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TAURIANOVA (RC), GIOVEDì 21 NOVEMBRE 2024

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Gli intoccabili di Taurianova

Gli intoccabili di Taurianova

| Il 01, Apr 2011

Storie di parvenu e di vitelli fintooro, con sottofondo di urla, contumelie e minacce di querela

di LUIGI MAMONE

Gli intoccabili di Taurianova

Storie di parvenu e di vitelli fintooro, con sottofondo di urla, contumelie e minacce di querela

 

Fu il titolo di un reportage televisivo realizzato sul finire degli anni ’70  da Joe Marrazzo (padre del più conosciuto Piero, giornalista RAI, pure questi come il padre, ma più noto per le vicende di sesso, droga e transex, che posero anzitempo fine alla sua presidenza della regione Lazio). Quel reportage, commissionato certamente da chi in quegli anni comandava a Rai 2, fu il primo attacco picconatore contro la guida Dc di Taurianova e – segnatamente – il primo atto di una dura battaglia contro il leader di quella Dc – Francesco Macrì – all’epoca al massimo del suo potere politico, che  lo vedeva operare avendo come punto cardine di azione la sanità e l’Ospedale di Taurianova, denigratoriamente definito in quei lontani anni dell’ultimo terzo del secolo scorso, la Fiat della Piana di Gioia e che – nei fatti – auspice altra politica e diversa gestione economica degli enti pubblici, aveva garantito ai taurianovesi  la fine dell’emigrazione e un elevato livello di benessere che gli stipendi dei tanti dipendenti della sanità riversavano  sul territorio, la cui economia era ancora legata alle botteghe e condizionata – non come oggi – dalle grandi catene commerciali. In quegli anni la globalizzazione non esisteva e l’agricoltura e l’olivicoltura  garantivano produzione di reddito e di ricchezza. In quella realtà – isola felice e età dell’oro se rapportato ad oggi – grandi personalità politiche si contrapponevano sulla scena: oltre al citato Francesco Macrì (e a suo padre Giuseppe), fecero storia Raffaele Terranova e Emilio Argiroffi. Anch’essi  furono oggetto di attacchi e quando necessario furono aggressivi, verbalmente e per scripta. Nessuno di loro – giganti rispetto ai tanti, molti pigmei che popolano oggi la scena politica italiana alla ricerca di un posto al sole, si adirò mai per la critica. Nessuno di essi rifiutò mai la satira e l’ironia. Nessuno di essi nonostante le esacerbate note di moltissimi comizi, si permise mai di aggredire verbalmente minacciando di querele i giornalisti.
Macrì – per primo – nonostante i ripetuti attacchi sembrava quasi goderne. Joe Marrazzo, con lui non era mai stato tenero. Ciononostante, pare, dopo l’intervista (e prima della messa in onda – che in quegli anni avveniva dopo diversi giorni) i due andarono a cena  su invito di Macrì, ben sapendo – questi – che per il reportage – girato  nelle ore  solatie del primo pomeriggio,  quando le strade sono deserte e prive di vita, Marrazzo avesse anche noleggiato una Rolls Royce simile a quella usata dal leader Dc per dar vita ad un embrione di fiction.
Macrì nonostante il nomignolo di intoccabile non si arrabbiò più di tanto e non querelò Marrazzo, né anni dopo gli inviati di Repubblica, che lo definirono padre, padrino, padrone e conducator, furono querelati.
Anni  dopo, quando ormai Macrì era fuori dalla scena, il nostro direttore, che su altre colonne aveva ironizzato sulla angelicizzazione di una  bellissima fanciulla –  assessore al tempo del primo mandato di Roy Biasi  – da parte di  un attempato collega di altro organo di stampa, che amava pubblicarne la foto e dare risalto alle sue attività – a conferma di una diversa visione del mondo e delle sue vicende – fu minacciato di querela e in quella occasione – molto ironicamente – intervenimmo con un excursus fra il serio e il faceto dissertando di satira  e tirannide,  volando ad alta quota sulla nequizia che ci aveva dato lo spunto per scrivere – espressione della visione  verghiana del mondo di chi si era sentito diffamato –  soffermandoci  invece su  personaggi che della satira fecero il loro stile di vita – graffiante e dissacratore ma fondamentalmente onesto (a parte, in correlato, quell’articolo).
Negli ultimi giorni la scure oscurantista dei facitori di querele per diffamazione a mezzo stampa ha colpito nuovamente un organo di informazione: ahinoi, Approdo News! E nel particolare il curatore della Lanterna di Diogene – al quale va la nostra solidarietà e il nostro sostegno. Egual sostegno vada alla nostra redattrice Teresa Cosmano che ha subito – prima fra tutti – l’ira verbale del presunto diffamato che di buon mattino  ha pensato di iniziare il suo infausto dies irae telefonando in redazione e chiudendo il telefono in faccia  alla redattrice, alla quale aveva chiesto il numero di telefono di uno degli editori. L’analisi della frase incriminata non è assolutamente diffamatoria. Dal nostro personale osservatorio di analisi giornalistica, e senza assolutamente cincischiare con i termini, quello che il “cinico filosofo”, autore del pezzo per la Lanterna di Diogene aveva scritto, non è in alcun modo diffamatorio. “Cogito, ergo sum” –  Penso, quindi esisto. E se penso ho il dovere di dubitare. E se dubito esprimo le incertezze, le ubbie, la mancata conoscenza del modo di essere di una realtà esterna. Dov’è la diffamazione? Dove e in che cosa sarebbe stata incisa o lesa la sfera dell’individualità soggettiva del presunto diffamato che, in realtà, forse per aver staccato il contatto con il mondo delle origini o per vivere in una dimensione avulsa dalla realtà, ha pensato di essere portatore di dogmi, di verità e di idee non contestabili e, dunque, di essere una sorta di Messia. O forse  solo un intoccabile. Intoccabile che non ha gradito la garbata ironia del cinico filosofo.

Ricordo molti anni  fa, nel cuore di un lontano carnevale taurianovese, un giovane vestito da Papa, alto, magro, con una faccia  indisponente, e tutto impegnato a imitare l’allora ancor giovane di età e di elezione al soglio pontificio, Karol Woityla. La folla  carnascialesca stava al gioco e lo osannava. Ma era uno scherzo.  Altre folle ora, nel gran carnevale della politica taurianovese – che purtroppo non è così scherzosa come quel lontano carnevale –  ci ricordano invece gli ebrei nel deserto in attesa del ritorno di Mosè dal Monte Sinai e che a un certo punto pensarono di forgiare un idolo e di adorarlo e crearono un vitello d’oro.
La follia di costoro, perbenisti e benpensanti, comunque ipocriti, comunque lontani dalla realtà ne stava creando un altro. Anch’esso d’oro? Non crediamo: forse malamente placcato, o in finto oro.

 

Dopo il vile attacco contro il nostro Direttore la solidarietà di Malimeni.
In una lettera dai toni forti le ragioni alla base delle basse e strumentali speculazioni contro Arianova. Raggiunto al telefono da un nostro inviato, Malimeni ha  laconicamente commentato: “Erano meglio i tempi del Conte Tacchia: Un bacio ‘ddu sganassoni e ‘na …pernacchia”.

Caro Lazzaro,
Dal mio romito ostello, ove trascorro in serena meditazione giornate dedicate alla riflessione sulle cose e sui casi della vita, mi sono giunti gli echi di una  polemica che ha interessato il Tuo giornale, a seguito della pubblicazione di un articolo che ha suscitato l’ira funesta di coloro i quali mai seppero sorridere e guardare con distacco le umane vicende.
Non ti abbattere; so che hanno minacciato querele. I potenti  o presunti tali, blandiscono sempre gli strali della censura, le ritorsioni, gli eccessi della Santa Inquisizione. Se avessero potuto, ti avrebbero fatto mazzolare come ai tempi di Mastro Titta Ombrellarino, il Boia Pontificio, mio amico, che nonostante tutto, fra una testa tagliata, uno squartamento e una mazzolata,  trovava la sera il tempo per ironizzare con me in una Hostaria di Trastevere dove, fra i profumi della cucina della Sora Cornelia,  godevamo il fresco della sera, baciati dal ponentino, sorseggiando vino dei colli e scambiandoci, sulla scorta delle sue attività “professionali” previsioni sui numeri da giocare al lotto.
Ah, amico mio, che grand’uomo che era mastro Titta! Peccato che ogni tanto gli dovesse capitare di dover mettere alla gogna qualche giovane scapestrato che aveva osato farsi beffe del potere costituito e delle dame di corte. Pero’ in quei casi, me lo disse in confidenza una sera che passeggiavamo a Lungotevere de’Cenci, non stringeva mai troppo le viti della gogna. Come  fece, suo malgrado anche con me quando per emular Pasquino, feci anch’io una pasquinata assieme a quel compagnone del Marchese del Grillo.
Haimè com’è erta e dura la via della satira politica. Giunsi  infatti nella Roma papalina, come tu ben sai, mio caro Lazzaro, dopo essermi separato da William di Baskerville e Adso da Metz insieme ai quali fortunosamente ero riuscito, trecento anni prima, a salvare la pellaccia dall’incendio che quel vecchio rinc…di Jorge da Burgos fece scoppiare per impedire a tutti noi di leggere un libro sull’ilarità. Neanche lui sapeva ridere, come tanti che oggigiorno ipocritamente seriosi e perbenisti tentano di mettere il bavaglio a chi sa cogliere gli eccessi e le ipocrite storture del  loro modus agendi.
Scappare via dall’abbazia non fu difficile. Il cammino dopo fu periglioso. C’era la neve e Adso da Metz piagnucolava vergognosamente dopo aver visto la pulzella che aveva fatto vibrare le corde più segrete del suo animo facendolo cadere nel dubbio se seguire, come poi fece, il suo maestro sulla via del monachesimo, o darsi ai piaceri della carne.
Feci con loro molti giorni di marcia. Poi mi separai e dopo vicende alterne giunsi nella Spagna dei serenissimi Ferdinando e Isabella. Il clima non era dei migliori e piuttosto che cadere nelle mani degli inquisitori che “en favor de la fè” avrebbero giudicato le mie celie come opera demoniaca processandomi con la democratica alternativa di confessare i miei peccati e morire in grazia di Dio o non confessarli e morire senza grazia di Dio, ripresi il mio peregrinare alla ricerca di una terra gioiosa dove tutti sapessero ridere  senza che nessuno s’arrabbiasse. Pensai alla terra d’Albione. Perigliosamente, varcata la Manica, mi ritrovai nel mezzo di una guerra civile. Avevo sentito parlare, di un tal Robin Hood. Mi dissero che era morto e sepolto dal tempo delle crociate e che il conflitto si guerreggiava fra gente timorata (sai, Lazzaro, una specie di integralisti islamici ante litteram) e morigerata che non sapeva ridere e che era guidata da un tale Cromwell, che di nome si chiamava, se non erro, Oliviero (nulla a che vedere con il collega Beha, naturalmente…).
Haimè dovetti assistere all’esecuzione di un poveraccio, un certo Carlo Stuart, e così decisi di emigrare ancora.
La Francia mi accolse, finii nella suburra, conobbi Jean Valejan e tanta altra bella gente. Nessuno s’avventurava di notte per le vie di Parigi. Feci amicizia con un campanaro gobbo, che stava chiuso nella cattedrale di Notre Dame ivi segregato fin dalla nascita, non tanto perchè fosse deforme, ma perché figlio di una zingara che era stata uccisa da una truce espressione di potere costituito, che nulla di meglio trovava da fare se non perseguitare i poveracci e  gli zingari che con i loro carrozzoni e le loro vesti sgargianti  arrivavano a Parigi alla vigilia di ogni festa.
Il mio peregrinare così continuò senza sosta. Tornai in Italia e feci  amicizia con Giusti che in anteprima mi fece leggere una sua poesia, quella che una volta tu non volesti imparare e ti beccasti  uno de pochi  “impreparato” della tua pur lodevole carriera scolastica: “Il Re Travicello”. Fu quella una pausa ristoratrice: un po’ perché cominciavo ad accusar stanchezza (dopo tanto peregrinare…) un po’ perché avevo bisogno di ritemprare lo spirito. Per circa altri 80 anni mi dedicai ad una satira cesellata  condotta a punta di fioretto anche perché l’età Umbertina non era certo fra i i tempi dei migliori per ironizzare, con un tal Bava Beccaris  che non esitava a cannoneggiare tutti. Fu un periodo comunque fecondo che, se non mi risparmio improperi e aggettivazioni, quantomeno non mi costrinse ad andar ramingo per il mondo. Fu così che giunsi per la prima volta nella tua terra, la Calabria e alle falde dell’Aspromonte, poco distante da dove tu vivi, conobbi finalmente un uomo che sapeva guardare con distacco le cose del mondo ironizzandovi su con un garbo ineguagliabile, si  chiamava Giovanni Cavaliere ed aveva scritto da poco tempo un volumetto di Chimica in … versi. Con lui ed altri leggevamo il “Travaso delle idee” con Scarpelli che metteva alla berlina tutti imperioso facendo agitare l’indice accusatore  del suo  mitico “Oronzo  E. Marginati” (che però deve essere letto tutto attaccato: Emarginati): “il cittadino che protesta”. I ritmi del secolo in cui viviamo furono frenetici. Eppure era iniziato tutto così bene. Quella sera del primo gennaio 1900 con il Gran Ballo Excelsior non avremmo mai immaginato di dover poi vivere tutto quanto abbiamo vissuto: dalle guerre coloniali ai governi di Berlusconi e di Prodi. All’inizio scoprimmo il cinema. Poteva essere una nuova età dell’oro, poi arrivarono i truci dittatori e mi ritrovai anch’io in camicia nera a far ginnastica il sabato pomeriggio in Piazza d’Armi e alla sera, mio malgrado, ad ascoltare alla radio i proclami di un qualcuno, capatosta, che, se invece di emulare le gestualità e le scelte politiche di un ridicolo ex caporale divenuto, e non  si capirà mai come, Cancelliere e poi Fuherer dei tedeschi, (allo stesso modo di come non si capirà mai come Berlusconi sia divenuto leader politico e Presidente del Consiglio), avesse visto le cose con un pizzico di humor e di realismo in più, forse non saremmo finiti nella merda, come poi finimmo fino a quando non vennero gli americani a tirarci fuori, portandoci la cioccolata e le AM Lire, spupazzandosi le ragazze italiane e cercando di fare ordine in quel  gran cumulo di macerie che era residuato alla incapacità di gente seriosa, politicamente ottusa,  spesso violenta e comunque e sempre incapace di sorridere che aveva guidato l’Italia per venti anni. Nel mezzo del cammin di questo secolo avemmo una lunga pausa di felicità. Inizio’ Forattini e poi Giannelli e altri ancora li seguirono, Io che per un po’ di tempo avevo fatto il paparazzo in attesa di tempi migliori, scattando foto e buscando legnate accorgendomi che ronzare intorno ad attricette e bulli squattrinati è di una noia mortale, m’ingegnai di emularli, ma il tocco della mia matita non fu mai eccelso.

Erano gli anni degli Spadolini, dei De Mita, dei leader della Triplice, di Bettino Craxi e soprattutto di Giulio Andreotti che, come e più di tutti, nel bene e nel male, seppe sempre sempre ironizzare e sempre accettò la satira. Vi furono, come loro, anche in provincia leader politici che accettarono gli strali, certamente più velenosi, dei satiri di paese senza mai minacciar querele, anzi forse beandosi dell’essere oggetto di cotante attenzioni.
Ai tempi di Mastro Titta, era tutto godereccio e spontaneo;  Roma era una specie di grande Rione e la vita era un po’ di quartiere, lasciavamo tutto all’improvvisazione e il gusto della battutaccia era ineguagliabile. Negli ultimi anni tutto è cambiato, ho scoperto il fax e il telefonino (che dolore immane la prima bolletta della Telecom, la tua voce….). Albertone Sordi ultimamente ironizza ma alla fine resta solo l’amaro in bocca, Grillo è stato ridotto al silenzio e Antonio Ricci e il Gabbibbo sono troppo moderni e chiassosi perché io li possa apprezzare. A livello politico si è toccato il fondo: ovunque. Tutti s’incazzano, tutti querelano. I sindaci tengono memorizzate nei loro computers le querele per diffamazione, i loro segretari, particolari e non, sono addetti solo a suggerire o stilare querele in nome di un bacchettonesco “vi sbattooo tuttiii dentroooo!”, che mi ricorda gli anni del collegio con il terribile direttore Pierpaolo Pierpaoli che infieriva senza tregua su di me e sul mio amico Giovannino Stoppani, detto Gian Burrasca, con il quale demmo vita all’ancora celeberrimo “giornalino”. I papaveroni deputati, tutti rigidi e compunti fanno interrogazioni parlamentari sul perché e sul per come. Nessuno  fra costoro sa più ridere e neanche sorridere. Spesso purtroppo non sanno neanche leggere (il che, capiscimi, caro Lazzaro, è più preoccupante).  Ecco allora che in attesa di tempi nuovi ho deciso di riposare,  per ritemprarmi e meditare.
I fatti che tanto ti hanno turbato non sono meritevoli di alcuna attenzione. Nulla di diffamatorio hai scritto (ho fatto leggere il  tuo articolo anche ad un avvocato che è un po’ il mio….alter ego). Hai semplicemente ironizzato molto garbatamente e molto  discretamente su circostanze inusuali che, proprio per essere tali, si prestano all’ironia, cogliendo fra le righe anche un non so che, di poeticamente pudico. Null’altro e niente altro in più. Niente comunque che meritasse tanto blaterare in quel Consiglio Comunale che, da come ho appreso, ha avuto toni da bolgia dantesca più che di consesso di cittadini.
Adesso sono costretto a lasciarti.
Ho un  pranzo di lavoro con Forattini, Giannelli, Fremura e Stefano Benni.
Ho fatto preparare tutto il pranzo da un cuoco mio amico, che da ragazzo lavorava nella cucina della Sora Cornelia: quella dove andavo a pranzare con mastro Titta. Avevo intenzione a dire il vero, di far preparare lo stoccafisso: quello che giù da voi sapete cucinare così bene, con le olive e i capperi. Un mio amico delle tue parti al quale lo avevo richiesto, mi ha però detto che poco tempo fa  ha avuto  difficoltà a trasportarlo, sia secco che ammollato, e così ho cambiato menu’.
Mi resta solo un dubbio: a metà pranzo per cambiar gusto è meglio un sorbetto al limone o la pesca melba?
Affettuosamente
Ugo Malimeni

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