Etica e stampa Riflessione del giurista blogger Giovanni Cardona sul perbenismo dell’informazione
Che cosa si intende per etica? Il comportamento per valorizzare il singolo uomo? Oppure siamo disposti a sacrificare il singolo per inseguire un miglioramento della società? Per raggiungere quello che ritengo sia bene posso servirmi soltanto di mezzi che a mio giudizio sono buoni?
Oppure i mezzi non sono né buoni né cattivi, ma semplici strumenti per raggiungere il fine che ritengo buono?
C’è un’etica della pura intenzione, per cui è bene ciò che è conforme a valori che vanno rispettati indipendentemente dalle conseguenze, e un‘etica della responsabilità che tiene conto dei risultati di ogni azione.
Nell’incertezza si diffonde un pluralismo che si accontenta di “una comunanza parziale” di un minimo etico (quale?) e favorisce una preoccupante indifferenza di ricerca di valori, con il rischio grave in tutti i campi, sicuramente grave nel giornalismo di confondere il personale successo con la verità.
Non va confusa l’etica con la libertà. Ci può essere una libertà amorale e immorale.
La libertà si affida alla responsabilità individuale, al proprio modo di giudicare.
La morale, specie se positiva, può limitare le libertà.
I mezzi di comunicazione si propongono di diffondere notizie a un pubblico sempre più largo. A quale fine?
Il giornale, come lo conosciamo, risale agli inizi del XVII secolo: erano fogli che dovevano rispettare le indicazioni dell’autorità che concedeva il privilegio di stampare. Contro questo privilegio, che significava dipendenza, si schierarono gli illuministi nel secolo seguente.
Jean Baptiste Le Rond d’Alembert chiedeva che gli uomini di cultura vivessero chiusi in una torre d’avorio, perché diceva con tanta verità, come si constata sotto tutti i regimi sono fragili davanti agli allettamenti del potere.
Lo sforzo di indipendenza è un dovere per il giornalista che si preoccupi di essere onesto.
Al giornalista si chiede di dare notizie vere e commenti sinceri. Sono domande antiche che cosa sia la verità, se sia conoscibile. Per il giornalista sarebbe sufficiente rispettare l‘esattezza, anche se so che la sola esattezza non esaurisce la valenza della verità. Sarebbe già molto. Purtroppo è un traguardo sempre meno raggiunto e sempre meno raggiungibile.
Per sfuggire ai condizionamenti il giornale dovrebbe essere in attivo: chi paga il passivo paga disinteressatamente? Gli editori liberali sono molto pochi. E può accadere che, se la proprietà non interviene direttamente, siano gli stessi giornalisti ad autocensurarsi.
La scelta della notizia dipende dalla sensibilità del giornalista e della sua capacità di sentire che cosa sollecita il pubblico. Nella scelta c’è la prima parzialità. Inevitabile. Poi c’è il problema della esattezza.
E’ stato affermato che la “notizia è l’unico prodotto il cui modo di produzione e il cui sistema di vendita possono influire sui livelli di democrazia e di civiltà”.
La rivoluzione francese è stata iniziata dal Terzo Stato ma portata avanti, nella sua evoluzione autodistruttrice, dai tribuni che con i loro giornali stordivano la pubblica opinione. Ogni dittatore si preoccupa di avere i giornali a sua disposizione.
Mussolini, due anni dopo l’ottobre 1922 era giornalista brillante e ben conosceva l’importanza della carta scritta si impossessò dei giornali. Dopo l’ultima guerra i partiti si preoccuparono di mettere le mani sui nuovi potenti mezzi di comunicazione, radio e tv, con una lottizzazione che fa vergogna a loro e mortifica i giornalisti.
L’imparzialità è in costante pericolo. Per motivi di equilibrio si tende a dare notizie sbrigative e amorfe. L’informazione velinaria può diventare un inganno. L’ossequio al potere è condizionante.
Predomina la preoccupazione di tradurre tutto in spettacolo per attirare il lettore. Si appiattiscono i valori, si favorisce l’indifferenza, si spinge al bisogno di frastuono, materiale e psichico, per coprire il vuoto. Come chi si abitua a un cibo piccante più non sa adattarsi ai cibi genuini, pacati, così i lettori, sollecitati dal clamore, cercano spettacolo non informazione, divertimento non cultura.
Voltaire scriveva sull’Encyclopédie che la ragione e il buon gusto finiscono con il prevalere e che le “gazzette false e grossolane finiscono con il cadere nel disprezzo e nell’oblio”.
Accade anche così, ma in tempi lunghi quando tanti danni sono stati provocati.
Chi è ancora capace di meditare? Se non si conserva l’esercizio del pensare criticamente si diventa succubi della carta stampata e più ancora delle immagini.
Oggi tanta gente porta il cervello all’ammasso dei mezzi di comunicazione, perché incapace di un giudizio proprio.
Come indicare il compito del giornalista? In primo luogo dovrebbe rifiutare il conformismo e preoccuparsi dell’esattezza. Il conformismo si esprime in diversi modi: c’è chi ubbidisce al potere, chi all’applauso, chi alla faciloneria demagogica. Piace essere alla moda, far colpo, sentirsi dire: hai visto che gliele ha cantate giuste? La volontà di esattezza si smarrisce se non è sorretta dalla volontà di ricerca del sapere. Il termine “sapere” in antico aveva il significato religioso, era il “potere di guida dell’esistenza”.
Chi non sa, chi non è sicuro non dovrebbe né scrivere né parlare. Ma in un mondo così superficiale si chiederebbe troppo.