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TAURIANOVA (RC), LUNEDì 25 NOVEMBRE 2024

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“L’Italia necessita di una riforma della giustizia civile e penale” Resoconto dell’Avv. Antonino Napoli sulla partecipazione al convegno “La legge (non) è uguale per tutti. Nei casi di errori giudiziari chi paga i danni?”

“L’Italia necessita di una riforma della giustizia civile e penale” Resoconto dell’Avv. Antonino Napoli sulla partecipazione al convegno “La legge (non) è uguale per tutti. Nei casi di errori giudiziari chi paga i danni?”
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Intervento dell’Avv. Antonino Napoli al convegno “La legge (non) è uguale per tutti. Nei casi di errori giudiziari chi paga i danni?”, organizzato dalla Camera Penale di Palmi, Approdo News e Telemia, tenutosi a Taurianova (RC), presso l’Auditorium dell’Istituto “Gemelli Careri” il 29 novembre 2014.

Il mio intervento, nel rispetto dei tempi assegnatimi, ha trattato – in ordine – i due distinti argomenti del convegno: 1) La giustizia (non) è uguale per tutti; 2) Nei casi di errore giudiziale chi paga i danni?

Proprio il tema del convegno ed i sempre più frequenti errori giudiziari impongono una riflessione sulla necessità di una riforma sistematica della giustizia civile e penale in Italia.
Nel campo civilistico, ad esempio, il continuo aumento del contributo unificato scoraggia i meno abbienti ad accedere alla giustizia civile poiché il nostro legislatore, piuttosto che elaborare una riforma seria della giustizia che riduca i tempi per ottenere la tutela dei diritti ampliando l’organico del personale giudicante e di cancelleria, cerca di ridurre il contenzioso civile inibendo ai cittadini il diritto ad agire in giudizio rendendo antieconomico il processo civile.
Insegnava Don Milani ai suoi ragazzi di Barbiana: “Non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo di amare la legge è obbedirla. Posso solo dire di osservarle quando sono giuste. Quando invece vedranno che non sono giuste essi dovranno battersi perché siano cambiate”
Proprio questa è funzione primaria dell’avvocatura: ovvero quella di garantire l’effettività della tutela dei diritti del cittadino e dare impulso alla richiesta di intervento per eliminare ogni compressione dei diritti fondamentali del cittadino in materia di giustizia.
Riguardo al processo penale, che è quello a cui dedicherò più spazio in questa mia relazione, in questi ultimi anni si è – da più parti – sollecitata la sua riforma accendendo un vivace dibattito tra garantisti e giustizialisti e tra i sostenitori della funzione rieducativa della pena e quelli che sostengono la funzione retributiva della pena.
I sostenitori delle tesi giustizialiste, del facile tintinnio delle manette, dimenticano che la sicurezza e la libertà dei cittadini non sono minacciate soltanto dai delitti, ma anche, e spesso in misura assai maggiore, dalle pene eccessive e dispotiche, dagli arresti e dai processi somari, dalla pubblicazione di intercettazioni telefoniche private che nulla hanno a che fare con l’imputazione, dai controlli arbitrari e pervasivi di polizia.
Bisogna prendere coscienza dei tanti, troppi, errori giudiziari che investono la giustizia penale, e dell’urgente problema delle misure cautelari, usate in maniera arbitraria come mezzo di ricerca della prova e come anticipazione della condanna, che crea ingiustizie ed errori e genera il sovraffollamento delle carceri (contestato al nostro Stato dalla CEDU con l’ormai nota sentenza Torreggiani).
Nei processi del doppio binario, quelli in cui vengono contestati reati di mafia, tra l’emissione dell’ordinanza di custodia cautelare e l’eventuale giudizio in cassazione passa più di un anno poiché i Tribunali della Libertà tardano a depositare le motivazioni delle ordinanze di rigetto determinando un eccessivo prolungamento dei termini di definizione del giudizio incidentale e di conseguenza del periodo di custodia cautelare eseguita spesso in carcere.
L’idea che attraverso il processo penale si possa raggiungere una verità assolutamente certa rappresenta un’illusione epistemologica poiché la verità processuale a volte non coincide con quella storica.
Proprio per questa ragione Luigi Ferrajoli, uno dei maggiori filosofi del diritto viventi ed allievo di Noberto Bobbio, ex magistrato, ha condivisibilmente sostenuto che compito del Giudice è quello di garantire la Certezza del Diritto Penale Minimo (che teorizza il principio secondo cui nessun innocente dev’essere condannato) che si contrappone alla certezza del Diritto Penale Massimo (che teorizza, invece, il principio secondo cui nessun colpevole debba restare impunito anche a costo di incorrere in qualche errore giudiziario).
Il potere giudiziario, secondo Montesquieu, è un potere terribile perché, più d’ogni altro pubblico potere, è direttamente un potere dell’uomo sull’uomo.
Questo potere a volte, a causa della latitanza della politica, supplisce a quello politico, e fa venir meno il principio dell’equilibrio tra poteri con una conseguente dittatura giudiziaria.
La verità nel processo si raggiunge attraverso la prova che viene valutata dal Giudice il quale deve riconoscere alle parti le seguenti garanzie processuali:
1) Necessità della prova che dev’essere preventivamente acquisita dall’accusa, rappresentata dal Pubblico Ministero, messa a disposizione delle parti ed introdotta nel processo nel rispetto delle regole contenute nel codice di rito;
2) Contraddittorio, ossia la possibilità della smentita da parte della difesa;
3) L’imparzialità del giudice che dovrà decidere la causa.
Da qui nasce il valore e l’importanza della separazione secondo uno schema triangolare, tra accusa, difesa e giudice (la cd. separazione delle carriere): se l’accusa ha l’onere di scoprire ipotesi e prove e la difesa ha il diritto di contraddire con contro-ipotesi e controprove, il giudice – i cui abiti professionali sono l’imparzialità ed il dubbio – ha il compito di saggiare tutte le ipotesi accettando quella accusatoria solo se provata e non accettandola, in base al criterio del favor rei, non solo se esse è smentita ma anche se non è provata.
Il libero convincimento del giudice trova i suoi limiti nell’obbligo di motivazione e nel principio di legalità.
La Legge n. 46/2006 (c.d. legge Pecorella) ha introdotto il principio secondo cui la responsabilità penale dell’imputato dev’essere provata “al di là di ogni ragionevole dubbio”.
Sul punto la VI sezione penale della Cassazione ha affermato che “la condanna presuppone la certezza della colpevolezza, mentre l’assoluzione non presuppone la certezza dell’innocenza, ma la mera non certezza della colpevolezza (Cassazione Penale, Sez.VI, sentenza del 13.01.2012, n. 913)”.
Gli errori giudiziari, tra cui rientrano anche l’assoluzione dopo che l’incolpevole imputato ha subito una carcerazione preventiva o l’annullamento di un’ordinanza di custodia cautelare, non possono essere risarciti solo con l’attuale istituito dell’ingiusta detenzione ove il limite massimo dell’indennizzo, che non è il risarcimento per equivalente del danno subito con la carcerazione, non può superare i 516.456,90 e con una riduzione sempre maggiore dei casi di accoglimento poiché esso viene escluso qualora il richiedente abbia concorso con dolo o colpa grave alla custodia cautelare.
Venendo alla giustizia penale esecutiva, essa, come la giustizia penale processuale, dovrebbe basarsi sull’equilibrio tra garanzia dei diritti delle persone coinvolte e certezza dell’esecuzione e dovrebbe tendere alla rieducazione del condannato che, come prescritto dall’art. 27 della Costituzione, dev’essere, una volta scarcerato, aiutato a reinserirsi nella società attraverso il lavoro e la redenzione.

Il secondo argomento riguarda la proposta di riforma, di cui il sen. Buemi è relatore al Senato, della legge n. 117 del 1988 («Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati») che regola la materia della responsabilità civile dei magistrati.
Questa legge ha recepito solo in parte l’intento dei promotori del referendum abrogativo.
Essa prevede una responsabilità diretta dello Stato e soltanto indiretta del magistrato, cosicché il danneggiato può agire esclusivamente verso il primo, al quale è poi attribuita una limitata azione di rivalsa nei confronti del secondo.
I casi nei quali è possibile far valere il proprio diritto al risarcimento del danno direttamente contro il magistrato, oltre che contro lo Stato, sono limitati alle ipotesi, residuali, in cui il danno sia conseguenza di un fatto costituente reato commesso nell’esercizio delle funzioni.
La legge 117/98 prevede che “chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale”.
Non può, tuttavia, dare luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove.
Tale previsione ha comportato notevoli difficoltà nell’individuazione del confine tra detta attività interpretativa, non sanzionabile, e le ipotesi suscettibili di responsabilità per colpa grave.
Per tale ragione è importante, in prospettiva di una riforma, stabilire quali siano i limiti di discrezionalità del giudice nell’interpretazione della legge e delle prove.
L’azione risarcitoria si propone nei confronti del Presidente del Consiglio dei Ministri, entro due anni dal momento in cui l’azione è esperibile. Essa può essere proposta solo a condizione che siano stati già esperiti i mezzi ordinari di impugnazione o gli altri rimedi previsti, onde evitare che l’azione risarcitoria diventi un’alternativa ai normali rimedi processuali.
Una volta proposta, l’azione è soggetta ad un “filtro”, rappresentato dal vaglio di ammissibilità svolto dal tribunale.
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con la sentenza Traghetti del Mediterraneo del 2006, ha stabilito che “il diritto comunitario osta ad una legislazione nazionale che escluda, in maniera generale, la responsabilità dello Stato per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto comunitario imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado per il motivo che la violazione controversa risulta da un’interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da tale organo giurisdizionale” ed ancora, che “il diritto comunitario osta altresì ad una legislazione nazionale che limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, ove una tale limitazione conducesse ad escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato membro interessato in altri casi in cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto vigente”.
Il sottoscritto condivide l’ipotesi di una responsabilità diretta del magistrato nei casi di dolo e colpa grave mentre la responsabilità indiretta dovrebbe sussistere solo per i casi di semplice colpa.
Occorre, altresì, eliminare la “clausola di salvaguardia”, abolire il “filtro preliminare” del tribunale ed ampliare le ipotesi di colpa grave indicate nella legge al fine di evitare la eccessiva genericità ed indeterminatezza dei concetti di “negligenza inescusabile” nella violazione di legge e nella valutazione delle prove.
Non si condividono le osservazioni del Consiglio Superiore della Magistratura che, al fine di garantire una sorta di impunità anche per quei magistrati i cui errori sono caratterizzati da dolo o colpa grave, ha evidenziato che ciò avrebbe “un effetto distorsivo sull’operato dei magistrati, i quali potrebbero essere indotti, al fine di sottrarsi alla minaccia della responsabilità, ad adottare, tra più decisioni possibili, quella che consente di ridurre o eliminare il rischio di incorrere in responsabilità, piuttosto che quella maggiormente conforme a giustizia” poichè, “a differenza di altre attività professionali, quale ad esempio quella del medico o dell’ingegnere, l’attività del magistrato è caratterizzata dal fatto che egli causa comunque un danno ogniqualvolta prende una decisione. […] Il giudice, allora, potrebbe essere indotto, dal timore della responsabilità, a prendere la decisione che causa un danno alla parte che è nella condizione meno favorevole ad agire in giudizio per il risarcimento dei danni ovvero ad assumere una decisione che sia formalmente coerente con i precedenti orientamenti giurisprudenziali – dunque idonea a porlo al riparo da eventuali azioni risarcitone – ma sostanzialmente non risponda alla domanda di giustizia della concreta vicenda esaminata”.
Orbene, nel caso di dolo o colpa grave non si fa riferimento ad un danno generico causato dal magistrato ma ad un danno ingiusto determinato da dolo o colpa grave nell’interpretazione della legge, e quindi nell’applicazione di essa, e nella valutazione delle prove emerse nel giudizio.
Ricordiamo che il dolo è definito nell’ordinamento penale italiano dall’art. 43 del codice penale secondo il quale: “Il delitto è doloso o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione” mentre la colpa grave consiste in una profonda imprudenza, estrema superficialità o inescusabili negligenza e disattenzione.
Orbene, ad avviso del sottoscritto dovrebbe essere fonte di responsabilità diretta solo il comportamento inescusabile che si manifesta quando un magistrato commette un errore nell’interpretazione di una norma, nonostante l’obbiettiva certezza interpretativa della stessa, ovvero quando la scelta sia stata fatta in base ad opinioni soggettive, senza tener conto di pronunce giudiziali consolidate e non contestate.
Il limite della colpa grave garantirebbe comunque al magistrato, stante la singolarità della funzione giurisdizionale e la necessità di tutelare la sua indipendenza, un ampio margine di libertà nell’interpretazione ed applicazione della legge.