Mastro Titta, l’ultimo boia Riflessioni del giurista blogger Giovanni Cardona sui boia istituzionali
Giovanni Battista Bugatti, detto Mastro Titta (Senigallia, 6 marzo 1779 – Roma, 18 giugno 1869), noto anche in romanesco come “er boja de Roma”, fu il più celebre nonché l’ultimo esecutore di sentenze capitali per lo Stato Pontificio.
Oggi le cose sono cambiate, la breccia di Porta Pia ha rideterminato la crudeltà nelle esecuzioni capitali, delegandone l’assolvimento rieducativo dei reprobi ad un organo costituzionalmente preposto: la Magistratura.
C’è una sempre più pervicace convinzione che i giudici attuino con il loro operato un’opera di moralizzazione della giustizia.
L’emergenza giudiziaria, che oramai dura da molti lustri, sembra che abbia trovato nell’ordine giudiziario la sua definitiva istituzionalizzazione.
I giudici politicizzati moralizzano la giustizia, non nel senso di renderla morale, ma nell’attuare scientemente e razionalmente i propri rancori e interessi, avallandoli con apparenti motivazioni e conferendo alla loro azione repressiva un’aura di “moralità”; incitati in questo da una pletora oscurantista di giustizialisti che contribuiscono, da buona claque mediatica, ad investirli di una missione storica che nessuna norma divina o temporale ha instillato o conferito.
La ripetuta violazione dei principi costituzionali e la disapplicazione sistematica delle regole dei codici, che sono espressione travasata dei primi principi di fonte normativa, viene recepita ed interpretata come una “forzatura necessaria” che trova il necessario alibi apparentemente irrefutabile in una deflazionante e camaleontica emergenza giudiziaria.
La strategia viene costruita attraverso l’occultamento del vero tema tra locuzioni vaghe, confuse ed equivoche, che nella loro opacità interpretativamente soggettiva, consente ai giudici di riempire quegli spazi vuoti con delle proiezioni personali, estemporanee e sovversive del diritto costituito.
Viene a realizzarsi un sistema di locuzioni sradicate dalla realtà, con strumentali forzature che si traducono in slogans in cui la violenza legale attuata si pietrifica in una dispotica forza rasentante l’abuso di potere.
Chiaramente è una tecnica che conduce alla svalutazione, alla banalizzazione e conseguentemente alla rimozione del problema.
I giustizialisti, zelanti fautori delle tesi giustificazioniste, maestri nell’arte della persuasione occulta, scorgono sempre qualche argomento sentimentale fideiussore del loro deprecabile assunto: biasimano gli avversari nel voler ledere la prerogativa della indipendenza dei giudici ricorrendo alla pantomìmica recita della commedia dell’indignazione.
Mentre in uno stato di diritto – nel quale la legalità è una forma derivata dalla legittimità – la legittimazione avviene attraverso la procedura, basata su esigenze di razionalità e di controllo, nell’attuale stato di anarchia istituzionale e di delegificazione interpretativa, scorgiamo un fondamento emotivo e non legalmente razionale che lede la stessa natura legittimante il potere giudiziario.
La legittimità del potere che è monopolizzato dallo Stato moderno e si concretizza attraverso l’osservanza dei procedimenti giuridici e nella legalità delle decisioni, si è scontrato con le emergenze giudiziarie (corruzione, mafia) provocando di fatto, attraverso il moralismo di massa, la sottrazione o addirittura la soppressione del valore costituzionale e della legittimazione razionale e legale.
La sottrazione di legittimazione razionale-legale ha portato alla perdita della terzietà del giudice, il quale trova il suo alimento nel consenso mass-media o negli applausi del circo mediatico; alla creazione di miti artificiali, privi di verità precostituite; alla trasformazione dell’ordine giudiziario in un politicizzato contropotere.
“Giustizia. Un articolo che lo stato vende, in condizioni più o meno adulterate, al cittadino, in ricompensa della sua fedeltà, delle tasse e dei servizi resi.” (Ambrose Bierce, Dizionario del diavolo, 1911)