Parenti impazienti Le quotidiane difficoltà tra i due lati del pathos: pazienza ed empatia
di Natalia Gelonesi
II rapporto medico-paziente, punto cruciale di questa professione, diventa ancor più complicato quando trova la sua sostituzione nel rapporto medico-parente. L’età media dei nostri degenti si è ormai drasticamente innalzata, quindi il confronto diretto non si stabilisce tanto con l’ammalato quanto con un suo familiare – o con più di uno – come avviene nella maggior parte dei casi.
E qui nascono i problemi. Perché possiamo trovarci davanti la persona recettiva e collaborante, ma il più delle volte ci interfacciamo con tipologie umane che rendono parecchio ostico l’approccio.
Ecco le varie categorie:
- Lo stalker: segue le infermiere mentre sono nel corridoio per chiedere cos’è quella compressa che hanno dato alla mamma, perché è gialla invece che rossa, quante unità di insulina sono state somministrate;
- Dottorato alla Google University: “Su internet ho letto che”;
- Parenti illustri: “Un cugino di mio cugino di mio cugino lavora al San Raffaele”;
- Famiglie allargate: si compongono di un numero di discendenti e collaterali che varia dai venti ai trenta, gravati da un evidente difetto di comunicazione tra di loro, che implica il dover ripetere a ognuno dei trenta lo stesso bollettino;
- Italiani nel mondo: “Alla Svizzera tutto funziona meglio”;
- Variante sul tema, Amici di Salvini: in genere sono infermiere del luogo che lavorano in ospedali del Nord di cui decantano l’efficienza e i protocolli;
- La dolce attesa: “Siamo qui da due giorni e non avete fatto niente”;
- Il figliol prodigo: Non si è mai visto né fatto sentire per tutto il ricovero e appare dal nulla, affranto, incredulo e polemico, sul letto di morte (della pensione);
- Il deluso: “Veramente avremmo preferito che la mamma fosse portata in un altro ospedale ma il 118 l’ha portata qua”;
- Per fare un albero: “Sono anch’io del ramo”. Su quale ramo stiano appesi, però, non si capisce.
Ce n’è per tutti i gusti. E per ogni tipo di pazienza.
Però, secondo me, per il livello di difficoltà nel rapporto con l’entourage familiare che ruota intorno ai pazienti, ci sono solo due categorie di medici che meritano il titolo di Maestro Zen: pediatri e veterinari. Oddio, in realtà, tra pediatri e mamme si instaura spesso un circolo vizioso di ansia che si auto-mantiene, dove alla fine non si capisce se è la mamma che ha messo ansia al pediatra o viceversa. Può essere che la mamma arrivi e stia relativamente tranquilla, ma poi il pediatra la manda a fare esami su e giù (sempre per quella famosa medicina difensiva) e la signora entra nel buco nero del panico, da cui sarà impresa ardua tirarla fuori.
Questi poveri bambini, colpevoli di aver avuto un piccolo dolore toracico durante un colpo di tosse, vengono presi di peso e portati in Ospedale mentre se ne stanno sul divano, a godersi il loro meritato relax serale, guardando Masha e Orso.
“Dillo, dillo al dottore cosa ti sei sentito. Ripeti bene”. E lui ti guarda con lo sguardo atterrito perché non sa se avere più paura dell’ospedale, del sintomo, o della madre che lo incalza. Piccoli ansiosi traumatizzati crescono. Certo è che gestire le mamme non dev’essere per niente facile. La mamma è ansia per definizione. Soprattutto la mamma del Sud. Lo insegnano anche ai corsi pre-parto:
– Ogni febbre è una meningite;
– Non importa quanti anni abbia tuo figlio, se tre o trentatré, non può uscire di casa vestito “Così leggero”;
– Se non risponde al telefono è morto.
Sono le poche, incontestabili, ferree, regole della madre ansiosa meridionale.
A volte, però, capita di trovarsi davanti a rarissime eccezioni dove invece è il padre a essere quello iperapprensivo. Come una scena indimenticabile a cui ho assistito poco tempo fa. Una notte mi vidi arrivare direttamente dietro la porta dell’Utic un omone che portava in braccio una bambina spaventatissima e, dietro di loro, una signora di una tranquillità serafica. Ti veniva da pensare “Sicuri che siano venuti perla stessa figlia?”. La figlia era la stessa, la percezione della situazione differente. Il padre agitatissimo, la madre che lo apostrofava con tono canzonatorio sottolineando quanto fosse esagerato. Fantastici.
Peggio delle mamme ci sono solo i proprietari di animali domestici. Posso affermarlo con estrema certezza. Io quando vado dalla veterinaria dimentico di essere un medico e ormai penso che anche lei dubiti seriamente della mia laurea. Ogni volta che al mio gatto succede qualcosa, mi esibisco, nel suo studio, in strazianti scene di pianto e tartasso la dottoressa con domande di una stupidità inaudita. “Ma è normale che sia così abbattuto?” (imbottito di antidolorifici per una caduta dal terzo piano). Penso che ormai mi guardino con compassione. Oggi, ad esempio, l’ho portato di corsa perchè pensavo si fosse avvelenato col Frontline. Una volta tornata a casa ho chiamato per sapere se potesse mangiare. Mi ha risposto la segretaria che ha chiesto al medico. Dall’altro capo del telefono ho sentito un “Certo!” carico di sgomento e rassegnazione per la banalità della domanda e per l’ovvietà della risposta. Mi sono sentita una deficiente e ho pensato che, spesso, sono proprio io a conferire quella stessa connotazione di sconcerto alle mie risposte davanti agli strani interrogativi di parenti e pazienti.
Quando si invertono i ruoli, cambia tutto. Spesso ci sfugge che dietro una domanda che sembra assurda c’è una preoccupazione reale. Che chi sta dall’altra parte non ha i nostri stessi strumenti per capire alcuni dettagli che a noi sembrano ovvi. Schiacciati dallo stress e dall’esigenza di far fronte a richieste che arrivano da ogni dove, dimentichiamo sovente anche quello che è un attributo fondamentale in questo mestiere: l’empatia.
E a volte, giocare per l’altra squadra, serve a ricordarcelo.