Calabria tra rivoluzione e faide nel libro di Santo Gioffrè Edito da Castelvecchi, il romanzo "L'Opera degli Ulivi" è un fermo-immagine sulla violenza mafiosa e sull'antagonismo politico che hanno impregnato la vita dell'Università di Messina
di Agostino Pantano
Sbaglia chi pensa che le faide di mafia che hanno insanguinato la Calabria abbiano riguardato solo le famiglie in guerra e, inoltre, indugia nella solita ingenuità chi continua a ritenere che la ndrangheta non si sia potuta perpetuare anche grazie a “santuari dello Stato” come certe Università: sembrano riempirsi anche per dissolvere queste tranquillizzanti convinzioni, le pagine di L’Opera degli Ulivi, il nuovo libro di Santo Gioffrè. E se è la cronaca di questi giorni a ricordare ai calabresi che dai riflessi dei conti con le vendette armate non si scappa, così infatti inquadrano gli inquirenti i raid di Nicotera e di San Lorenzo del Vallo che tanto sgomento hanno prodotto in momenti diversi, il tema mai affrontato fino in fondo delle tante “palestre criminali” sparse nei luoghi insospettabili – gli Atenei, i Comuni e tanti altri centri del potere – completa la cornice, antica ma attualissima, in cui vengono fermati i protagonisti di questo che è più di un “romanzo storico-sociale”.
Ci si muove nella Messina di fine anni ’70 e in un piccolo paese dal nome di fantasia della Calabria, ma questi posti dalle misure diverse fra loro – a pensarci bene – altro non sono che l’elastico teso della ndrangheta di oggi. Il pregio ulteriore delle 108 pagine di questo racconto incalzante, certamente, è anche l’impatto con il dibattito corrente sulla globalizzazione dei clan: non sarebbero nulla senza radicamento territoriale di provenienza che blindano con le armi e la mazzetta, ma, fa dire Gioffrè al tragico protagonista della sua storia, non avrebbero prosperato se non avessimo avuto uno «Stato che non è guaritore in queste terre».
La Messina di ieri “città babba”, ed Università dominata dai patti perversi, ricorda il Nord di oggi per le sue infiltrazioni criminali che molti hanno fatto finta di non vedere in nome di utilità superiori: l’ordine da mantenere, sia esso economico o politico, ha fatto brigare gli ambienti peggiori nella comune avversione a chi sognava un cambiamento. Solo negli anni lontani dalla storia narrata da Gioffrè affiorò il “verminaio” della compravendita degli esami, dei docenti uccisi o arrestati, delle associazioni studentesche calabresi che spadroneggiavano, e questo romanzo – che ha ben poco di fantasioso – ha il merito di spiegarci come si arrivò, attraverso le intimidazioni e gli affari, a questo scempio a lungo tollerato tra le aule che furono di Pugliatti e Pascoli.
Non c’è però mafiologia, né antimafia, in questa novella tragica edita da una Casa nazionale prestigiosa, la Castelvecchi, a confermare non solo l’abilità ormai consolidata del medico e politico di Seminara, ma anche la sua assidua analisi della psicologia sofferente delle persone, più che della retorica delle etichette. Gioffrè non è indulgente con i calabresi delle faide, ma non è moralista e non vuole consigliare alcunchè; non li perdona ma li indaga; non li assolve ma li fa parlare mettendoli a proprio agio tanto nelle assemblee universitarie quanto tra gli ulivi che nascondono i latitanti. Disegna per loro una fine brutale, ma consegna a tutti noi che ci viviamo attorno il contorno insanguinato di una sconfitta comune: un modo per guardare in faccia chi spara e, resistendo, non considerarlo un attore inevitabile dei nostri luoghi.
Enzo, il brillante studente a cui il libretto universitario cadrà nel sangue, è la metafora della disperazione di una regione stritolata tra il familismo e l’illegalità, convinta di poter scegliere e, invece, è soltanto dominata da una volontà superiore: ieri dal codice dei consanguinei da vendicare, oggi da quello Stato-istituzione che si limita a fare «da assistente al capezzale di un moribondo».
Gioffrè racconta e la propria anagrafe geografica, politica e universitaria ce lo fa vedere “cronista chirurgico” tra i luoghi che descrive con diversa precisione. Di Messina sappiamo tutto, i nomi delle strade teatro delle violenze politiche, i ritrovi dei fascisti e le scuole di sinistra prese di mira, perfino il tessuto indimenticabile delle coperte della “casa dello studente”; mentre di Grimaldo del Sarro – il paese di fantasia che ricorda le tante Seminara di Calabria – ci fotografa solo il nero degli abiti a lutto.
Questa scelta descrittiva sbilanciata non sembra casuale e, semmai, contiene la cifra ultima della novità di questo libro. Vi è cioè tra le lupare della mafia e le pistole P38 della lotta studentesca ed extraparlamentare una memoria personale e collettiva diretta, forse preminente, che si colora con i tratti dell’impegno politico comunista di Gioffrè e di Enzo. Sembra un bilancio generazionale di una rivoluzione finita male, non perchè in questo profondo Sud siano mancati – negli anni di Autonomia operaia – i centri di potere da “assaltare”, ma perchè l’arretratezza brutale di certi paesini e la repressione frutto di certe connivenze altolocate hanno risucchiato, o hanno invischiato, chi voleva un mondo nuovo. La Calabria di oggi è incastrata in questo “andare e venire dalle rivoluzioni possibili” come quegli studenti fuori sede dell’Università di Messina, capaci di vivere una storia d’amore appassionata come quella tra Enzo e Giulia, e però liberi solo fino alla prossima “faida”.