Dimissioni Traversa, ritiro e impugnazione
redazione | Il 24, Dic 2011
Le tesi giuridico-costituzionale di Luigi Ciambrone (Fli)
Dimissioni Traversa, ritiro e impugnazione
Le tesi giuridico-costituzionale di Luigi Ciambrone (Fli)
Riceviamo e pubblichiamo:
Dopo il provvedimento della Giunta delle elezioni del Senato che ha disapplicato, di fatto, la Sentenza della Consulta del 21 ottobre 2011 la n. 277 con la “motivazione”, sostanzialmente, del passaggio in giudicato della decisione sulla incompatibilità dei senatori in esame si è aperto un potenziale “braccio di ferro” fra l’Organo del Senato e la Corte Costituzionale. In questi giorni tutti, in città, stanno ragionando sugli effetti che tale decisione potrebbe avere sulle dimissioni-decadenza del Sindaco Michele TRAVERSA e su un suo, possibile, “ripensamento”. Tralasciando l’aspetto politico (un ripensamento potrebbe rappresentare, per i cittadini del capoluogo di regione, un rimedio peggiore del male che si vuole curare) intendo affrontare l’aspetto squisitamente giuridico-costituzionale ed indicare una “terza via” al problema creatosi e che tiene tutti col fiato sospeso. La materia ha un intreccio di radici che non è facile da districare e , soprattutto, difficile è renderla “masticabile” ad un pubblico non avvezzo al diritto costituzionale e ai suoi “meandri giuridici”. Cercherò di farlo con osservazioni a “cuore caldo” e scusandomi sin da ora, con i cittadini, se non vi riuscirò dato il tecnicismo della materia con abrogazione di norme (ex art. 37 bis legge 241/90) che vanno lette nella loro unitarietà con quelle vigenti (art. 53 D.Lgs. 267/2000) per comprendere realmente la volontà del legislatore (scioglimento formale ovvero sostanziale del Consiglio Comunale) e gli insiti limiti di dover ragionare su elementi in continuo movimento e, soprattutto, magmatici! L’ipotesi che lancio è la seguente: TRAVERSA RITIRA LE DIMISSIONI ED IMPUGNA IL PROVVEDIMENTO DELLA GIUNTA DELLE ELEZIONI DELLA CAMERA CHE LO DICHIARA DECADUTO INNANZI AL T.A.R. LAZIO! Una domanda sorge spontanea: questa ipotesi può rappresentare una strada giuridica, seppur innovativa, percorribile? Procediamo con ordine. Com’è noto i provvedimenti della Giunta delle elezioni del Senato sono intesi come provvedimenti giurisdizionali non sindacabili da altri Organi e, quindi, esecutivi. Comunque dispone l’art. 37 della legge n. 87 del 1953 che «il conflitto tra poteri dello Stato è risoluto dalla Corte costituzionale se insorge tra organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartengono e per la delimitazione della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali». Per quanto riguarda i profili soggettivi, si deve chiarire la nozione di potere dello Stato. Posto il carattere policentrico del nostro ordinamento costituzionale, e quindi la non corrispondenza tra funzione e potere, e considerando inoltre la differenza che si pone tra attribuzione (che si fonda su disposizioni costituzionali) e competenza (che, essendo la misura dell’attribuzione, trova la sua fonte in disposizioni legislative), si riduce l’importanza dell’organo-soggetto per aumentare quella dell’oggetto, ponendosi l’attenzione della Corte, più che sulle attribuzioni, sulla natura costituzionale degli interessi. La giurisprudenza della Corte costituzionale, comunque, per riconoscere un potere dello Stato, richiede che esso sia almeno menzionato dalla Costituzione; che gli competa una sfera di attribuzioni costituzionali; che ponga in essere atti in posizione di autonomia e indipendenza; che questi atti siano imputabili allo Stato. Per ciò che, invece, concerne i profili oggettivi, c’è da sottolineare come qualsiasi atto sia idoneo ad essere impugnato in sede di conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, e che il parametro può essere individuato in qualsiasi norma costituzionale (o anche in norme subcostituzionali concernenti la competenza). Il Presidente della Giunta del Senato, durante i lavori, aveva evidenziato che la sentenza n. 277 della Corte Costituzionale ha “delineato un perimetro all’interno del quale deve muoversi la Giunta del Senato e alla quale ha già dato seguito la Giunta della Camera dei deputati, accertando quasi all’unanimità l’incompatibilità fra le due cariche anzidette”. Ed ancora, aveva avvertito i membri della Giunta, che “una eventuale votazione che si ponesse in contrasto con questo percorso creerebbe una contraddizione fra le posizioni delle due Camere, colpirebbe la sensibilità dell’opinione pubblica, già acuta sul punto, e aprirebbe una ferita istituzionale fra i diversi schieramenti presenti in Giunta”. Nonostante le giuste esortazioni i vecchi saggi (?) del Senato hanno dato, con la loro decisione, un pessimo esempio. Di senso dello Stato, di rispetto delle Istituzioni, di responsabilità politica. Niente di nuovo, dunque. Se non fosse per l’odiosa riprovevolezza della quaestio iuris. Si tratta forse di un esperimento costituzionale di Bicameralismo imperfetto. La dottrina a ritenere che, a fronte della delibera consiliare di insindacabilità, la facoltà del Presidente della Giunta di proporre ricorso diventi un obbligo. D’altro canto, la parte resistente non potrà che essere il Presidente del Consiglio dei ministri, che dovrà (dovrebbe) rappresentare le ragioni dell’autorità procedente. Per quanto, infatti, gli interventi dell’organo di giustizia costituzionale sui prodotti della funzione legislativa possano e anzi debbano essere orientati dal principio di leale cooperazione con gli organi di produzione normativa, non si può trascurare il fatto che la Corte è chiamata comunque ad esercitare nei confronti del legislatore un ruolo di controllore. In tale prospettiva, è lo stesso principio di separazione dei poteri dello Stato ad imporre di prendere sul serio il vincolo del giudicato costituzionale. Si tratta di un giudizio in via principale, proposto con ricorso dal Presidente del Consiglio dei Ministri. In ultima analisi, il ricorrente dovrebbe censurare la violazione dell’art. 136, comma 1, Cost.: ciò, in quanto la decisione impugnata avrebbe fatto rivivere una disposizione già dichiarata incostituzionale; la soluzione adottata dalla Giunta del Senato (il c.d. “giudicato interno”) sarebbe, infatti, una «soluzione formale», trattandosi di decisione tendente a far sopravvivere le norme già dichiarate incostituzionali dalla Corte. Il giudice delle leggi, nel caso in esame, ricostruendo brevemente la giurisprudenza costituzionale in tema di giudicato, afferma che «perché vi sia violazione del giudicato costituzionale, è necessario che una norma ripristini o preservi l’efficacia di una norma già dichiarata incostituzionale». In particolare, nel chiarire la portata del primo comma dell’art. 136 Cost., la Corte ricorda come essa abbia più volte precisato che il rigore del citato precetto impone al legislatore di «accettare la immediata cessazione dell’efficacia giuridica della norma illegittima, anziché prolungarne la vita sino all’entrata in vigore di una nuova disciplina del settore». Perciò, «le decisioni di accoglimento hanno per destinatario il legislatore stesso, al quale è quindi precluso non solo il disporre che la norma dichiarata incostituzionale conservi la propria efficacia, bensì il perseguire e raggiungere, “anche se indirettamente”, esiti corrispondenti a quelli ritenuti lesivi dalla Costituzione». La violazione dell’art. 136 Cost., si verifica, infine, «non solo qualora il legislatore disponga che una norma dichiarata incostituzionale conservi la sua efficacia, ma anche quando una legge persegua e raggiunga “lo stesso risultato”». Il paradosso si può sintetizzare nei seguenti termini: la violazione del giudicato è un vizio la cui verifica non può che precedere logicamente quella di tutte le altre trasgressioni lamentate, attenendo – come ricorda la stessa Corte in diverse pronuncie – alla possibilità di esercizio, nel caso di specie, del potere legislativo; la verifica di tale vizio non richiede, tuttavia, soltanto il preliminare riscontro dell’identità della norma impugnata con quella già precedentemente dichiarata illegittima dalla Corte, ma anche l’accertamento della perdurante incostituzionalità della stessa. Dando qui per scontata la possibilità di discorrere di un «giudicato costituzionale», considerato che lo stesso giudice delle leggi, anche nella diverse sentenze emesse, ne afferma l’esistenza, la ricostruzione dell’oggetto del giudicato è questione per nulla semplice, che si intreccia con (e finisce con il sovrapporsi a) quella – non meno complessa – della definizione dell’oggetto del giudizio di costituzionalità. Ora, comprendendo che il cittadino si sia potuto già perdere nei “meandri” appena delineati ma necessari, cerchiamo di “scendere sul pianeta Terra” e domandarci: “ma allora TRAVERSA che potrebbe fare?”. Potrebbe, il condizionale è di obbligo, ritirare le dimissioni e attendere il provvedimento di decadenza per poi impugnarlo innanzi il TAR Lazio (il provvedimento della Giunta delle elezioni è sempre un provvedimento “amministrativo”) eccependo la violazione del “giudicato costituzionale” in relazione all’art. 3 della Costituzione per disparità di “trattamento” fra deputati e senatori. Tale tesi potrebbe sostenerla, anche, in caso di ricorso di un cittadino elettore che voglia far dichiarare la incompatibilità e la consequenziale decadenza dall’incarico. Porre, quindi, una questione di non manifesta infondatezza di illegittimità costituzionale delle norme in esame e chiedere la trasmissione degli atti alla Consulta. Se l’organo giudiziario adito dovesse riscontrare la “frattura istituzionale” e la violazione del giudicato costituzionale, con trasmsssione degli atti alla Corte, ci troveremmo difronte all’ipotesi giuridica di “sospensione del giudizio in corso”. Cosa significa in concreto? Che ogni giudizio sulla decadenza-dimissione rimarrebbe sospeso sino alla decisione della Corte Costituzionale e, quindi, TRAVERSA come tutti gli altri Sindaci interessati potrebbero continuare a svolgere la loro funzione istituzionale ed amministrativa (ragionevolmente un giudizio del genere richiede anche due anni, salvo corsie accelerate). Al riguardo, basti pensare al contributo della giurisprudenza costituzionale, orientata a preservarne gli elementi costitutivi secondo principi di eguaglianza e parità di accesso alle cariche nei tratti costituzionali della democrazia pluralistica – a partire dalla regola generale dell’eleggibilità, affermata sin dalla sent. n. 46/1969 – rispetto ai quali gli elementi di razionalizzazione e di equilibrio della forma di governo, di cui gli istituti in commento costituiscono comunque parte integrante, appaiono sostanzialmente secondari. In altre parole, nella complessa e articolata trama del pluralismo costituzionale sono i partiti e i corpi intermedi ad assicurare quella necessaria mediazione tra il corpo elettorale e le istituzioni rappresentative, anche sotto il profilo dei meccanismi di selezione delle candidature e di accesso alle cariche elettive, che vengono quindi prevalentemente orientati dalla giurisprudenza costituzionale, di legittimità e di merito nel senso del favor electionis e di una conseguente interpretazione restrittiva delle cause di ineleggibilità e di incompatibilità. Da quest’ultimo punto di vista, al fine di delineare un più chiaro discrimine tra i diversi istituti, appare preferibile adottare una ricostruzione “in chiave teleologica”, in base alla quale l’ineleggibilità è volta a tutelare il diritto di voto (art. 48 Cost.) e l’eguaglianza effettiva tra i competitori (art. 51 Cost.); mentre l’incompatibilità mira piuttosto ad assicurare il libero esercizio del mandato parlamentare (art. 67 Cost.), dei mandati regionali e locali (artt. 121 e 122 Cost.) e l’imparzialità e il buon andamento dell’amministrazione (art. 97 Cost.). I rinnovati casi di ineleggibilità sopravvenuta della XVI legislatura sono lì a dimostrare la necessità di affidare ad un soggetto “terzo”, quale il Giudice costituzionale, valutazioni di tipo oggettivo sulla verifica dei titoli degli eletti e delle sopraggiunte cause di ineleggibilità e di incompatibilità. Un giudice che potrebbe essere coinvolto anche in seconda battuta – con funzione, tra l’altro, di deterrente – se invece fosse privilegiata una prospettiva di rilegittimazione del ruolo degli stessi organi politici nel contenzioso elettorale. In altre parole la Giunta delle elezioni (Camera e Senato) hanno deciso in “prima battuta ovvero primo grado” alla Corte Costituzionale il ruolo di Giudice di “seconda battutta ovvero di secondo grado”. Le eventuali “fratture istituzionali” potrebbero, così, essere ricomposte con rispetto del principio del “giudicato costituzionale”. Ma questa è un altra battaglia giuridico-costituzionale che ogni buona deputazione parlamentare dovrebbe porsi ed affrontare. Solo così si può veleggiare verso una Politica 3.0!
Luigi CIAMBRONE già Candidato Sindaco per Catanzaro (FLI CALABRIA)
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