‘Ndrangheta, processo “Cavalli di razza”, confermate in Appello le 34 condanne per il clan “Piromalli-Molè”. I NOMI Si contestava l’associazione di stampo mafiosa e tutti i reati, come il traffico di stupefacenti, le bancarotte fraudolente, le estorsioni e false dichiarazioni per uso di fatture per operazioni inesistenti
La Corte d’Appello di Milano ha confermato le trentaquattro condanne, inflitte nel dicembre 2022, per un totale di circa 200 anni di reclusione e con la pena più alta, oltre 11 anni, per lo storico boss della ‘ndrangheta in Lombardia Bartolomeo Iaconis. Si è chiuso così in secondo grado, solo con lievi riduzioni delle pene per alcune posizioni, il maxi processo in abbreviato ad oltre 30 persone che erano state fermate il 16 novembre 2021 nella tranche lombarda, ribattezzata “cavalli di razza”, di una maxi inchiesta, coordinata anche dalle Dda di Reggio Calabria e Firenze, sul clan Piromalli-Molé. Lo riporta l’Ansa. A seguito delle indagini della Squadra mobile di Milano e della Gdf di Como, coordinate dai pm Pasquale Addesso e Sara Ombra, erano già stati condannati in primo grado anche Michelangelo Larosa (10 anni) e Michelangelo Belcastro (oltre 9 anni), entrambi con Iaconis della ‘locale’ di Fino Mornasco (Como). Dagli atti era emerso, poi, che Attilio Salerni (condannato a 8 anni) e il fratello Antonio (8 anni e 4 mesi) sarebbero stati gli esecutori materiali «di violenze e minacce nei confronti dei dirigenti» della Spumador Spa, azienda di bevande gassate finita nella morsa dei clan e per la quale era stata disposta l’amministrazione giudiziaria per infiltrazioni mafiose, poi revocata. Alla Spumador, parte civile nel processo, era andata una provvisionale di risarcimento di 100mila euro. Per associazione mafiosa erano state condannate anche Elisabetta Rusconi e Carmela Consagra (moglie di Iaconis), intestatarie fittizie, secondo l’accusa, di tre società e che si sarebbero occupate pure “delle attività di recupero crediti” quando i mariti erano detenuti. L’evolversi della ‘ndrangheta in Lombardia, ha scritto il gup Lorenza Pasquinelli nella sentenza di primo grado, ha “portato ad un arricchimento del panorama umano di riferimento, posto che le locali”, ossia i clan, “si compongono non solo di personalità mafiose già note, ma anche di nuove generazioni, nuove reclute”.