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TAURIANOVA (RC), GIOVEDì 28 NOVEMBRE 2024

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L’università e il futuro della ricerca

L’università e il futuro della ricerca

| Il 13, Ott 2011

Lo sforzo delle classi dominanti è di subordinare sempre più strettamente il processo di formazione delle nuove generazioni alle domande del mercato del lavoro. La legge Gelmini è il compimento in Italia di questo processo. Studenti e ricercatori devono capire che possono far cambiare registro e incidere sulle scelte politiche

di PIERO BEVILACQUA

L’università e il futuro della ricerca

Lo sforzo delle classi dominanti è di subordinare sempre più strettamente il processo di formazione delle nuove generazioni alle domande del mercato del lavoro. La legge Gelmini è il compimento in Italia di questo processo. Studenti e ricercatori devono capire che possono far cambiare registro e incidere sulle scelte politiche

 

È tempo di riprendere la discussione sull’Università, una delle istituzioni che è entrata tardivamente nel vortice delle politiche neoliberiste e che oggi le subisce con particolare asprezza. Vorrei qui richiamare l’attenzione soprattutto sull’art. 12 della legge Gelmini, relativa ai ricercatori a tempo determinato (per il commento critico sistematico a questa legge rinvio al sito www.amigi.org). Stabilisce il Comma 4: «I contratti hanno durata triennale e possono essere rinnovati una sola volta per un ulteriore triennio previa positiva valutazione delle attività didattiche e di ricerca svolte». Ecco d’un sol colpo e quasi di soppiatto inserito nel corpo dell’Università un dispositivo che sconvolge l’assetto storico della riproduzione scientifica e intellettuale nel nostro Paese. Il “lavoro flessibile”, dunque, il precariato è legge anche dentro le nostre vetuste strutture dell’alta formazione. Come non esaltarsi di fronte a tanta modernità che avanza, alle invocate riforme che finalmente si realizzano?
La prima riflessione da fare, a proposito di questo punto della norma, riguarda la sua ratio. A che serve? L’unica spiegazione “nobile” – a parte quella economica, mirata a ridurre drasticamente il peso dell’Università pubblica nel bilancio dello stato – è quella di rendere i futuri ricercatori competitivi, sempre “sulla corda” rispetto alla loro posizione, costretti ad essere sempre produttivi per non essere espulsi dall’istituzione. Ora, c’era davvero bisogno di inserire la precarietà per legge al fine di dar slancio competitivo ai nuovi ricercatori? Credo che solo chi ha frequentato la nostra Università attraverso corsi per corrispondenza possa essere stato sfiorato dall’idea di una simile fandonia. Le nostre facoltà, scientifiche o umanistiche che siano, non hanno alcun bisogno di stimoli o incentivi: la competizione è già elevatissima. Lo è anche per il fatto che dalla produttività scientifica dipende l’avanzamento della carriera, in maniera assolutamente più limpida che in altri ambiti dell’amministrazione pubblica. Chi vuole diventare ricercatore, professore associato, professore ordinario, deve pubblicare, essere riconosciuto meritevole dalla comunità scientifica di riferimento, superare regolari concorsi. Piuttosto è l’Università italiana, soprattutto per la miseria in cui versa da decenni e per la cattiva amministrazione, che non riesce a premiare una produttività e competitività che sono invece elevate. Sono stato di recente presidente di commissione in un concorso per ricercatore di storia contemporanea e ho dovuto esaminare – e necessariamente bocciare, perché il posto assegnabile era soltanto uno – decine e decine di candidati con titoli scientifici così numerosi e pregevoli da meritare la cattedra di professore ordinario. Dunque, non è la competizione il problema, ma l’assenza totale di prospettive per i tantissimi nostri studiosi che fanno ricerca di alta qualità.
Ma c’è nell’art.12 della legge l’introduzione di un dispositivo che va esaminato più da vicino per coglierne tutte le potenzialità distruttive di prospettiva. Innanzi tutto – è forse il primo aspetto da sottolineare – la norma istituisce solennemente la subordinazione intellettuale e il conformismo culturale come principio cardine della formazione dei futuri ricercatori e dei docenti. Chi non riesce a immaginare che cosa succederà a queste figure che hanno solo tre anni di lavoro sicuro davanti a sé e la cui conferma dipende dal docente cui sono legati? Qualcuno si ricorda le polemiche della Gelmini contro i «baroni»? Ecco, il vassallaggio personale al loro potere diventa ora assoluto. Nessun giovane si arrischierà a pubblicare ricerche eterodosse che possano urtare il proprio professore. Quindi il conformismo culturale e scientifico e l’uccisione sul nascere di ogni spirito di innovazione è assicurato. Ma questo è solo una parte del cammino predisposto da questa esaltante trovata della legge Gelmini, che per la verità riprende strategie già in atto in altre Università, soprattutto negli Usa. Anche nelle nefandezze la destra italiana è debitrice del pensiero altrui. E qui sono costretto a notare che si è poco riflettuto su un aspetto ancora più grave e di più straordinarie implicazioni avvenire. Qualcuno si è chiesto quale mai grande impresa di ricerca, quale ambizioso progetto intellettuale, sia scientifico che umanistico, potrà mai essere concepito in futuro dai nostri giovani ricercatori su cui graverà – nella fase di fondazione dei loro studi – un orizzonte di così evidente incertezza e precarietà? Quale ricerca di lunga durata verrà mai progettata senza nessuna sicurezza dell’avvenire? E’ evidente, dunque, che verranno intrapresi solo studi di breve periodo, immediatamente utili, per la carriera o per la produzione di brevetti, finalizzati al tempo veloce di valorizzazione del capitale, cui dovrebbe ormai subordinarsi l’intero mondo degli studi. Dunque, va detto con la solennità che l’evento merita: per la prima volta, nella storia d’Italia, tramite la legge Gelmini, un governo della Repubblica programma il decadimento dei nostri studi e della nostra cultura, progetta cioè per i decenni futuri l’immiserimento della nostra civiltà e la creazione di un corpo docente ridotto al rango di frettolosi tecnocrati di un pulviscolo di discipline strumentali.
Certo, la legge Gelmini ha il merito di mostrare con limpidezza il progetto sempre più dispiegato del capitale di piegare le strutture dell’alta formazione e della ricerca pubblica ai propri fini immediati e di breve periodo. Essa mostra cioé, in filigrana, l’orizzonte di immiserimento antropologico verso cui la cosiddetta crescita vuol condurci. Ma qui debbo ricordare almeno una pratica in corso, in atto da tempo nel nostro Paese, che si muove nella stessa direzione e che invece sembra godere di un tacito consenso universale. Mi riferisco alla istituzione ormai dilagante del numero chiuso che sbarra ai giovani l’accesso a un numero crescente di facoltà.
Ora metto da parte i criteri della selezione: l’utilizzo dei test attitudinali, vale a dire i cascami degenerati di una branca della psicologia americana. Quanti giovani di valore non superano questi test? Ma il punto da discutere è: perché lo sbarramento? Non sono sufficienti gli stessi esami universitari a selezionare l’attitudine dei giovani a proseguire negli studi intrapresi? Ricordo che i nostri esami sono tra i più severi che si praticano nelle varie università del mondo. Perché non possono iscriversi a una Facoltà se hanno il titolo di studio necessario e pagano le tasse? Non ci hanno assordato per trent’anni col ritornello che bisogna assecondare il mercato? E allora perché, se c’è una così elevata domanda di istruzione superiore, non si risponde con una offerta adeguata? L’offerta, e dunque l’investimento, si ha solo per fini immediati di profitto? Si obietta, ad esempio, che ci sono troppi medici e bisogna scoraggiare nuove iscrizioni. E se si vuole diventare ugualmente medici perché si ama la medicina, se si ha in progetto di fare il medico nel Senegal o in Bangladesh? Che fine fa la tanta esaltata nobiltà della conoscenza, che fine fa il cosmopolitismo del cosiddetto mondo globale? In realtà la ragione non detta è un’altra, ed è di vasta portata strategica, destinata – se non verrà sconfitta – a distruggere la civiltà culturale dell’Occidente e dell’Oriente. Lo sforzo delle classi dominanti è di subordinare sempre più strettamente il processo di formazione delle nuove generazioni alle domande del mercato del lavoro. Dopo che, per almeno tre secoli, mondo della formazione e della ricerca e attività produttiva capitalistica erano stati ambiti correlati, ma dotati di relativa autonomia, oggi il capitale finanziario non è più disponibile a finanziare una formazione culturale “disinteressata”, non destinata a produrre immediate ricadute di profitto. Un tempo i giovani sceglievano liberamente di diventare maestri o ingegneri, poi il mercato del lavoro offriva loro varie opportunità d’impiego. Ora questo appare, al senso comune dominante, parassitizzato fin nel midollo dall’economicismo dell’epoca, non più tollerabile, diseconomico. Che cos’è questa voglia disinteressata di studiare chimica o letteratura greca se non ci sono i posti di lavoro in cui renderle “produttive”? Possiamo forse quotare in borsa la letteratura italiana, la linguistica, la filologia romanza? Non sono costi che ci possiamo permettere urlano gli economisti. Invito a riflettere . L’abisso in cui il capitalismo ci sta trascinando è visibile in questo paradosso: la società più opulenta che mai sia apparsa nella storia umana dichiara di non potersi consentire il lusso di finanziare saperi che non valorizzano immediatamente il capitale investito. Com’è noto, del resto, in Usa e Gb si fanno indebitare gli studenti perché essi possano conseguire la formazione universitaria. Imprenditori di se stessi, essi sono diventati una fonte di lucro per le banche e un segmento dell’economia del debito, il cui successo è sotto gli occhi di tutti.
Infine un modesto consiglio agli studenti e ai ricercatori che hanno scritto negli ultimi due anni una pagina importante di lotta civile nel nostro Paese. Essi debbono rammentarsi che non costituiscono solo un gruppo sociale capace di mobilitazione. In moltissimi casi, essi sono i membri più colti e consapevoli delle proprie famiglie. Talora di estese parentele. Essi cioè sono in grado di avere una influenza politica di vasta portata anche al di fuori del proprio ambito. Occorre ricordarsene, perché, quando avremo cacciato via il presente governo, non è per nulla scontato che chi si candida a sostituirlo cambi radicalmente registro. E allora bisognerà esser consapevoli di poter influenzare un vasto bacino elettorale, avere la forza di incidere su scelte di decisiva rilevanza.

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