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TAURIANOVA (RC), DOMENICA 01 DICEMBRE 2024

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(Di)mission impossible E non se ne vogliono andare

(Di)mission impossible E non se ne vogliono andare
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di Natalia Gelonesi

Non fatevi ingannare dal sottotitolo. Quel “E non si vogliono andare”, titolo una commedia anni 80 con le stupende Virna Lisi e Catherine Spaak, che tratta delle difficoltà dei figli a lasciare il protettivo e sicuro nido familiare, non si riferisce al governo appena formato, il quale ha un po’ il retrogusto di quei regali di cui tenti di sbarazzarti, ma che entrano nell’ingranaggio del riciclo e l’anno dopo te li ritrovi sotto l’albero come un boomerang.

No, i neoministri non sono i protagonisti di questa storia. Oggi non parliamo di Boschi & co. Oggi parliamo dei pazienti che non vogliono abbandonare il posto letto. Visto che vi piace tanto il termine “missione”, riferito al nostro operato, oggi parliamo di una missione davvero difficile, una vera mission impossible. E considerate che per svolgere questo ingrato compito non ci sarà Tom Cruise ad aiutarvi, che figuriamoci, qui mainagioia proprio. Sarete soli. Voi e il paziente. E tutti i suoi parenti.

Perché quando avete iniziato a fare questo lavoro, a muovere i primi passi nei calzari, a recitare i primi rosari durante le guardie notturne affidandovi a santi improbabili, nessuno vi ha detto che la cosa più difficile non sarebbe stata fare diagnosi, trovare la terapia adatta, defibrillare in urgenza, ventilare, prendere decisioni in tempi brevi.

Nessuno vi ha detto che la cosa più difficile sarebbe stata dire a un paziente che deve andare a casa. Quando vi tocca fare questa proposta indecente, accennata quasi sottovoce, con la stessa circospezione di un pusher in Piazza Verdi, vi trovate davanti a due, tre scenari standard. Considerando, poi, che la temuta dimissione viene annunciata con circa un giorno di anticipo, in queste 24 ore paziente e parenti hanno modo di pianificare nei dettagli la loro resistenza.

Può essere che ti rispondano con un rassegnato “Va bene, i medici siete voi, se dite che posso andare…” e poi la mattina dopo, puntualmente, non si sa come, si facciano venire una complicanza. Una febbre, una diarrea, una sincope. Una qualsiasi cosa che li autorizzi a non lasciare il letto. Addirittura ci sono quelli veggenti che tutte queste cose se le fanno venire ancor prima di sapere che devono essere dimessi, captando le vostre intenzioni. Un po’ come il gatto che, quando mi vede vicino alla scatola del Frontline, già scappa perché sa. Questi vincono proprio tutto. E poi ci sono quelli resistenti da subito. Quelli che “Come? Lo volete mandare a casa? E come va a casa? Non sta bene”.

Il “Non sta bene” viene immancabilmente seguito dalla universale argomentazione: “E’ DEBOLE”. Che ti credo. Mettimi pure a me venti giorni un letto a pastina e frutta cotta e poi altro che functional training. Grande consenso di pubblico e critica anche per il “E se poi a casa sta male?” che implica automaticamente il concetto del “semel infirmus semper infirmus” , trovando la sua unica soluzione in una ospedalizzazione sine die, a meno che non ci si attrezzi con sfere di cristallo o contatti diretti col Principale.

A proposito di Principale in formato baby, si avvicina Natale. Come per le campagne estive contro l’abbandono degli animali in autostrada, bisognerebbe farne una contro l’abbandono degli anziani in ospedale. Succede anche questo. Non poter dimettere un paziente perché i parenti obiettano che non hanno trovato una struttura adeguata dove sistemarlo e che a casa non sono in grado di gestirlo. E ancora una volta a noi tocca l’eterno conflitto tra le risposte ai DRG e la pietà umana. Un’interessante variante sul tema “dimissione” è il trasferimento dei pazienti dalla terapia intensiva alla degenza ordinaria. Altra impresa difficilissima.

“Perchè mi dovete spostare? Io resto qui. Questo è il mio posto” ti senti rispondere. Questo è il mio posto. Come se l’avesse prenotato con Trivago e noi volessimo cacciarlo via, non perchè sta meglio, ma perchè siamo in overbooking.

Torno di nuovo seria (non troppo però). Qui facciamo ironia e cerchiamo di alleggerire problematiche quotidiane che ci rendono, ogni giorno, la vita un po’ più difficile, ma sappiamo bene che, aldilà di una scarsa attitudine al caregiving riscontrata in alcuni ambienti domestici, la criticità fondamentale ha le sue radici in una grave carenza di continuità e supporto sul territorio. Un black hole assistenziale. Alcuni pazienti non solo dovrebbero essere dimessi in tempi brevi, ma non dovrebbero neanche essere ospedalizzati e non tanto per la tirata di orecchie di fine anno sui ricoveri impropri, ma soprattutto perché l’allettamento e la possibilità di contrarre infezioni nosocomiali non rendono un grande servizio a questi anziani fragili.

Invece l’ospedale, e alcuni reparti in particolare, rappresentano sempre più un rifugium peccatorum per pazienti che non riescono ad essere gestiti a domicilio, vuoi per le difficoltà dei familiari, oggettive e soggettive, vuoi per mancanza di strutture idonee e assistenza domiciliare adeguata, cosicché il posto letto diventa un prolungamento naturale di quello di casa propria. Finché dura questo sistema (che prima o poi imploderà), le strutture ospedaliere saranno sempre, incondizionatamente e giustamente, al servizio dell’utenza ma di sto passo mi aspetto di vedere booking.com che assegna i codici al triage e TripAdvisor che sostituisce il Tribunale del Malato.