Le malade imaginaire Quando la malattia diventa il canto della sirena per i naviganti del mare dell'ansia
di Natalia Gelonesi
Lo sappiamo che siete in fibrillazione per il pezzo sulla fibrillazione, ma a noi piacciono i colpi di scena e le trepidanti attese come nelle fiction. Oggi, quindi, si parla d’altro!
Parliamo di una tendenza diffusissima, più diffusa di quegli orribili Hugs e più capillare di una Vuitton falsa.
Parliamo dei simpatici amici ipocondriaci. In questo articolo molti di voi riconosceranno se stessi o i loro amici e l’intento non è ridicolizzare quello che di base rappresenta comunque una condizione di disagio, ma semmai di sdrammatizzarlo e accendere l’insight della consapevolezza e la scintilla della presa di coscienza, imprescindibili momenti di passaggio verso il cambiamento.
Il mio è ovviamente un osservatorio privilegiato, e se a voi sarà capitato occasionalmente di essere resi partecipi delle paturnie e delle paranoie di parenti e amici, per me si tratta invece di una costante quotidiana.
Anche fuori dall’ambito strettamente lavorativo non c’è nessuno che, una volta venuto a conoscenza della mia professione, resista alla tentazione di volermi confidare i suoi sintomi più strani, i suoi percorsi diagnostici, le sue avventure terapeutiche.
Di solito funziona così: tu stai, putacaso, in pizzeria, e tra i commensali c’è qualcuno che non ti conosce, si inizia a parlare e a scambiarsi domande di rito e cortesia tipo: “dove lavori?” .
A questa domanda io di solito mi tengo sul vago e rispondo con un generico “in ospedale” che vuol dire tutto e niente, potrei essere quella che rifornisce i distributori automatici o quella che conta le presenze, per dire. Ed ecco che, puntuale come un orologio svizzero e rituale come le abitudini di un gatto, scatta l’insidiosa domanda, buttata lì un po’ distrattamente: “Ah! Sei infermiera?” “No, sono medico”.
A questo punto, come in una scena presa dal film The Mask, avviene la straordinaria metamorfosi: negli occhi dell’interlocutore appare una fiammella scintillante, la salivazione aumenta, i muscoli si mettono in movimento, i neuroni si risvegliano e il nuovo amico- sì, perché ormai a ‘sto punto siamo amici- inizia a snocciolare, come i grani di un rosario, tutti i disturbi di cui è affetto, fino a quando si rende conto che nell’entusiasmo si è dimenticato di fare una domanda fondamentale, e allora si blocca, prende un bel respiro e ti chiede: “Sì, ma medico di cosa?”. La risposta “cardiologo” consacra l’apoteosi del suo visibilio. E’ andata. Se potesse mi sposerebbe all’istante, ma per il momento si limita a dirmi che soffre spesso di “dolori al cuore” (ma va?), che ogni tanto sente qualche battito strano, oppure che ha iniziato da poco una terapia per la pressione alta, o che deve prenotare una visita e le liste sono lunghe.
Come se io mi trovassi a cena con un tizio che lavora alle Poste e gli dicessi: “Ma scusa sai mica che fine ha fatto quella raccomandata che non è mai arrivata?”.
Gli ipocondriaci li riconosci subito: sono quelli che di solito presentano un’accozzaglia di sintomi aspecifici e così scollegati tra di loro che neanche il dr House riuscirebbe a ricollegarli e decifrarli: un dolore qua, che poi si sposta un po’ più in là, e poi risale di nuovo da dove era partito però con un calore e anche un formicolio e la testa strana e vuota.
Quelli che collezionano accessi in Pronto Soccorso con la stessa dedizione e costanza con cui una donna colleziona scarpe.
Quelli che si vedono un neo e hanno un melanoma, si toccano un linfonodo e hanno un linfoma, fanno un colpo di tosse e pensano di avere la polmonite.
Quelli che non si sa come, con tutto quello che hanno, sono ancora tra di noi.
Quelli che ovviamente se dici “Non hai niente” se la prendono pure quindi facciamo un po’ di esami così di sicuro agli esami viene fuori qualche valore di un punto sotto o sopra la norma e la paranoia si amplifica.
Al giovane ipocondriaco, allora, non resta che rivolgersi al premio Nobel per la Medicina, esimio plurispecialista e pluridecorato professor Google, che emette la sua impietosa sentenza: “Sei spacciato!”
“Ma come dottor Google, io avevo solo un po’ di diarrea, forse ho mangiato qualcosa che mi ha fatto male”
“E no mio caro, non lo sai che la diarrea è la spia di qualcosa di più serio? Menomale che ti sei rivolto a me!”
Io credo che anche la possibilità così immediata e semplice di reperire in rete informazioni mediche (o pseudotali) abbia contribuito all’espansione di questo dilagante e preoccupante fenomeno, che riguarda soprattutto i più giovani.
E’ impressionante, infatti, il numero di ragazzi che il sabato sera invece di andare a ballare preferisce fare quattro salti in pronto soccorso, che uno pensa se questa è la gioventù te credo che rimani single.
Una notte, nel pronto soccorso bolognese dove lavora mio fratello, arrivò una ragazza diciottenne allarmata per i suoi valori pressori- peraltro nella norma- che, attenzione, non erano stati rilevati in guardia medica o motivati da un qualche malessere. No, la giovane donzella si trovava a una festa- con ogni probababilità festa di una noia mortale- e invece di scolarsi un onesto mojito o mettere su un cd di reggaeton, aveva pensato bene di movimentare la serata facendosi misurare la pressione.
Insomma, ai miei tempi ci divertivamo col gioco della bottiglia, ora va di moda il gioco dello sfigmomanometro. Forse anche questo è un segno del gap generazionale.
L’ipocondriaco rappresenta, se vogliamo, anche una figura che riscuote una certa simpatia e, che, se siete votate al martirio o non avete superato ancora le vostre sindromi da crocerossina, potrebbe anche suscitare in voi un sentimento di tenerezza. Del resto, la tematica è sempre stata storicamente fonte d’ispirazione per autori di commedie con forte presa sul pubblico. Il rimando a ipocondriaci noti della storia cinematografica non può non passare dalla meravigliosa interpretazione di Alberto Sordi ne “Il malato immaginario” , rivisitazione per il piccolo schermo della celebre commedia di Molière, e dalla maniacale, quanto adorabile, “perversione” di Carlo Verdone per tutto ciò che concerne la malattia, farmacologia compresa. L’attore romano ha fatto del set cinematografico la sua chaise longue, consegnando ai suoi personaggi il compito di sublimare, portandola in scena, la sua “malattia”e trasformando, in maniera brillante e catartica, le sue paure nei dialoghi che da sempre strappano sorrisi al suo pubblico.
La sua simpatia e la sua forza stanno anche in questa consapevolezza vissuta con allegra rassegnazione, nell’intelligenza di chi ha saputo trasformare le sue debolezze in punti di forza.
Un messaggio, questo, per chi questo shift non è riuscito ancora a farlo. Perché, a parte l’ironia spicciola, in alcuni casi basta prendere un po’ di coscienza e darsi una calmata; in altri, invece, questa ossessione e questa attenzione esasperata per la malattia altro non sono che la spia di un disagio più profondo che, purtroppo, condiziona e limita la vita di queste persone. E allora prendere atto del fatto che il problema sta nella mente e non nel neo, nella tosse, o nel linfonodo è già un bel passo avanti.
Decidere di lavorarci su, con gli strumenti che ciascuno sceglie di usare, è un considerevole pezzo di strada già percorso.
Anche perché se no finisce come nella favola di “Al lupo Al lupo” che magari alla centounesima volta che dite di avere qualcosa ce l’avete davvero e nessuno vi crede!