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TAURIANOVA (RC), GIOVEDì 05 DICEMBRE 2024

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Sesta tappa nel viaggio nella Piana: Cittanova La storia della città nelle parole di Domenico Caruso

Sesta tappa nel viaggio nella Piana: Cittanova La storia della città nelle parole di Domenico Caruso
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di Domenico Caruso

E’ la cara mia terra: un bel paese
da le strade diritte larghe e piane,
ove d’estate danno ombra cortese
e pioppi ed olmi e pergole nostrane. (V. Toscano)

Un po’ di storia
La nascita della città
L’antico “Fondaco” della famiglia genovese dei Grimaldi di Gerace distrutto dal sisma del 1616, regnante Filippo III di Aragona, con il bando di edificazione del 12 agosto 1618 assunse il nome di “Nuovo Casale di Curtuladi”.
Per G. Pensabene (v. Dizionario Etimologico – DES) “Curtoladi suppone il bilingue cutralarium (centro di vasi)”. Fu Girolamo Grimaldi, subentrato al governo del feudo, a far riunire i superstiti dei villaggi cancellati dal terremoto e creare in posizione strategica ai fini commerciali quel centro poi Casalnuovo.
Altri movimenti tellurici, purtroppo, ne ritardarono lo sviluppo. Il colpo finale fu inferto dal “Flagello” del 5 febbraio 1783 che causò oltre duemila vittime, compresa la bella principessa Maria Teresa Grimaldi che dalla morte di Girolamo con affetto di madre era alla guida delle nostre popolazioni.
Dopo una lenta e difficile ripresa, finalmente nel 1851 il sindaco Domenico Avati deliberò in Consiglio di chiedere al Re Ferdinando II di Borbone la trasformazione toponomastica di Casalnuovo in Cittanova in vigore dal 1° aprile 1852.

La rivolta di Spartaco
Il governo romano sotto Giulio Cesare stava attraversando un periodo di crisi per le ingenti spese belliche, allorquando nel 73 a.C. si verificò la rivolta degli schiavi. Settantaquattro gladiatori, capeggiati da Spartaco, dopo essersi impossessati delle armi destinate alle truppe regolari, si rifugiarono sulla sommità del Vesuvio. Da qui mobilitarono ad una velocità allarmante un gran numero di fuggiaschi e sfidarono le autorità. Il pretore Gaio Claudio Glabro tentò di circondare i ribelli ma, dopo una serie di sconfitte, fu costretto a lasciarli padroni dell’Italia meridionale. Il crescente afflusso di reclute permise la formazione di due eserciti indipendenti, il primo affidato a Spartaco e l’altro a Crixus.
Spartaco avrebbe desiderato oltrepassare le Alpi e cercare la libertà in Gallia, ma nel frattempo il seguito dell’alleato si era abbandonato ad un’inconcludente politica di brigantaggio. L’anno successivo il Senato Romano nominò due nuovi consoli e Crixus unitamente alle sue forze fu annientato. Spartaco – invece – dopo alcune vittorie, tornando dalla sua avanzata verso il nord e rinunciando alla conquista di Roma, mirava ad impadronirsi della Sicilia per la causa degli insorti. Intanto, si era ritirato tra i Bruttii. A combatterlo ci pensò il Senato che diede al più grande latifondista romano Marco Licinio Crasso il potere di proconsole e il comando di dieci legioni.
Teatro di scontro con il gladiatore pare fosse stata una zona posta lungo la linea che congiunge Gioia Tauro e Locri, il Dossone della Melìa nell’Aspromonte.
Per confinare il nemico e farlo arrendere Crasso iniziò la costruzione di un muro lungo 60 Km attraverso la punta dell’Italia. La presenza di ruderi nella zona aspromontana potrebbe essere riconducibile all’imponente opera militare. Anche un pozzo nei piani dello Zòmaro è creazione romana.
I ribelli – comunque – riuscirono a spezzare le linee nemiche, tanto da spronare Crasso a sforzi più febbrili e fare spostare anche a Pompeo, appena rientrato dalla Spagna, il suo esercito a sud. Dopo vari scontri, a motivo del coinvolgimento nello scontento fra i compagni e l’annientamento degli insorti guidati da due colleghi, Spartaco si dovette ritirare. Nel tentativo, quindi, di raggiungere Brindisi e da lì varcare l’Adriatico venne sorpreso sul Sele e ucciso. Così, dopo sei mesi dalla nomina, Crasso poté assistere anche alla crocifissione di seimila prigionieri lungo la via Appia da Capua a Roma.
Personaggi
Fra gli uomini illustri ricordiamo: Enzo Bruzzì (1908/1989), poeta, scrittore, giornalista e critico d’arte; Alberto Cavaliere (1897/1967), poeta; Luigi Chitti (1784/1853), economista e scrittore; Salvatore Giovinazzo (1903/1929), poeta in vernacolo; Michele Guerrisi (1893/1963), scultore e accademico; Diomede Marvasi (1827/1875), uomo politico e giurista; Domenico Tarsitani (1817/1873), ostetrico e accademico. La famiglia De Cristo comprende: Domenico (1887/1954), autore di scritti pedagogici e di un “Trattato sulla memoria”; Francesco (1896/1951), saggista, traduttore e pedagogo; Giuseppe (1893/1966), geologo, educatore, giornalista e scrittore; Vincenzo (1860/1928), storico, biografo, archeologo e poeta.

L’angolo della poesia

Alberto Cavaliere
(Cittanova 1897 – Milano 1967)
Da. Reparto agitati

C’era un avvocatino,
povero avvocatino settantenne!,
con una chioma lunga, bianca bianca,
e una barba solenne
mi faceva un inchino,
m’accarezzava con la mano stanca.
Son qui da quarant’anni!
quando morrò, Gesù,
rispondi, il manicomio
c’è forse anche lassù? –
– Lassù? C’è un grande palazzo d’oro
pei derelitti di questa vita
tutto un giardino, tutto un tesoro,
ed aria libera, luce infinita.-
– E donne, Cristo, donne, ne vedi? –
– Oh, bionde, brune, tutto un fiorire! –
L’avvocatino, curvo ai miei piedi,
mi supplicava: – Fammi morire!…-

Musa dialettale
Salvatore Giovinazzo
(Cittanova 1903 – 1929)

Chi vannu a fari?
Vorrìa mu sàcciu jeu chi vannu a fari
a Santu Roccu, a la secunda Missa,
certuni, chi non vògghiu nominari,
(oh terramotu pe’ mu li subissa!).

Pàrtinu di la casa allicchettati
comu quandu ca vannu a lu triatu,
cu’ li giubetti e li saji pressati
mu su’ viduti di l’annamuratu.

Pecchì dà tanti e tanti giuvanotti,
parati, allerti, avanti a lu portedu
a nzo cu trasi, comu pira cotti
càdinu ‘i ncodu – povaru cervedu! –

Pe’ chissu poi non nd’hannu senzu letu
mancu a li vanchi dassusu, seduti,
e si la fannu occhijandu pe’ d’arretu
– lu scornu lu perdiru ‘ssi tingiuti
fìmmani! – Quandu sagra, speciarmenti,
sunnu daveru cosi ‘i meravìgghia
videndu rivotati tanti genti
chi pàrinu li pècuri a mandrìgghia.

Quandu nèscinu fora, atru baccanu!
Tutti li frischialepri, dà fermati,
fannu nzinghi cu’ l’occhi e cu’ la manu
mostrandu a l’atri li so’ innamurati.

No’ abbastava la Prisa e Marinedu
e la funtana di ntra lu cerdinu,
ca puru a Santu Roccu – me’ gioiedu! –
ndi fannu cchiù ‘i Guerinu lu Mischinu!

A la Missa si va cu’ divuzioni,
se no è mègghiu mu si dassa stari!
Chissi, chi vannu senza ntenzioni
di lu Signuri, chi nci vannu a fari?