Turchia. I conti con la storia vanno fatti. Anche se sono sgradevoli Emanuele Pecheux commenta la discutibile reazione avuta dai turchi alle parole di papa Francesco in merito al massacro degli armeni
“Chi si ricorda oggi del massacro degli armeni?”
Così Adolf Hitler si interrogò retoricamente nell’agosto del 1939, allorché mise a parte dei suoi progetti di sterminio lo stato maggiore della Wermacht pochi giorni prima di dare l’avvio all’invasione della Polonia. La domanda giunse al termine di un incontro in cui il Fuhrer illustrò agli alti ufficiali gli obiettivi della guerra che stava per scatenare: lo sterminio degli ebrei e la riduzione in stato di semischivitu’ degli “untermenschen”, i sottouomini appartenenti alle popolazioni slave che nella sua lucida follia, come aveva annunciato nel Mein Kampf, intendeva sottomettere al Reich millenario.
Il riferimento non era casuale: poco più di vent’anni prima i tre Pascià, Talaat, Enver, Djemal, i Giovani Turchi, che governavano il moribondo impero ottomano, precursori della follia nazista, nel corso della prima guerra mondiale, in cui la Turchia era schierata con gli imperi centrali, esattamente il 24 aprile del 1915 diedero il via con la cattura a Istanbul di settecento e più intellettuali armeni che risiedevano in quella città e che poi, deportati in Anatolia, vennero trucidati a colpi di scure alla prima vera operazione di pulizia etnica del secolo scorso.
Si dava così attuazione al dispositivo che il Congresso del comitato Unione e Progresso, di cui i tre erano leader, adottò nel 1912 per la turchificazione di tutti i residenti nell’Impero e segnatamente delle popolazioni cristiane ivi residenti. Turchificazione o ottomanizzazione, si aggiungeva, “che non potrà mai essere realizzata con mezzi persuasivi, ma solo con la forza delle armi”.
Ciò che avvenne nei mesi successivi è presto detto: circa un milione e mezzo di cristiani appartenenti all’etnia armena, che risiedevano nell’Anatolia centrorientale furono vittime di un programma che prevedeva la cancellazione e la soppressione di quell’etnia, delle testimonianze di una civiltà e di una cultura millenaria.
Il programma doveva restare segreto: fu costituito un corpo paramilitare, l’Organizzazione speciale, guidato da due fiduciari dei pascià, composto da detenuti turchi rimessi in libertà, a cui fu affidato il destino degli infelici armeni: i maschi di tutte le età, bambini compresi, uccisi immediatamente. I vecchi, le donne, le bambine costrette a una marcia, a piedi nel deserto senza altra meta che non fosse la morte di stenti e per sfinimento.
L’operazione criminale fu subito disvelata grazie al coraggio del tedesco Armin Wenger che documentò quanto avveniva con fotografie che fece pervenire in occidente e dell’ambasciatore americano ad Istabul Morghentau che raccontò al mondo quanto stava avvenendo. Tuttavia i tentativi di entrambi e di pochi altri di fermare l’orrenda macchinazione andarono a vuoto.
Pochissimi furono gli armeni che riuscirono a salvarsi con la fuga dando inizio a quella che oggi è conosciuta come la diaspora armena.
Le parole di ieri di Papa Francesco sono del tutto condivisibili: si trattò di genocidio, il primo di una lunga serie che ha contrappuntato la storia del 900.
Negarlo, come seguitano a fare i governanti turchi, si tratti dei kemalisti di ieri o di musulmani moderati come il presidente Erdogan di oggi è come negare che sia mai avvenuta la Shoah.
Non basta: le loro reazioni scomposte che hanno fatto seguito al pronunciamento del Pontefice indignano e appaiono provocatorie.
Il Cancelliere tedesco Willy Brandt chiese perdono inginocchiandosi a Varsavia davanti al monumento a ricordo dell’Olocausto.
Se la Turchia vuole davvero entrare nell’UE occorre che i suoi governanti seguano il suo esempio e chiedano il perdono, altro che richiamare in patria l’ambasciatore presso la Santa Sede!
A breve è arduo ritenere che ciò possa avvenire e dunque non verrà rimossa la causa principale che impedisce il possibile ingresso della Turchia all’UE, nonostante la sua crescita economica e gli stretti rapporti commerciali con il Vecchio continente.
Tutto ciò a dispetto di una società che, sulla spinta di un ceto intellettuale molto più avanti di quello politico, non chiede di meglio che fare i conti con la propria storia. Anche se sono sgradevoli.