Elogio delle pedicure. Antropologia dei piedi Riflessione di don Leonardo Manuli
Può sorprendere una riflessione incentrata sui piedi, e “probabilmente fatta con i piedi”, il partire dal basso, quale metafora umana, esistenziale e spirituale del progresso dell’uomo e della donna, che sin dalla loro comparsa sulla faccia della terra, sono stati dei camminatori, hanno viaggiato, hanno esplorato e abitato in luoghi diversi. È attualissima tale problematica, al punto che il fenomeno delle “migrazioni”, – che è sempre esistito -, e se così non fosse, essi non sarebbero maturati, non avrebbero sviluppato qualità e conoscenze essenziali per la loro vita stessa. Non è “umano e degno di una civiltà” quello che sta accadendo in Italia: la paura del diverso, dello straniero, dell’incontro, “l’altro è come se fosse un inferno, un limite per me” afferma il filosofo J. P. Sartre, fino ad ergere muri, ad incitare alla violenza, una non accettazione dell’altro che è non solo ideologica, ed è un rifiuto della nostra stessa umanità.
I piedi servono per camminare, per viaggiare, per incontrarsi, contro la sedentarietà, a favore del rischio, contro l’immobilismo, mentale e culturale. Noi siamo degli “incontrati” e non ce ne accorgiamo! È difficile parlare di “cammino”, di “viaggio”, se non si conosce la “cultura dell’incontro”, che è “cultura dell’altro, della “prossimità”, della “prosocialità”. A proposito della Calabria, parlando del nostro contesto locale, essa sta subendo un tremendo spopolamento, non solo i giovani vanno via, – per chi ha l’opportunità -, anche gli adulti, quelli che possono permetterselo, lasciano i loro territori. Se da un lato è motivo di preoccupazione, dall’altro è da ammirare quando sono in controtendenza con il clichè del calabrese statico, immobile, chiuso, che non ama rischiare. Non ritorneranno più, e anche se dovessero, quale risorsa sarebbero per una terra che non vuole cambiare? Alcuni borghi e paesi collinari, sono quasi abbandonati, e molte delle case rimaste sono abitate da stranieri, anzi, molti servizi sono svolti da essi. Sono loro il futuro della Calabria! Qualcuno ha pensato di risolvere questo “spopolamento” inventandosi una integrazione interculturale, quasi da divenire un modello, un progetto che è stato osteggiato politicamente, il caso Riace in Calabria è emblematico. La Calabria è stata terra di accoglienza e di ospitalità, anche se fa da contrasto con la diffidenza, con il pregiudizio, anche verso lo stesso conterraneo, dimostrato dai vari campanilismi.
Questo tempo di transizione epocale che stiamo attraversando, potrebbe definirsi come un ritorno all’inciviltà, dei “non incontrati”, e quando non si riconosce l’altro, “un volto che mi appartiene”, diceva Emmanuel Lévinas, non si accetta nemmeno se stessi, sia esso uno straniero, un anziano, un indifeso. Si ha paura ad accogliere, a camminare verso l’altro, non solo di andare in altri luoghi, ma di avvicinarsi al prossimo, fino a pestargli i piedi, mentre, paradosso, si è disposti a servire determinati padroni che esercitano un potere di manipolazione e di sudditanza, perpetuando la dimensione “padronale” calabrese, con le conseguenze della mentalità ‘ndranghetista che noi conosciamo e invece rimuoviamo. C’è da domandarsi quale contributo e quale svolta abbia dato la “cultura cristiana” all’incontro, all’accoglienza dell’altro, alla prossimità, che nel vangelo Gesù Cristo ne ha fatto l’unico comandamento: “fai agli altri ciò che vuoi sia fatto a te stesso” (Cf. Mt 7,12).
In una cultura fluida, individualista e autoreferenziale, dove il cristianesimo non è più cemento nelle relazioni, negli incontri, ha perso la carica liberante, dove sovente sembra avallare l’immobilismo, senza idealità e senza rischi, una lettera antica cristiana (Cf. Lettera a Diogneto), affermava che i cristiani sono paroikoi, cioè forestieri, pellegrini, – è quello che si ripete e si rinnova in ogni celebrazione eucaristica -, e ci si dimentica che si è popolo in cammino, verso una meta, assetati dell’incontro. Tout court, è preoccupante l’immobilismo, psicologico, culturale, anche verso quelli che stanno sullo stesso pianerottolo, quelli della “stessa casa”, nel quale non si riconosce più la dignità umana posseduta da noi stessi, dove nonostante tutto, permane il desiderio e la “ricerca del senso dell’incontro”. Io proporrei una “scuola di pedicure”, contro i deserti della solitudine, di “baciare i piedi”, non come sudditanza, ma quale servizio umile e docile di chi può risvegliare l’umanità, verso chi si fa “incontro” e mi libera, generando a nuova vita.