Viaggio alla scoperta di Molochio Continua il tour di Approdonews tra i paesi della Piana
di Domenico Caruso
«Nel mezzo del cammin dell’alma Piana», l’Alighieri si sarebbe valso della composizione di Totò Siciliano per declamare un doveroso “Omaggio alla Calabria”:
’Nta lu me’ cori tegnu la poisia,
pe’ chista terra la Calabria mia.
Bella Calabria mia tu si’ ’na stella,
ca supa ’a Terra si’ lu mègghju hjuri,
’nta la mia menti si’ sempi cchjù bella,
ca mi ricordi lu tempu d’amuri.
La stati mi ricordi a la muntagna,
comu puru l’ulivi e li cerasi;
ora lu cori meu sempi si lagna,
voli lu focularu cu’ li brasi.
Certi figghj ti dannu dispiaciri,
ca tanti voti su’ mali e scuntenti;
dannu atri onuri orgogliu cu’ piaciri,
ricorda ca ’nci su’ li boni agenti.
Ora ’sti figghj toi chi su’ luntani,
chi ti dassaru pe’ fari furtuna,
pe’ rividiri a ttia fannu li piani,
la sira cu’ lu luci di la luna.
Breve storia
Molochio è un centro agricolo immerso fra gli ulivi e sovrastato dall’Aspromonte, fondato pare dai profughi di Tauriana che si rifugiarono presso le mura del Monastero dei Basiliani per proteggersi dalle incursioni saracene.
In passato, oltre all’ulivo, erano molto diffuse le coltivazioni della vite, del gelso, del grano germano nonché la produzione di legname, tanto da far sembrare il paese un giardino di malve come dal termine greco “Molochion”.
Per G. Pensabene (v. Dizionario Etimologico – DES – vol. I) invece, “Moro”, al diminutivo “Molochio” equivale a piccolo moro. «Tanto vero che in documenti medievali la parrocchia è chiamata S. Maria “De Merula”. Mèrula traduce letteralmente Molochio».
Dal XV secolo divenne casale di Terranova, passando da un feudo ora dell’una ora dell’altra famiglia (Sanseverino, Santangelo, Caracciolo, Correale, Cordova, de Marinis, Grimaldi) fino al 1806. Il sisma del 1783 provocò gravi danni materiali e la morte di un migliaio di persone per un’epidemia che ne seguì. Con l’ordinamento amministrativo francese fece parte del governo di Oppido (1807) e con l’istituzione dei Comuni ebbe assegnata la frazione Molochiello, oggi assorbita nell’agglomerato urbano. Molochio è noto per il suo suggestivo paesaggio, ricco di vegetazione, di acque e di fauna selvatica (volpe, cinghiale, scoiattolo, tasso).
Non vanno dimenticati il famoso Santuario della Madonna di Lourdes, il moderno villaggio montano “Trepitò” e le numerose opere d’arte.
Il Santuario di Lourdes
Molochio è conosciuto da migliaia di fedeli calabresi per il Santuario dell’Immacolata di Lourdes. Lo fece edificare, unitamente al Convento, il cappuccino Padre Francesco Zagari da Scilla su terreno del fratello Mons. Rocco Zagari, parroco del luogo. La prima pietra fu posta dal Cardinale Gennaro Portanova, Arcivescovo di Reggio Calabria, alla cui Arcidiocesi appartenne Molochio fin al 1927. Il 29 giugno 1890, giunto in treno fino a Gioia Tauro, il porporato proseguì il viaggio in carrozza fino al paese aspromontano per lo straordinario evento. L’inaugurazione, dieci anni dopo, fu rimandata per l’assassinio del Re Umberto I del 29 luglio 1900.
Finalmente il 14 settembre 1901, esaltazione della S. Croce, assistito dai Vescovi di Oppido e Mileto, il Cardinale benediva il nuovo e primo Santuario col titolo di N. Signora Immacolata di Lourdes sorto in Italia.
La sacra statua della Madonna fu donata a Padre Francesco Zagari nel 1892 a Parigi dalla terziaria francescana Suor Maria Probech Schlestatd.
Un vascello la portò alla marina di Gioia Tauro per procedere in forma privata su un carro fino a Molochio.
La devozione popolare verso la prodigiosa Immagine, come pure i personaggi e gli eventi che interessarono il Convento sono stati narrati da Padre Silvestro Morabito di Taurianova (1929-2005) nel suo libro: “Alle falde del Trepitò”.
“I Camilli”
In un angolo delle due grandi piazze attigue del centro storico di Molochio, dedicate a Vittorio Emanuele III ed a Mons. G. Quattrone, dove sorgono rispettivamente la Chiesa della “Madonna de Merula” (Matrice) e il Municipio, si possono ammirare le Fontane Camillo e Bernardo. Queste ultime presentano due statue in pietra, costruite negli anni cinquanta. Si tratta di due giovani eroi mitologici, a grandezza naturale, genuflessi, che soffiano in un otre da cui sgorga l’acqua che confluisce in una vasca circolare. Il popolo chiama “i Camilli” entrambe le fontane.
Il Bambinello di Molochio
A Molòchio vi è un Bambinello di legno scolpito e colorato, con il braccio destro in alto benedicente e con i capelli lunghi e ondulati.
Opera di qualche artista di scuola napoletana del XVII secolo, o di data anteriore, si conserva nella Chiesa Matrice “Santa Maria de Merula”.
La statuetta, alta 35 cm, molto bella e pregevole, viene esposta per il Natale e fatta baciare durante la S. Messa dell’Epifania.
Ebbene, in un detto popolare della Piana di Gioia Tauro, per accentuare
la vetustà di qualcuno si suole dire: “E’ cchjù vècchiu du’ Bambinedu ’i Mulòchiu!” (E’ più vecchio del Bambino di Molochio!).
La Deposizione
A Molochio vi è un quadretto pentagonale di pochi centimetri quadrati – raffigurante una “Deposizione del Cristo Morto” in miniatura – di straordinaria bellezza, di un anonimo artista locale o napoletano del XV o XVI secolo.
L’opera che il popolo definisce “La Pace”, viene fatta baciare ai fedeli ogni anno a Pasqua e a Natale al termine della S. Messa serale, donde il detto: “A Pasca e a Natali, ’a Paci no’ dassari!” Non tralasciare (di baciare) la Pace a Pasqua e a Natale!
Folklore e antichi mestieri
Molochio (con Delianuova, Sinopoli, S. Eufemia e Santa Cristina d’Aspromonte, Cosoleto, Scido, Varapodio e Oppido Mamertina) fa parte della Comunità Montana della provincia di Reggio Calabria. I nove centri del Versante Tirrenico Meridionale si estendono quasi a semicerchio lungo la dorsale pre-aspromontana verso la Piana di Gioia Tauro.
Gli uliveti secolari, caratteristica paesaggistica del territorio, assieme alla produzione di legname rappresentano ancora la principale risorsa economica.
Il folklore e l’artigianato costituivano i capisaldi della cultura di questi paesi che si è tramandata nel tempo. La devozione popolare, gli usi e i costumi, la lavorazione del legno, gli antichi mestieri sono la testimonianza di un’epoca che, non ostante le ristrettezze economiche, è stata dignitosa e generosa.
Il consumismo ha contribuito alla scomparsa di tante occupazioni con grave pregiudizio della collettività. Da ciò l’esigenza di conservarne la memoria per meglio comprendere il nostro presente. Basta pensare alle donne addette alla raccolta delle olive, mestiere umile che si tramandava da madre in figlia e che – fino a qualche decennio fa – rappresentava l’archetipo della lavoratrice.
’A spumucatura
(Levare il malocchio).
“Santa Lucia di Roma venìa,
parmi d’aliva a li mani portava,
ogni chjiesa ca benedicìa,
nesci mal’occhjiu ’ncoju di…” […]
Nel recitare questa preghiera, si prendeva un piatto e si versava dell’acqua. Quindi, con il dito mignolo si lasciavano cadere delle gocce di olio mentre si facevano dei segni di croce. Se l’olio scompariva significava che la persona era “docchiata” ed occorreva proseguire il rito fino alla guarigione. Si poneva, allora, del sale nel piatto lasciandolo riposare per una notte, se esso diveniva giallo il maleficio era certo.
’U ciùcciu du’ bandiaturi (L’asino del banditore)
Un tempo c’era un onesto banditore con un asino che, dopo tanti anni di duro lavoro, tirava a stento la carretta. L’uomo «jìva girandu pe’ tutti li casi, / pigghjava la mundizza e caminava, / trasportava carvuni pe’ li brasi, / fin’a’ la sira tardu fatigava». Ma, in paese, giunsero gli zingari con i loro cavalli arricchiti di nastri, campanelli e piume dai colori sgargianti. «’Ncuntraru a Peppi lu bandiaturi, / pensaru già mu lu ponnu ’mbrogghjari, / si piacìu lu ciùcciu, e a tutti l’uri / lu ’nsurtavanu o’ fini di cangiari». Quei nomadi schernivano il povero banditore, giurando che il ciuco non valeva niente mentre il cavallo era di grande valore. «Se tu ’ndi duni decimila liri / lu ciùcciu ’ndi pigghjamu e nu’ ti damu / chistu cavadu chi poi cumpariri, / stasira nui partimu e no’ tornamu». Si lasciò convincere, pensando che col cavallo avrebbe fatto bella figura e agito con sollecitudine nel bandire il pesce fresco. «Chistu bon’omu no’ potìa sapiri / ca li zingari su’ boni pe’ ’mbrogghjari; / chidu cavadu stava pe’ moriri, / cchjù di ’nu misi no’ ’ndavìa campari». Rimasto deluso, senza ciuco né cavallo, il poveraccio sentiva il bisogno di nascondersi nel trasportare da solo la nettezza urbana. «Chista è la storia pe’ tutti li genti / chi stannu boni e no’ su’ mai cuntenti, / se volimu lu lussu mu facimu / perdimu puru chiju chi ’nd’avimu!».
(Totò Siciliano)
Onomastica locale
I dieci cognomi più diffusi sono, nell’ordine: Luci, Mustica, Malivindi, Caruso, Morabito, Accardo, Raco, Romeo, Garreffa e Iorianni.
“Cicero pro domo sua”: nel concludere, ricorro al grande oratore latino per ricordare che il mio nonno paterno Vincenzo Caruso (nato nel 1859) proveniva da Molochio.