Generazione famiglia, contro la barbarie dell’utero in affitto
“Gli uteri non si affittano! I figli non si comprano!” è il messaggio sulle locandine affisse in tutta la città dal circolo reggino di Generazione Famiglia per denunciare la barbarie dell’utero in affitto. Secondo alcuni, l’uso del termine “utero in affitto” sarebbe offensivo e da sostituire con i preferiti “gestazione per altri” oppure “maternità surrogata”, termini sati per nascondere un atto di compravendita vergognoso condannato anche dall’UE. Recentemente, infatti, il Parlamento europeo ha approvato un emendamento al Rapporto sui diritti umani che «condanna la pratica della maternità surrogata, che mina la dignità umana della donna, visto che il suo corpo e le sue funzioni riproduttive sono usate come una merce; considera che la pratica della maternità surrogata, che implica lo sfruttamento riproduttivo e l’uso del corpo umano per profitti finanziari o di altro tipo, in particolare il caso delle donne vulnerabili nei Paesi in via di sviluppo, debba esser vietato e trattato come questione di urgenza negli strumenti per i diritti umani». Generalmente sono donne povere e bisognose quelle che si lasciano sfruttare da questo odioso mercato ma l’utero in affitto è un’arma a doppio taglio, da una parte costringe la donna a fattrice di figli per conto terzi, dall’altra riduce i figli allo stato di merce. L’utero in affitto è una violazione dei diritti umani anche quando non implica lo sfruttamento economico e sociale della donna perché comunque un essere umano viene trattato come merce e non come soggetto di diritto, il figlio.
Ultimamente anche in Italia si è acceso il dibattito intorno a questa pratica, addirittura le femministe di SNOQ (Se Non Ora Quando) hanno lanciato un appello contro l’utero in affitto sottoscritto da numerosi intellettuali e gente dello spettacolo. Eppure, c’è chi in Italia vorrebbe legittimare questa pratica attraverso l’approvazione del ddl Cirinnà, la proposta di legge sulle unioni civili. Con l’articolo 5 di questa legge, infatti, è previsto il meccanismo della stepchild adoption, che di fatto renderebbe legittima questo commercio anche in Italia pur praticandolo all’estero. È bene, quindi, che il dibattito su queste tematiche sia sempre il più ampio ed approfondito possibile affinché il Parlamento non assecondi spinte ideologiche da parte di piccoli gruppi. La donna non è un oggetto, non è il macchinario di una fabbrica, e il bambino non è un prodotto commerciale, non è un bene di consumo!