Don Pino Strangio racconta la vita a San Luca Riflessioni sulla quotidianità che si vive in paese
di Giuseppe Campisi
San Luca (RC) – Nello sguardo di don Pino Strangio titolare della parrocchia S. Maria della Pietà a San Luca e rettore del santuario mariano di Polsi non c’è posto per la rassegnazione. Semmai un rigurgito di rivalsa verso coloro «e sono stati tanti» racconta, che hanno sedotto e abbandonato al proprio destino il paese e la locride. L’incontro con don Strangio è casuale e provvidenziale al tempo stesso. Avviene al termine di una celebrazione domenicale vespertina nella canonica della parrocchia e l’occasione è delle migliori per fare con serenità due chiacchiere sullo stato delle cose. Lui non si tira indietro ed il colloquio è di quelli brevi ma intensi, uno scambio di battute e di punti di vista sagace ed a tratti centellinato. Quanto sia difficile essere un parroco di frontiera a San Luca piuttosto che altrove lo sa solo chi, come lui, si immerge quotidianamente nella realtà che vive e conosce perché vi è nato e riesce a distinguere volti e destini sin dall’odore. Non si scompone: «Qui o altrove credo non avrebbe fatto tanta differenza per chi ha scelto di seguire Cristo e la chiesa. Certo è vero che qui non è facile ma molto spesso una realtà è anche come la si racconta e la si dipinge. O, per comodità, la si vuole dipingere». Una sferzata dal sapore amaro ai tanti che nel corso degli anni hanno marciato comodamente sulle
difficoltà di una comunità cui una parte ha certamente colpe sociali gravissime e di cui don Strangio non vuole affatto far finta di nulla: «Qui la ndrangheta ha fatto tanto male – ripete – ed è inutile nasconderlo. Echi che ancora oggi faticano a spegnersi. Ma non è giusto gettare la croce addosso anche a chi colpe non ne ha». Insomma come a dire che San Luca non è da ricordare solo come il paese delle faide perché il sentimento del riscatto, il prezzo dell’affrancamento dalla criminalità organizzata è il senso su cui la sua comunità sta puntando per risollevare le sorti mediatiche della città che fu (anche e soprattutto) del grande Corrado Alvaro: «Spesso non si dice che qui la maggior parte dei giovani ha scommesso sul proprio futuro studiando – ribadisce, mentre sottolinea la volontà di volersi scrollare da dosso lo stereotipo stretto della grettezza montanara affibbiato gratuitamente
ai sanluchesi – per giocarsi il futuro alla pari con gli altri. E non si dice abbastanza che di tutte le persone capaci, oneste e meritevoli di San Luca non ce n’è uno negli alti gradi delle istituzioni. Perché?». Un interrogativo complicato, rimasto enigmaticamente irrisolto e su cui serpeggia una certa idea legata ad un malcelato preconcetto. « Lo stesso – chiarisce – che ha fatto da trampolino di lancio a tanti pezzi importanti delle istituzioni che anche grazie a San Luca hanno fatto poi carriera e migliore fortuna altrove servendosi
delle disgrazie di tanta gente non sapendo distinguere tra colpevoli ed innocenti». Racconta di conservare ancora il faldone con le oltre trecento promesse di svolta per San Luca, ovviamente rimaste strilli da comizio su cui però si sono costruiti i sogni dei cittadini e le carriere dei politici e di come invece la lotta al pregiudizio sia diventata quasi la priorità per ogni cittadino che la svolta l’attende davvero dallo Stato qui considerato (forse non a torto) il grande assente. « E’ abbastanza chiaro – chiosa – sul fatto che qui lo Stato, in passato, troppe volte si sia girato comodamente dall’altra parte. E che il senso dell’abbandono si sia presto impadronito dei luoghi e delle persone. Però è pur vero che ciascuno è chiamato a scansare il vittimismo e a fare la propria parte. Ed io con i miei giovani cerco di fare la mia». Ricorda una richiesta al vescovo di trasferimento legata alla volontà di fare nuove esperienze ma anche l’obbedienza nel restare per mancanza di sostituti. E non dimentica la chiamata a raccolta degli uomini di San Luca, nel 2009, dopo la sollecitazione al pentimento ed alla preghiera dell’allora vescovo Fiorini Morosini a seguito dei terribili fatti di Duisburg del 2007 figlia di una necessaria esigenza di riconciliazione nel controverso rapporto tra la chiesa ed “una certa mentalità atavica, figlia di credenze popolari fino che è stato difficile sconfiggere sino a oggi” citiamo riportando il virgolettato storico del suo pensiero riportato in un articolo che il Corriere della Sera si affrettò a titolare ” Il paese della faida fa pace in chiesa”, come non smette di ricordarci come il paese si stia lentamente ripopolando con ritorni e matrimoni ed addirittura la ristrutturazione di case per troppo tempo rimaste vuote od in disuso segno di una nuova
volontà di recuperare il tempo perso. Ed alla domanda sul ruolo della chiesa in questo contesto, se anch’essa poteva o può dirsi esente da colpe od immune da mancanze la risposta ricevuta è arrivata con una punta di velato pudore ma neanche troppo scontata: «Certo, non c’è dubbio».