Assistenti educativi e della comunicazione: gli “invisibili” della scuola Una rappresentanza di lavoratori chiede maggiori tutele: "noi, eternamente precari". Il preside del "Severi", Gelardi (presidente regionale ANP): "Regione e Città Metropolitana ascoltino le loro istanze"
GIOIA TAURO – Tanti doveri nei confronti degli alunni e delle famiglie ma i loro diritti sono negati: parliamo degli “invisibili” della scuola, così come si definiscono, eternamente precari seppur indispensabili. Si tratta degli assistenti educativi e della comunicazione. A nome loro parla una nutrita rappresentanza dell’Istituto “Severi” di Gioia Tauro, scuola d’eccellenza nel panorama nazionale. Svolgono un lavoro fiduciario riuscendo a instaurare un rapporto con i ragazzi “speciali” per i quali diventano la figura primaria di riferimento dopo la famiglia. Operano insieme agli insegnanti di sostegno per una programmazione che si concretizza solo grazie a un lavoro di squadra, con un’equipe socio psico-pedagogica e con l’intero consiglio di classe; essenziali in questo periodo di lockdown per assicurare agli alunni con disabilità grave la continuità di quel sistema di relazione sempre esistito. Insomma, nessuna grossa differenza con i colleghi di sostegno se non sulla carta. Hanno conseguito un diploma specifico, parecchi sono anche laureati ma sono le uniche persone che non hanno un contratto che gli consente di far parte integrante della comunità scolastica, pagati a prestazione d’opera, cioè ad ore, ciascuna retribuita 12 euro lorde; 8,66 euro netti. Niente contributi, malattia o maternità, non sono nemmeno assicurati o in lista per il vaccino in questo periodo di grave contagio. Il “Severi” li ha assicurati come gli altri ma è un’eccezione. Viaggiano da Oppido, Scido, Sant’Eufemia, Taurianova, Cittanova, Palmi, Rizziconi affrontando le spese del carburante ma se manca l’alunno tendenzialmente non potrebbero lavorare rimettendoci anche la benzina, senza alcun paracadute. Neanche un albo professionale al quale rivolgersi. Che dire, poi, dei loro emolumenti? La Città Metropolitana, che riceve le risorse dalla Regione, li ha pagati a dicembre in un’unica soluzione, dal 1. gennaio non c’è ancora disponibilità di fondi e le scuole non sanno su che budget poter contare per assumerli: senza copertura finanziaria molti presidi non li hanno chiamati affatto. Chiedono di essere internalizzati e l’istituzione di un Albo. Ad affiancarli in questa battaglia il dirigente Pino Gelardi, presidente regionale dell’ANP: “è una professione indispensabile all’interno dell’istituzione scolastica per il processo educativo dei diversamente abili -evidenzia- occupandosi della loro autonomia e integrazione all’interno della classe. Hanno famiglie dietro in cui magari lavora solo un componente e non possono avere un progetto di vita. Rivendicano i riconoscimenti di base: il diritto alla maternità, alla malattia, ai contributi sui pochi soldi che ricevano. Serve un intervento normativo -rimarca -la Regione dovrebbe garantire maggiori risorse e la CM distribuirle alle scuole con più puntualità”. Va ancora peggio con le scuole di primo ciclo: in questo caso, la Città Metropolitana, che con le scuole superiori ha un rapporto diretto, gira i fondi ai Comuni che, a loro volta, possono delegare dei terzi intermediari, ovvero le cooperative, con un passaggio in più. “È una prima disparità che andrebbe rimossa -conclude Gelardi – sarebbe più giusto mandare le risorse direttamente anche ai presidi delle medie”. Una situazione difficile che, da anni, è sempre la stessa e, così, capita sempre più spesso che chi ha intrapreso un percorso come assistente educativo, anche se innamorato della propria professione, prima o poi, si stanchi e preferisca fare altro disperdendo, a causa delle troppe angherie, tutto questo vissuto, perché il bisogno economico spinge a cercare maggiori certezze altrove, anche con lavori meno gratificanti. Caterina, laureata, è da quattro anni che opera in questo settore: “non ci spetta un giorno di malattia, -spiega – ho dei bambini, mio marito lavora e sono costretta a lasciare la più piccola al nido, pagando, per poter venire a scuola. I presidi, poi, sono avulsi da questa situazione, alcuni non se ne prendono carico essendo noi delle figure precarie, quest’anno, a parte noi del “Severi”, non ha lavorato nessuno con la pandemia in atto. Certo, -aggiunge – potrei guadagnare di più facendo altro -aggiunge – ma ciò di cui mi occupo mi piace, ho studiato per questo, i ragazzi ci danno quello di cui abbiamo bisogno, l’amore e la gratificazione e con loro si instaura un rapporto stretto”. Le fa eco Maria Teresa: “qui al “Severi”, i ragazzi disabili stanno frequentando quasi tutti – precisa – e grazie a noi viene meno anche il fenomeno della dispersione scolastica, rappresentiamo un trade d’union tra famiglia e scuola”. Nazareno è sposato, sua moglie fortunatamente lavora ma da padre di famiglia sente ancora più pesante il carico di responsabilità: “ho una figlia, -dice – la situazione è critica, spero che qualcuno possa portare avanti la nostra causa. Non siamo affatto tutelati”. Infine, Ilaria mette in risalto il legame affettivo che si crea con ragazzi: “a ciclo scolastico già concluso -racconta – continuo a sentire ancora due ragazzi; in periodo di pandemia con i centri specializzati chiusi rappresentiamo l’unica boccata d’aria per loro”. Piccole storie di lavoratori che versano in un limbo terribile dal quale vorrebbero al più presto uscire per poter programmare, come tutti gli altri, il proprio futuro.