Nel nostro paese è attuale più che mai la questione meridionale. E dentro questa esiste una gravissima questione calabrese: probabilmente l’emergenza più grande di tutte.
Le differenze in termini di ritardo di sviluppo sono state aggravate dalla crisi di questi anni e piuttosto che un’inversione di tendenza si registrano ancora oggi, quando nel resto d’Italia appaiono i primi timidi segnali di ripresa, tendenze sociali ed economiche che non lasciano presagire nulla di buono per il futuro. In questi anni di Mezzogiorno si è parlato sempre meno e sempre peggio in Italia. Dal pensiero di Giustino Fortunato a quello di Gramsci, da Salvemini a Dorso, fino alle impietose analisi fatte ai giorni nostri da Sylos Labini o da Vito Teti, il Sud è stato relegato al rango di problema irrisolvibile, di battaglia persa, ma soprattutto ammantato di inaccettabili luoghi comuni.
La questione meridionale ha finito così per essere rimossa e sostituita dalla questione criminale. La politica nazionale non ha voluto occuparsi del Sud con investimenti cospicui, capaci di creare lavoro e di rendere più competitivo il territorio e, grazie alla subalternità e incapacità della classe dirigente locale, è stato più facile appellarsi ad una lotta alla ‘ndrangheta che non sempre, ma spesso si è tradotta in un’adesione fideistica a determinate tesi e non in un’azione incisiva, politica e culturale, volta a recuperare effettivamente allo Stato una parte del Paese. Sull’altare di una giusta lotta alla criminalità si sono usati e si usano strumenti non degni di uno Stato di diritto, che raggiungono l’unico obiettivo di desertificare sempre di più il territorio e di non aggiungere nulla, anzi paradossalmente aggravare la presenza mafiosa.
Senza pretese di elaborazione intellettuale ripetiamo ancora una volta che l’antidoto alla mafia sono il lavoro, è l’imprenditoria pulita; sono la scuola e la cultura, nelle quali lo Stato deve investire di più, al Sud più che altrove; è la rinnovata capacità di sentirsi parte dello Stato, e non carne da macello per le carriere di tanti uomini dello Stato. Per questi motivi, esattamente un anno fa, insieme ad un gruppo di piccoli e coraggiosi imprenditori, abbiamo ritenuto di sposare la proposta di Piero Sansonetti di fondare un nuovo quotidiano, il primo nato in Calabria e nel Sud Italia, a diffusione nazionale.
Un giornale garantista, come recita coraggiosamente il titolo, ma soprattutto un giornale libero, capace di dare voce a chi crede ancora nello Stato di diritto e soprattutto non si rassegna a vedere morire la propria terra, dove vivono i propri figli, sotto i colpi di un giustizialismo cieco, in nome del quale si chiudono, con misure del tutto antidemocratiche e incostituzionali, imprese ed attività economiche. Su tutte, la ben nota questione delle informative interdittive, atti amministrativi che paralizzano e fanno finire nel lastrico centinaia di imprese, troppe volte colpevoli di nulla se non di appartenere a questo territorio. La sfida, animata innanzitutto da un grande senso di Giustizia sostanziale, è stata avvincente. Ci siamo tuffati a capofitto in questa avventura animati dalle migliori intenzioni, da tanto entusiasmo ma forse anche da un pizzico di incoscienza, incuranti delle preoccupazioni e dei consigli di chi, standoci accanto, ci metteva in guardia dai pericoli dell’editoria. Rischi economici, innanzitutto. Ma per chi nella vita fa l’imprenditore rientrano nell’ordine naturale delle cose. Ma anche rischi sociali, relazionali, politici.
Abbiamo investito tutte le somme che ci era possibile investire in questa avventura. Ci abbiamo messo denaro e passione, nella speranza che il prodotto potesse attecchire su un mercato complicatissimo e nella consapevolezza che non sarebbe stato facile.
Certamente avremo commesso errori, ma solo chi non opera non sbaglia.
In questi dodici mesi, per scelta dei soci, ho ricoperto il ruolo di presidente della Cooperativa di giornalisti che edita questo giornale. Sono stati mesi molto complicati: le difficoltà finanziarie del giornale, le incomprensioni con chi contribuisce a crearlo, l’incapacità di molti di comprendere che – strano, ma vero! – non lavoravano per un “padrone”, ma proprio per questo, per il successo dell’iniziativa, dovevano raddoppiare impegno ed entusiasmo, non organizzare scioperi e comunicati di protesta. È nella natura stessa di una cooperativa nella quale si partecipa agli utili ma ci si accolla anche dei rischi.
La guida della Cooperativa ora passa di mano, ma il mio non è un messaggio di commiato. Questo giornale, creatura di Piero Sansonetti, ha bisogno di essere sostenuto, nell’imperante conformismo ipocrita e giustizialista, la voce del Garantista deve contribuire, in modo sempre più incisivo, ad alimentare la speranza che la politica, la stampa e la magistratura svolgano il ruolo che spetta nei sistemi democratici e che la tripartizione dei poteri e delle funzioni di Montesquieu sia effettiva e non puramente teorica.
Il “quarto potere” dovrà continuare a vigilare sugli altri, con autorevolezza, autonomia ma anche senso di responsabilità.
Il Garantista deve vivere perché la sua sopravvivenza è un bene per il mercato editoriale, un bene per la libertà d’informazione e un bene per la nostra comunità. Gli uomini liberi che ho avuto il privilegio di conoscere, e che senza alcun compenso fanno sentire le loro voci dalle colonne del giornale, devono poter ancora a lungo esprimere il loro pensiero non conformista, ad una platea sempre più ampia di lettori.
Perché è più facile spezzare un atomo che un pregiudizio.