In libreria “L’Anima del Luogo”, il triplo viaggio del giornalista Gregorio Corigliano Il paese di San Ferdinando, e non solo, nel nuovo libro del volto noto della Rai che ricorda e invita a riflettere sulla restanza e sulla scappanza dalla Calabria
Di Agostino Pantano
Il nuovo libro di Gregorio Corigliano, sin dal titolo – che è “Ecco l’Anima del Luogo” – ti costringe ad un triplo viaggio sovrapposto. Non c’è l’ansia di una meta da raggiungere, negli itinerari personali e pubblici che il giornalista propone in questa che è la sua terza fatica letteraria – da quando è andato in pensione da caporedattore della Rai – ma ciò che rende piacevole il divenire di queste altre pagine è, senza dubbio, l’inconsapevole e multiplo approdo raggiunto. Inconsapevole perché non studiato, non ricercato, perché la scrittura di Corigliano – colonna portante e volto noto per tanti anni della redazione calabrese della Rai – è ancora un istinto urgente, rigoroso nella forma, diligente nella esposizione, ma pur sempre offerto senza furbizie, quindi prima di tutto per se stesso. Il primo viaggio è quello che parte dalla copertina del libro edito da Albatros, scarna, solo con la foto di una chiesa, espositiva in quel “Ecco” che apre il titolo, ma senza sottotitolo la stuzzicante premessa è che non si capisce dove sia “L’anima del luogo” di cui vuole parlare l’autore. Potrebbe essere ambientato ovunque, il novellare di Corigliano, e quindi ciò che lui propone è prima di tutto una introspezione nel se stesso che ora ricorda: il suo paese, il suo luogo dell’anima e la sua anima del luogo, San Ferdinando. Al primo viaggio, nelle storie vissute da bambino e rilette con l’occhio di oggi – che quando può ritorna – se ne aggiunge quindi un altro per il quale chi legge parte e arriva nell’Anima di un paese. Qui Corigliano, dopo la prefazione firmata dal segretario nazionale della Cisl, Gigi Sbarra – un altro calabrese trapiantato altrove ma rimasto “di paese” – offre una lettura dei mutamenti sociali, dal secondo dopoguerra ad oggi. Le storie di come la gente viveva la politica, la socialità, i divertimenti spicci piuttosto che i grandi fatti che hanno cambiato il volto della cittadina che sta sotto le gru del porto di Gioia Tauro, diventano la compilazione di un saggio che non ha pretese di essere esaustivo. C’è solo, e non è poco, lo spaccato di due anime: quella dell’autore, che è stato bambino ed è stato protagonista di quella storia pubblica, affiancata a quella del Luogo che si è fatto attraversare da grandi rivoluzioni nei costumi e nelle abitudini. E questi due dialoghi che Corigliano ha, con se stesso e col paese che ritrova cambiato, formano un affresco sulla Calabria contemporanea, sui processi di cambiamento e di modifica che, siccome avvenuti alle nostre latitudini, interessano prima di tutto i calabresi, ma poi anche tutti i meridionali. Al personale e al sociale, si aggiunge un terzo arrivo che la lettura offre nel terreno minato delle domande, in quel campo vasto che il giornalista – come sempre lucido negli interrogativi giusti disseminati nella sua brillante scrittura – ancora sente di voler porgere al suo pubblico: restare o partire, anzi partire è non tornare ? Corigliano ci da le sue risposte, che sono risposte con cui ancora oggi i calabresi devono fare i conti di fronte ad una diaspora che pure continua a colpire il mondo giovanile. Ognuno le può trovare senza dimenticare, però, che queste pagine – questi tre viaggi nell’intimo, nel pubblico e, infine, nella provocazione di un dibattito stimolante – sono prima di tutto una medicina che l’autore si somministra e ci somministra. Contro l’indifferenza, contro il finto interventismo che il mondo dei social propala, contro l’apatia di chi si costringe a reprimere i ricordi, questo libro agile nella lettura anche spassosa di decine e decine di aneddoti, ci proietta nel Paese e ci fa uscire più consapevoli, magari nostalgici e non immobili, ma certamente arricchiti. L’anima e il luogo, non il posto ma il luogo, e non il cuore ma l’anima: sono i nuovi doni che la scrittura di Corigliano ci offre. Dopo aver ricordato la prigionia del maestro Nino Corigliano, ne “I Diari di Mio Padre”; dopo aver aperto i suoi taccuini di giornalista in riva al mare con “Nero di Seppia”, ora arriva questa dedica alla sua San Ferdinando di un fascino ritrovato, semplicemente scrivendone. Potenza di una vita che senza la riflessione pubblica, a cui Corigliano per fortuna di tutti noi non sa rinunciare, sarebbe pura meccanicità senza movimento.