non solo la lunatica stirpe italica, ma anche un Parlamento che non incarna alcun precetto morale sul quale si dovrebbe basare il consenso delegato in uno stato democratico.

In Italia mancano le ideologie sulle quali affermare i principi civili o sociali perché mancano delle vere strutture di legalità vicine ai bisogni del popolo, sussistendo per converso, uno Stato corrotto da una illegalità diffusa nelle sue attività essenziali e permeato in un complesso di infernali macchine kafkiane, nei cui ingranaggi il cittadino viene stritolato.

Una di queste ferali macchine è l’amministrazione della giustizia, la quale contende questo nefasto primato alla sanità pubblica.

I tapini che entrano loro malgrado in questi malevoli ingranaggi, ne fuoriescono annichiliti psicologicamente ed annientati economicamente.

Delimitando la disamina all’operato dei giudici, un immanente pericolo che potrebbe lambire le loro menti è la presunzione (non legale) di fare politica, avvalendosi della conduzione esclusiva del carro giudiziario.

Il compito di interpretare ed applicare le leggi verrebbe sovvertito e la norma violata se, il valore terreno della sentenza trovasse il suo humus sostanziale tra le pieghe artatamente conciate per pilotare e condizionare il risultato politico; ledendone così la sottesa imparzialità si sfocerebbe in un disegno politico sovversivo, linciante il consenso popolare e, pertanto, pregiudizievole alla casta ed adamantina interpretazione secundum legem.

La verità è che a volte il magistrato è portato, enfatizzando il proprio ruolo, a ritenersi investito di funzioni demiurgiche atte a separare i retti dai criminali, senza farsi spannare la mente da un cartesiano metodico dubbio di adottare la decisione con l’umiltà del prudente e non con la protervia del superbo.

Basterebbero poche regole essenziali e non sforzi eroici per rendere la macchina della giustizia meno infernale:

– massimo rispetto in concreto del difensore, rammentando che si è magistrati e non bassi esecutori di una apparente ed assurda giustizia;
– operare silenziosamente al di fuori dell’intollerabile ed illegale clam clam mediatico, anticipatore ineliminabile di antinomiche condanne assolutorie;

– lavorare diuturnamente e costantemente per accelerare i tempi infiniti della giustizia, senza farsi sedurre da distraenti incarichi extragiudiziari;

– applicare la custodia cautelare in carcere solo nella indispensabilità attuativa e coercitiva e sempre valutandone la misura meno afflittiva.

Le regole del cartesiano dubbio metodico, non trovando la loro linfa in ipotesi precostituite o teoremi astratti, così operando, non potranno causare alcun linciaggio morale od errore giudiziario.

“La fama del giudice severo non è migliore di quella del giudice compassionevole”. (Miguel de Cervantes Saavedra, Don Chisciotte della Mancia, 1605 cap. XLII)