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Chi non è raccomandato, scagli la prima pietra

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Essere raccomandati in un’azienda privata è una cosa lecita. Esser
raccomandati per vincere un concorso pubblico o un esame di Stato è reato.
Spesso, però, per indulgenza o per collusione, le cose si confondono.

Se non basta un muro di parole per vincer la resistenza degli scettici,
allora è solo mala fede in loro.

La Costituzione all’art. 3 non cita che siamo tutti uguali o tutti
discendenti di eccelsi natali, esplica solo che tutti siamo uguali, sì, ma
di fronte alla legge!!!

Calcio, politica e soldi. Tutti i luoghi comuni dell’italiano medio. Da “i
ricchi evadono” al “solito inciucio”: ormai le litanie dilagano. E chi le
recita si sente un po’ più onesto degli altri, scrive Massimiliano Parente
su “Il Giornale”. A cominciare dalla considerazione «Solo in Italia». Solo
in Italia ci sono mille parlamentari. Solo in Italia non trovano i colpevoli
dei delitti. Solo in Italia la giustizia funziona male, ovviamente se per
caso tocca noi, se tocca un altro «dovrebbero metterlo dentro e buttare la
chiave», come fanno all’estero. Tanto nessuno conosce l’estero, per questo
ogni legge elettorale te la propongono alla francese, alla tedesca,
all’americana, per mostrare di conoscere il mondo quando non si sa un cavolo
neppure di come si vota in Italia. Coltivando il mito di paesi nordici come
la Scandinavia o la Norvegia, dove i servizi funzionano a meraviglia, dove
lo tasse sono bassissime, basta che non domandi dove sta la Norvegia perché
non saprebbero neppure indicartela sulla carta geografica. Sebbene abbiano
sentito Grillo che ti spiega come lì si ricicli anche la pupù. Ma perché non
cerchi lavoro? Perché tanto «non c’è lavoro», perché «bisogna andare fuori»,
e poi tutti sono sempre qui, mai che muovano il sederino, come all’estero
appunto. Tanto «è tutto un magna magna», e «tutti rubano», sempre a
sottintendere che chi lo dice non appartiene alla categoria, sempre a
sottolineare una propria specchiatissima onestà, perché solo in Italia «i
ricchi evadono lo tasse», l’hanno visto da Santoro e a Report, te lo dice il
barista che intanto non ti rilascia lo scontrino fiscale e il medico o
l’idraulico che senza fattura, se vuoi, paghi meno, e tu ci stai perché
tanto mica te la scarichi, come in America. Tanto «gli italiani so’ tutti
ignoranti», sbotta quello che non ha mai aperto un libro e un quotidiano lo
sfoglia a scrocco mentre sbocconcella il cornetto, leggendo solo i titoli,
non per altro quanto a lettura di giornali veniamo dopo la Turchia, e
l’editoria è in crisi qui più che altrove, perché se si legge qualcosa «l’ho
letto su internet». Che poi se cerchi lavoro, è noto, «prendono solo
raccomandati», e intanto non è che per caso conosci qualcuno? In un paese
dove «non c’è meritocrazia», e mica se ne lamenta il laureato a Harvard, se
ne lamentano tutti, un popolo di meritevoli, informati, studiosi, sentono
che c’è «la fuga dei cervelli» e si identificano subito col cervello in
fuga. Mai sentito nessuno che ammetta di non essere all’altezza, di aver
studiato poco, di non meritarsi nulla, tutti sanno tutti, in qualsiasi
campo, dalla medicina all’economia. Convintissimi che se i parlamentari si
tagliassero lo stipendio si abbasserebbe il debito pubblico. O almeno
potrebbero «dare l’esempio», quasi che i deputati fossero arrivati in
parlamento con un’astronave e non li avessero votati loro. Perché qui «è
tutto un inciucio», e nel frattempo pure a me scrittore, nel mio piccolo,
arrivano in posta sporte di manoscritti mediocri che vogliono essere letti
da gente che non ha mai letto niente, tanto meno me, ma se glielo fai notare
rispondono «Mica sarà peggio di tanti che pubblicano?». È il diritto alla
mediocrità, solo in Italia.

Eguaglianza «aritmetica» o «proporzionale», secondo la distinzione di
Aristotele? Nel punto d’arrivo o di partenza? Verso l’alto o verso il basso,
come vorrebbero le teorie della decrescita? Se due mansioni identiche
ricevono retribuzioni differenti, dovremmo elevare la peggiore o abbassare
la piú alta? Ed è giusto che una contravvenzione per sosta vietata pesi allo
stesso modo per il ricco e per il povero? Sono giuste le gabbie salariali,
il reddito di cittadinanza, le pari opportunità? E davvero può coltivarsi
l’eguaglianza fra rappresentante e rappresentato, l’idea che «uno vale uno»,
come sostiene il Movimento 5 Stelle? In che modo usare gli strumenti della
democrazia diretta, del sorteggio e della rotazione delle cariche per
rimuovere i privilegi dei politici? Tra snodi teorici ed esempi concreti
Michele Ainis ci consegna una fotografia delle disparità di fatto,
illuminando la galassia di questioni legate al principio di eguaglianza.
Puntando l’indice sull’antica ostilità della destra, sulla nuova
indifferenza della sinistra verso quel principio. E prospettando infine una
«piccola eguaglianza» fra categorie e blocchi sociali, a vantaggio dei
gruppi piú deboli. Una proposta che può avere effetti dirompenti.

Siamo tutti bravi a sciacquarci la bocca sull’uguaglianza. Ecco il fenomeno
dei populisti.

Il largo uso che i politici e i media fanno del termine “populismo” ha
contribuito a diffonderne un’accezione fondamentalmente priva di
significato: è rilevabile infatti la tendenza a definire “populisti” attori
politici dal linguaggio poco ortodosso e aggressivo i quali demonizzano le
élite ed esaltano “il popolo”; così come è evidente che la parola viene
usata tra avversari per denigrarsi a vicenda – in questo caso si può dire
che “populismo” viene talvolta considerato dai politici quasi come un
sinonimo di “demagogia”.

Ritorsioni se dici la verità: sì, ma come si fa a tacere queste
mascalzonate?

Equitalia, milioni di cartelle a rischio: 767 dirigenti nominati senza
concorso, scrive Blitz quotidiano.

La Corte Costituzionale abbatte Equitalia. I dirigenti? Tutti falsi, scrive
Angelo Greco su “Legge per Tutti”.

“Università, altro che merito. E’ tutto truccato. Vi racconto come funziona
nei nostri atenei”. Fondi sperperati, concorsi pilotati, giovani sfruttati.
Un ex dottorato spiega nel dettaglio come si muove il mondo accademico tra
raccomandazioni e correnti di potere. E qualcuno non vuole che il libro in
cui riporta tutti gli scandali venga pubblicato, scrive Maurizio Di Fazio su
“L’Espresso”.

Chi non è raccomandato scagli la prima pietra. Più di quattro milioni di
italiani sono ricorsi a una raccomandazione per ottenere un’autorizzazione o
accelerare una pratica. E 800mila hanno fatto un “regalino” a dirigenti
pubblici per avere in cambio un favore. Sono alcuni dati emersi da una
ricerca realizzata dal Censis.

Non solo. Il coro di voci, che hanno chiesto le dimissioni al Ministro Lupi
del governo Renzi, è roboante. Tra i vari aspetti della vicenda Incalza che
lo vedono coinvolto, al ministro delle Infrastrutture non viene perdonata la
presunta raccomandazione per il figlio. Ma è davvero così peccaminoso
prodigarsi per il proprio figlio come ogni genitore farebbe, oltretutto, in
un Paese dove la raccomandazione è all’ordine del giorno?

E’ inutile negarlo, la pratica della raccomandazione è la sola che funziona
perfettamente nel nostro Paese, anche perché coinvolge ognuno di noi in
maniera democratica senza distinzione di genere, scrive “Panorama”. Ci sono
gli italiani che raccomandano e gli italiani che si fanno raccomandare, una
sorta di catena di Sant’Antonio che prosegue all’infinito. Almeno una volta
nella vita bisogna provare l’ebbrezza della spintarella, anche quando si è
coscienti che questa non servirà a nulla per raggiungere l’ambita
destinazione, qualsiasi essa sia (il posto di lavoro, la visita medica,
l’esame all’università) e non importa se alla meta arriverà un altro, perché
la nostra osservazione sarà “chissà chi lo ha raccomandato…!” E poi ci
sentiamo a posto con la coscienza per due motivi, il primo perché, comunque,
il tentativo lo abbiamo fatto, il secondo perché la volta successiva non ci
faremo trovare impreparati, anzi ci organizzeremo meglio cercando una spinta
più potente. Forse un giorno potremo anche inserirla nel curriculum vitae.

Il caso esemplare è lo scandalo di Catanzaro: oltre duemila
compiti-fotocopia. Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli
avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di
Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo
0,13 per cento del totale, appare non copiato. Compiti identici, riga per
riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e
atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli
errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente» in «precisamente». Una
concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo
svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa:
“scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti
di non perdere il filo». «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono
stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe
andato tutto liscio», dice una candidata, che poi diventerà avvocato e
probabilmente commissario d’esame, che rinnegherà il suo passato e che
accuserà di plagio i nuovi candidati. L’indagine è affidata ai pm Luigi de
Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico
e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Catanzaro non è l’unica mecca delle
toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001
promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini
in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati
arrivano da tutta Italia, e i veri intoccabili soprattutto dalle sedi del
Nord dove gli esami sono molto selettivi per impedire l’accesso di nuovi
avvocati nel mercato saturo. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi
risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio,
svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei
futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere
ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque
alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini
forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è
totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre
1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni
fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me
compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno
potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento
giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così
grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno
le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di
indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare
dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per
avvenuta prescrizione». Tutto finito. Questi avvocati esercitano.

La Calabria è bella perchè c’è sempre il sole, scrive Antonello Caporale su
“La Repubblica”. Milano invece spesso è velata dalla nebbia. E’ bella la
Calabria anche, per esempio, perchè il concorso per l’abilitazione alla
professione di avvocato sembra più a misura d’uomo. Non c’è il caos di
Milano, diciamolo. E in una delle dure prove che la vita ci pone resiste
quel minimo di comprensione, quell’alito di compassione… In Calabria c’è il
sole, e l’abbiamo detto. Ma vuoi mettere il mare? ”Avevo bisogno di un
luogo tranquillo, dove poter concentrarmi senza le distrazioni della mia
città. Studiare e affrontare con serenità l’esame”. Ecco, questo bisogno ha
portato Antonino jr. Giovanni Geronimo La Russa, il figlio di Ignazio,
anch’egli avvocato ma soprattutto ministro della Difesa, a trasferirsi dalla
Lombardia in Calabria. Laureato a pieni voti all’università Carlo Cattaneo,
Geronimo si è abilitato con soddisfazione a Catanzaro a soli ventisei anni.
Due anni ha risieduto a Crotone. Dal 25 luglio 2005, in piazza De Gasperi,
nella casa di Pasquale Senatore, l’ex sindaco missino. E’ rimasto nella
città di Pitagora fino al 18 gennaio 2007. E si è rigenerato. Un po’ come
capitò a Mariastella Gelmini, anche lei col bisogno di esercitare al meglio
la professione di avvocato prima di darsi alla politica, e anche lei scesa
in Calabria per affrontare con ottimismo l’esame. La scelta meridionale si è
rivelata azzeccata per lei e per lui. Il piccolo La Russa è tornato in
Lombardia con la forza di un leone. E dopo la pratica nello studio
Libonati-Jager, nemmeno trentenne è divenuto titolare dello studio di
famiglia. Quattordici avvocati a corso di porta Vittoria. Bellissimo. “Ma è
tutto merito mio. Mi scoccia di passare per figlio di papà”.

Ma guarda un po’, sti settentrionali, a vomitar cattiverie e poi ad
agevolarsi del…sole calabro.

Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe
1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati
svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei
commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media
(comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta
chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli
hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto
ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte
della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In
quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de
Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso
farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti
abilitati.

Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio:
esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di
errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al
concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato
ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del
pubblico ufficio. Risultato: un buco nell’acqua. Questi magistrati, nel
frattempo diventati dei, esercitano.

Quando si dà la caccia ai figli per colpire i padri, scrive Lanfranco
Caminiti su “Il Garantista”. E poi dicono, i potenti, povero ministro Lupi.
Un figlio laureato con 110 e lode al Politecnico di Milano, e tutto quello
che gli trova è un lavoretto su un cantiere Eni a partita iva da 1300 euro
mese. Un precario aggiunto ai milioni di giovani senza posto fisso. E sì che
mica lo poteva infilare in una delle cooperative di Comunione e liberazione,
quelle ormai stanno nell’occhio del ciclone, e poi che fai, vai a pulire il
culo degli ammalati negli ospedali, dai i pasti alla mensa, ti sbatti coi
tossici, ricicli i libri usati, oh, c’ha una laurea al Politecnico. E però,
per i figli si farebbe tutto, certo. Anche mettendoti a rischio. I figli
sono pezzi di cuore, sono quello per cui ti sbatti, sono quello che rimarrà
di te, sono il punto debole. È una costante questa. Sarà che noi italiani
c’abbiamo il familismo amorale, c’abbiamo. Prima di tutto la famiglia, i
figli.

Chissà se hanno telefonato per i loro figli in carriera. Indignazione per
Lupi jr, ma nessuno si chiede se i rampolli dei leader democratici abbiano
avuto l’aiutino. Dagli eredi dei presidenti alle ragazze di Veltroni e
D’Alema, scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. «Mio figlio è laureato al
Politecnico con 110 e lode, gli faccio sempre questa battuta: purtroppo ha
fatto Ingegneria civile e si è ritrovato un padre ministro delle
Infrastrutture» si difende Maurizio Lupi, accusato di familismo
all’italiana. Quella è una sfortuna che capita spesso ai figli di potenti,
quasi sempre dotati di grande talento tanto da meritare posti prestigiosi,
carriere formidabili, magari in settori affini a quelli di papà o mammà.
Così viene il sospetto, malizioso e certamente infondato, che qualche
telefonatina per lanciare i rampolli, una sponsorizzazione paterna o
materna, sia prassi diffusa. Anche a sinistra, magari a partire da chi si
indigna per Lupi jr. Avere parenti potenti non serve, se si è bravi, però
aiuta. Sempre che non li intercettino.

Caso Lupi, Giampiero Mughini su Dago critica Giuliano Ferrara: “Tutti siamo
stati raccomandati, anche tu”, scrive “Libero Quotidiano”. Chi è senza
raccomandazione alzi il ditino da moralista. Giampiero Mughini interviene a
piedi uniti nel dibattito sul ministro Maurizio Lupi e la sospetta
raccomandazione che avrebbe fatto al figlio ingegnere per farlo lavorare. A
far saltare la mosca al naso di Mughini è un pezzo di Giuliano Ferrara sul
Foglio che in un passaggio scrive: “Non mi hanno ristrutturato case a buon
prezzo, assunzioni di parenti no e poi no, non li conosco. Le cricche mi
sono lontane”. Apri cielo: Mughini in una lettera a Dagospia prima
ricostruisce il suo ingresso nel mondo del lavoro, ricordando la lettera di
raccomandazione scrittagli da Gian Carlo Pajetta per lavorare a Paese Sera.
Poi passa proprio all’Elefantino, sulla cui vita ha anche scritto un libro
in passato: “Era stato Alberto Ronchey, negli anni Cinquanta moscoviti
collega di papà Maurizio Ferrara, a intercedere presso il Corriere della
Sera perché Giuliano potesse iniziarvi una sua collaborazione”. Con il
ministro di Ncd, Mughini dice di non avere legami, quindi nessuna difesa di
ufficio. Se poi venisse confermata la telefonata con la quale Lupi avrebbe
chiesto un lavoro per il figlio: “Io – scrive Mughini – altissimamente me ne
strafotto. E tutti quelli che si stanno alzando con il ditino puntato –
continua – hanno a che vedere con la faziosità politica”.

“La credibilità dello Stato oggi è ampiamente compromessa e il primo atto,
lo dico non per ragioni giudiziarie, ma per ragioni politiche, dovrebbe
essere una bonifica radicale del ministero delle Infrastrutture, e anche le
dovute dimissioni del ministro competente”. Lo ha detto il leader di Sel e
presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, parlando il 17 marzo 2015
oggi a Bari con i giornalisti in merito alla maxi operazione dei Cc del Ros
sulla gestione illecita degli appalti delle cosiddette Grandi opere. Certo
che non vi è vergogna nei nostri politici. Si parla delle dimissioni di Lupi
che non è indagato. Mentre chi le chiede, e gli esponenti del suo partito,
nel processo a Taranto “Ambiente Svenduto”, per loro la Procura ha chiesto
al giudice per l’udienza preliminare Wilma Gilli il rinvio a giudizio.
Chiesto dalla Procura il rinvio a giudizio per il presidente della Regione
Puglia, Nichi Vendola, per il sindaco di Taranto, Ezio Stefàno, per gli
attuali assessori regionali all’Ambiente, Lorenzo Nicastro, e alla Sanità,
Donato Pentassuglia, quest’ultimo all’epoca dei fatti presidente della
commissione regionale Ambiente, nonché per l’allora assessore regionale
Nicola Fratoianni, oggi deputato di Sel.

Vittorio Feltri: “Se Santoro è giornalista la colpa è mia che l’ho promosso
all’esame. Si dà infatti il caso che Santoro sia diventato giornalista
professionista con il mio contributo, giacché facevo parte della commissione
all’esame di Stato che lo promosse e gli consentì l’iscrizione all’Ordine
nazionale dei giornalisti. Era il 1982. Me lo ricordo perché erano in corso
i Mondiali di calcio in Spagna, quelli vinti dall’Italia con Sandro Pertini
in tribuna d’onore. La vita del commissario esaminatore aveva qualche
risvolto piacevole. Feci comunella con Giuseppe Pistilli, vicedirettore del
Corriere dello Sport, il quale sedeva con me nel sinedrio. La sera andavamo
a cena insieme. Il ponentino e il Frascati ci aiutavano a dimenticare le
miserie cui avevamo assistito durante la giornata nel valutare i candidati.
Ancora non avevo maturato la convinzione che l’Ordine dei giornalisti fosse
un ente inutile, anzi peggio: dannoso. Pistilli contribuì a instillarmi
qualche sospetto, illustrandomi come funzionava la commissione d’esame.
Esempio: un aspirante scriba ti era stato raccomandato o ti stava a cuore?
Bene, si trattava di farsi dare da lui le prime righe dell’articolo che
aveva steso durante la prova scritta. Nessuno comincia un pezzo nella stessa
maniera del compagno di banco, chiaro no? Perciò, non appena s’iniziava la
lettura ad alta voce e in forma anonima degli elaborati, all’udire l’attacco
familiare il commissario dava un calcetto sotto il tavolo a chi gli stava
accanto. Costui a sua volta sferrava un calcetto al commissario più vicino,
e avanti così. Con sei calcetti, il candidato era promosso. Dopodiché
ricevevi a tua volta altri colpi negli stinchi e dovevi restituire il favore
ricevuto. In questo modo passavano l’esame (e lo passano tuttora) asini
sesquipedali.”

Il tribunale del popolo guidato da Di Pietro, scrive Tiziana Maiolo su “Il
Garantista”. Maurizio Lupi non è un indagato. È un condannato dal Tribunale
del Popolo composto di giornalisti invidiosi, magistrati esibizionisti e una
folla di tricoteuses opportunamente istigata dai Paladini della Virtù che
passeggiano per i talkshow spargendo il proprio verbo, la propria
“moralità”. Il 17 marzo 2015 mattina si è svegliato presto Antonio Di
Pietro, si è collegato subito con Radio24, poi è corso in Rai per farsi
intervistare ad Agorà sgusciando poi via velocemente per planare su La7. Una
fatica per chi ha tante lezioni di moralità da elargire al ministro Maurizio
Lupi. Che non è indagato, ma condannato perché “forse” si è lasciato
regalare un vestito da un imprenditore suo amico di famiglia, il quale
avrebbe anche donato un orologio costoso a suo figlio in occasione di una
laurea particolarmente brillante al Politecnico di Milano. Tra le
imputazioni di stampo moralistico c’è anche un posto di lavoro temporaneo al
neo-ingegnere in un cantiere. Giusto quindi che intervenga subito il Pm più
famoso d’Italia. Un plauso a tutti i conduttori che hanno pensato di
invitare proprio Di Pietro a commentare i comportamenti di Lupi. È uno che
se ne intende.

Da quale pulpito vien la predica?

Si riportano vari articoli di stampa, a scanso di persecuzione personale.

L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di
Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito
capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a
prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice
Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha
raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano
bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a
tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani
pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli
orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per
un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo,
ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi
che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li
avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da
giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo
ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche
tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato
individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a
Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha
deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In
quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che
oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini
naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente
facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione
di esami di magistrati e professori napoletani.

Si riportano vari articoli di stampa, a scanso di persecuzione personale.

Corrado Carnevale: “Quell’aiutino a Di Pietro per diventare magistrato…”,
scrive “Libero Quotidiano”. Corrado Carnevale: “Al concorso in magistratura,
Di Pietro ha avuto due aiutini”. L’ex giudice Corrado Carnevale: “Era stato
in seminario ed era di famiglia povera. Fu così che chiusi un occhio”,
scrive Rachele Nenzi su “Il Giornale”.

Quell’aiutino a Di Pietro per diventare magistrato. L’ex giudice Carnevale
sull’esame di Tonino a pm: «Era povero, mi commossi. E due 5 diventarono 6»,
scrive Valeria Di Corrado su “Il Tempo”.

Dr Antonio Giangrande

Presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e di Tele Web Italia