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Dal cavillo al cavallo

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Per la professione che esercito ho in mente il cavillo, mentre nel cuore ho il cavallo.

Tutte le religioni monoteiste lo hanno esaltato: nella Bibbia ce lo presenta Giobbe; nel Corano si dice che Dio lo creò per fare la felicità dell’uomo; i pagani magnificavano il nobile animale col carro del sole condotto da Fetonte figlio di Elio.

L’imperatore romano Caligola – per sensibilizzare i senatores a limitare la loro cupidigia e corruzione – lo nominò senatore conoscendone bene la morigeratezza: non è ingordo e al contrario del cane mangia quel tanto che gli necessita.

Oltre che nelle arti figurative, il cavallo è stato cantato da numerosi poeti.

Omero, nell’Iliade, così ce ne parla: “Quattro scelti destrier gli sferza e spinge/per pubbliche vie meravigliando/stassi la turba, ed ei sicuro e ritto/dall’un passando all’altro, il salto alterna/sui volanti cavalli”.

Virgilio conosceva bene il cavallo e il valore della carezza e perfino della parola, come si desume da quanto scrive nelle Georgiche: “Prima prova al cavallo è riguardare/l’ardore e l’armi de’ pugnaci/poi gustare la lusinghiera man sonora che percuote il collo”.

Perfino Erasmo da Rotterdam si è occupato del cavallo, nel suo “Elogio della stoltezza”, ma per compiangerlo per la sua simbiosi con l’uomo, così narrando: “Il cavallo ha i sensi affini a quelli dell’uomo col quale è passato a coabitare, partecipando pure delle calamità umane”.

Nietzsche un giorno, piangendo, abbracciò per strada un cavallo maltrattato dal cocchiere; nella sofferenza dell’animale, vedeva rispecchiate tutte le proprie angosce.

Anche il linguaggio comune è saturo di riferimenti equestri: L’occhio del padrone ingrassa il cavallo, a caval donato non si guarda in bocca, campa cavallo che l’erba cresce, cavallo di battaglia, mordere il freno, perdere le staffe, cavalcavia, cavallo dei pantaloni, cavalli di razza, cavallo motore.

Gli arabi riconoscono nel nitrito di un puledro brado, la più bella sinfonia di note naturali che Dio abbia dato all’uomo di ascoltare.

Fu chiesto a Napoleone se fosse difficile montare un cavallo, egli rispose che non doveva essere posto l’accento sulle difficoltà, ma sulla considerazione che quando si è a cavallo si è sollevati da terra!

Sollevati, aggiungeva Voltaire, quel tanto che basta per distaccarsi dalle vicende umane, con confortante distacco, godendo appieno stagliarsi la vie en rose nel verde della campagna.

I francesi recitano: “Rien est plus utile que l’alliance entre l’homme e le cheval, mais, il faut être l’homme et pas le cheval”.

Si deve obbligare il cavallo a eseguire qualunque cosa, eccetto che a guidare il cavaliere, in quanto non riuscirà mai a servirsi bene della testa del suo cavallo, colui che non riesce a servirsi della propria.

Antistene affermava: “Vedo il cavallo, non vedo la cavalinnità” negandone il concetto universale negava la categoria del cavallo; evidentemente i paraocchi, finimento sottratto al cavallo, precludevano la visione materica e poetica dell’essere “nato per far meraviglie” (Vittorio Alfieri).