Umanità disumanizzata "Ama il prossimo tuo come te stesso", diceva qualcuno...
di Natalia Gelonesi
E’ un pomeriggio come tanti. Mi hanno mandato a fare il trasferimento di un paziente in un altro ospedale. Scendo dall’ambulanza e, come ogni volta, vengo investita dal vento che sotto il porticato dell’ingresso soffia sempre con particolare forza. Davanti a me una scena che potrei aver visto altre mille volte in ospedale, per strada, alle poste, alle casse dei supermercati: un’anziana signora che spinge la carrozzina di un giovane disabile si ferma un attimo per coprirlo bene e proteggerlo da quel vento insidioso. Dietro di loro una donna inequivocabilmente irritata a cui è stato bloccato il passaggio, la cui mimica facciale dipinge sul volto un’insofferenza malcelata.
Scene riprovevoli a cui assisto ogni giorno. Frammenti di vita quotidiana, riflessi di una società che ha rinnegato i valori più antichi di compassione e tolleranza, che ha scelto di fare della guerra alla “diversità”, in ogni sua forma, il caposaldo della sua ideologia.
Trovi questi spaccati di “umanità” nelle sale d’attesa del pronto soccorso con un mal d’orecchio o un eritema, li vedi indispettirsi e sbraitare, mentre davanti a loro passano vecchietti che faticano a respirare, giovani vittime di incidenti, e chi sta dall’altra parte, invece, si sta dividendo in otto per far fronte alle emergenze.
Agli insulti contro il nostro operato sono abituata, quello che mi sconvolge però, che mi lascia dentro un senso di sconforto e mi avvilisce, è la mancanza di empatia, la difficoltà di vedere la sofferenza altrui perché troppo concentrati sui propri disturbi. I corridoi del pronto soccorso si trasformano in palcoscenici calcati da attori rabbiosi che improvvisano improperi, imprecazioni, minacce di andare altrove per non far la fila. Nessuno che dica: “Guarda quel poveretto in che condizioni è arrivato”. No, semmai: “Povero me che è da tre ore che aspetto”.
Ho avuto una formazione cattolica, ma non credo in nessuna religione, se non in quella del rispetto per il prossimo e dell’aiuto degli ultimi. Non sono riuscita neanche a finire il corso di catechismo: l’ho abbandonato poco dopo preferendo le uscite in piazza con le amiche. Però, per quel poco che ho frequentato, ricordo bene che un tale Gesù predicava amore, tolleranza, uguaglianza e accettazione del diverso. Ma, evidentemente, tanti di quelli che si sono diplomati a pieni voti nel corso di Cresima questi concetti li avranno dimenticati. Certo, mica ci si può ricordare tutto. Io, ad esempio, non ricordo tutta l’anatomia delle ossa del cranio. Mi ricordo però che il cuore è formato da quattro cavità e che esiste una doppia circolazione. Perché alcune cose dovrebbero restare impresse per sempre, dovrebbero essere assimilate talmente bene da diventare parte della nostra natura, da condizionare i nostri pensieri come se fossero meccanismi automatici.
Invece pare che non sia proprio così. Queste piccole “linee guida” di vita sono state ignorate, questi “take home message” non sono stati portati a casa, sono rimasti in quelle aule dai banchi bassi. Chiamiamo “immigrati” i rifugiati in cerca di asilo, accusiamo di stucchevolezza e di strumentalizzazione chi pubblica foto che mostrano il volto della disperazione, usiamo le tastiere dei nostri Pc per profonderci nei più biechi insulti verso chi questa compassione e questa capacità di soffrire per il dolore altrui non l’ha ancora persa, per chi è lacerato da un senso di impotenza, per chi davanti a certe scene non riesce a non stare male. Gli “Aiutateli a casa loro”, “Portateli casa tua”, “Qui abbiamo problemi peggiori” vanno via come il pane. Capisco anche che non si possa essere d’accordo con una certa linea politica, ma si parla di esseri umani, e questo mi sconvolge. Vi è mai venuto in mente che ci saremmo potuti essere noi al loro posto? In tal caso nessuno di noi avrebbe voluto che qualcuno ci sbattesse la porta in faccia dicendo “Questa è casa mia”, senza neanche mostrarci un atto di compravendita, tra l’altro.
La Pietas di vigiliana memoria, quel senso di “dovere” e “dedizione” verso Dio e gli uomini, dov’è finita? Si è pensato forse di traslarla in una ipocrita e ridicola manifestazione in difesa della famiglia? C’era bisogno di un Family Day (che già pare il nome della carta fedeltà di un supermercato) per difendere i diritti della famiglia?
Una apologia banale e pleonastica. Come se si scendesse in piazza per difendere l’istituto del divorzio che, grazie a Dio, si difende bene da solo. No. Ci si è riversati nelle strade non tanto per festeggiare e inneggiare con gioia al modello di famiglia tradizionale (quello con moglie, marito e amante, per capirci) ma per dire no al diritto degli omosessuali di crearsi una famiglia propria.
Questa cosa, ad una persona sana di mente, dovrebbe sembrare surreale e assurda: si scende in piazza per protestare contro i diritti altrui. E che diritto avresti tu per farlo? Di quale potere sei stato investito che non ce ne siamo accorti? Quale Dio è sceso in terra e ti ha nominato sterminatore delle coppie di fatto? No, davvero, vorrei capire, perché una spiegazione logica non riesco a trovarla. Se nella tua famiglia stai così bene perché dovresti preoccuparti di cosa succede nelle famiglie altrui? O, forse, sempre per riesumare qualche reminiscenza cattolica, per te è più facile guardare la pagliuzza nell’occhio altrui, che la trave nel tuo? E se vogliamo tradurla in termini freudiani, è più semplice proiettare l’attenzione altrove dal sé per fuggire il confronto con i conflitti e i tormenti del proprio animo.
La pietà umana è morta, seppellita da quintali di terra gettati da mani aride. Quelle stesse mani si muovono veloci su una tastiera, nel buio delle proprie stanze e della propria anima, per infliggere una condanna ad una ragazzina, ad una figlia, ad una sorella, cui è stata già comminata una condanna peggiore: quella di una paura che non la abbandonerà mai, quella di confondere- per sempre- amore e terrore. C’è allora un unico filo conduttore che lega tutto: è la morte di quel sentimento nobile che è l’empatia. E’ l’incapacità di dimenticarsi per un momento del proprio ego, per immedesimarsi in un altro essere umano. Che tu sia in fila al semaforo, in una sala d’attesa di un pronto soccorso, davanti a un telegiornale, in piedi a protestare contro i diritti di qualcun’altro, sei sempre la stessa persona: quella che ha dimenticato la sua storia e ha deciso di scriverne un’altra, impoverita degli attributi morali legati al concetto di “humanitas”.