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TAURIANOVA (RC), GIOVEDì 12 DICEMBRE 2024

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Vietato morire …ci crediamo davvero tutti Highlander?

Vietato morire …ci crediamo davvero tutti Highlander?
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di Natalia Gelonesi


A noi occidentali la morte non ci è mai stata troppo simpatica, diciamolo. Ben lontani culturalmente dal festeggiare e celebrare il distacco dalla vita terrena, come invece succede nelle filosofie orientali dove la morte è vista come momento di passaggio ed evoluzione nel ciclo delle nostre innumerevoli vite, non ci convince, fino in fondo, neanche il concetto cattolico dell’Aldilà, sentito forse come una forzatura o un contentino.
Due preghiere, quattro fiori, un eterno riposo e amen. Ma in fondo chi crede veramente che esista una vita dopo la morte? Se davvero fossimo fermamente certi della presenza ultraterrena di una qualsiasi altra forma di esistenza ci comporteremmo diversamente, cercando di perseguire il bene ad ogni costo, o, molto più pragmaticamente, l’idea di lasciare questo corpo terreno ci farebbe meno paura e vivremmo con minor sofferenza gli eventi luttuosi.
Però è normale, non siamo né Buddha né il Dalai Lama: perdere una persona cara e vedere il vuoto in uno spazio che prima era occupato dall’amore di un genitore, di un fratello, di un compagno, di un amico porta con sé una sofferenza incommensurabile.
Il lutto è un’esperienza traumatica sempre. Che la persona che passa a miglior vita abbia 60, 80, 90 o 100 anni non conta: la rottura di un legame causa sempre dolore.
Però adesso, lasciatemelo dire, stiamo scivolando nel paradosso. Sembra quasi che morire sia diventato un evento eccezionale ed inspiegabile. Quasi che, tra il conquistare il distacco zen, accettando seraficamente la morte, e il pensare che siamo tutti immortali, fosse sparita quell’onesta via di mezzo rappresentata dall’accettazione del fatto che a un certo punto dobbiamo morire tutti.
Non è un mio improvviso amore per la filosofia a portarmi a questo delirio di stampo teologico, ma la mia esperienza di tutti i giorni, il mio solito osservatorio privilegiato che mi fa vedere, in modo amplificato e ridondante, realtà che per altri rappresentano, fortunatamente, un’eccezione e non la quotidianità. Da questa mia prospettiva vedo corpi, che ormai sono solo corpi, lottare non per la vita, ma per la morte, per avere una fine decorosa. Corpi anziani di uomini e donne che hanno vissuto la propria vita con grande dignità e forse ora vorrebbero solo questo: poter morire con altrettanta dignità. E’ un campo minato questo, in cui stabilire e definire quella linea sottile che separa l’accanimento terapeutico dal garantire le cure necessarie è motivo di discussioni, nel merito delle quali non è mio compito entrare, ma, a volte, nel mio piccolo, mi trovo a pensare che regalare ai nostri pazienti qualche giorno o qualche settimana di “vita non vita” in più, attraverso le terapie più idonee e i migliori presidi a disposizione, non è esattamente fare loro un gran favore.
Posso affermare con cognizione di causa che questo è un pensiero assolutamente condiviso da chi, ogni giorno, si trova a dover gestire situazioni di questo tipo. La tacita e non tacita idea di “testamento biologico” che serpeggia nei nostri pensieri e a volte si esprime a parole, con qualche inequivocabile battuta tra di noi, la dice lunga: stiamo facendo ai pazienti ciò che non vorremmo venisse fatto mai a noi. Ho scritto che a volte la gente mi chiede incuriosita: “Che rapporto hai con la morte?”. Il rapporto di chi la vede di continuo, in tutte le sue forme, e quasi ci prende confidenza, come tutte le grandi cose a cui ci sia abitua quando diventano routine. E quindi non deve sembrare strano se anche a trenta o a quarant’anni, tra un “Che facciamo stasera” e “Il gatto come sta” possa venir fuori anche il discorso del “che morte vorremmo”. E probabilmente vorremmo una morte il più naturale e serena possibile. Ma quando vestiamo la nostra divisa ci troviamo in un ruolo scomodo, in cui siamo tenuti a fare solo ciò che la nostra professione ci chiede e non quanto il buon senso invece suggerirebbe. Siamo obbligati a fare, fino alla fine, tutto ciò che è necessario per garantire la sopravvivenza ai nostri pazienti.
Ci troviamo spesso davanti a malattie croniche il cui decorso naturale sta volgendo lentamente al termine. A cuori malandati che continuano a resistere mentre il resto inizia a cedere. Cedono i polmoni e noi li attacchiamo alle macchine per la ventilazione, cedono i reni e li attacchiamo alle macchine per l’ultrafiltrazione. Mentre cambiamo flebo di diuretici o farmaci per mantenere il circolo, o sacche di nutrizione per assicurare l’alimentazione. Ecco, noi siamo obbligati a mettere in atto tutti questi meccanismi, però a volte il più grande aiuto non dovrebbe venire da noi. A volte si cerca di spiegare ai familiari la gravità della situazione, si accenna all’inutilità effettiva di ciò che stiamo facendo, trovando, spesso e volentieri, scarsa “compliance”. E’ difficile lo so, so bene quanto sia doloroso accettare l’idea di perdere una persona cara e come ci si attacchi, anche un po’ egoisticamente, a quell’ultimo residuo irrazionale di speranza. Ma amore è anche accettazione. Senza voler ergersi a giudici dei delicati stati d’animo altrui, posso solo osservare come a volte alcune risposte ci lascino sconcertati. Al di là della speranza ci troviamo davanti il muro rappresentato dai problemi gestionali nell’assistere, in casa, un parente anziano in agonia, mentre sempre più si preferisce prendere le distanze dalla sofferenza. Il rifiuto della morte come parte della vita, come evento ineluttabile e contemplato già nell’istante in cui veniamo al mondo, ha tante sfaccettature. Non solo l’accanimento terapeutico in un letto d’ospedale, ma anche le ambulanze del 118 che accompagnano in Pronto Soccorso pazienti ormai terminali, il cui unico destino sarà il ricovero in un reparto di Medicina o Geriatria, magari in sovrannumero, dove passeranno le ultime ore della loro esistenza. Li guardo e mi chiedo il perché di quello che tutto mi sembra fuorché un atto d’amore e dietro di loro vedo solo persone che non vogliono vedere. E chiudo con lo sgomento e la sorpresa che assalgono i parenti (che a loro volta assalgono noi) di vecchietti che prima di dire addio a questo mondo terreno hanno soffiato un cospicuo numero di candeline. Ribadisco, a scanso di inutili e sterili polemiche, che nel dolore non si fa distinzione di età, ma un briciolo di visione realistica delle cose non guasterebbe. Tutti ci auguriamo di vivere, insieme ai nostri cari, il più a lungo possibile, ma il corpo umano è una macchina perfetta che non ha un’autonomia infinita e prima o poi smette di funzionare. E allora, se non accettiamo questo, ci troviamo a fare la fine di chi, davanti alla morte di un parente ultracentenario che però “Fino ad ora stava bene, che gli avete fatto”, trova consolatorio sublimare il dolore in deliranti minacce di denuncia. Insomma, alla fine pare proprio che morire sia diventato vintage e che le morti “improvvise” dei nostri nonnini non siano più un evento fisiologico ma siano diventate inspiegabili, bene che vada, o, male che vada, siano sicuramente colpa dei medici. Dipende un po’ dagli avvocati.
Namastè.