Gli schiavi di Rosarno: illegalità di Stato Ipocrisia di tutti davanti a tragedie, figlie di situazioni che tutti conoscono, ma su cui nessuno interviene per superarle, creando una situazione di illegalità diffusa e di complicità per necessità di sopravvivenza
di Bruno Morgante
Ci vuole ogni volta un incidente che coinvolga persone sfruttate come schiavi per accorgerci di un’economia agricola da terzo mondo che nel nostro paese convive con agricoltura avanzata e leader sui mercati nazionali e internazionali.
L’ultimo incidente è quello del carabiniere, accorso per sedare una rissa all’interno di un campo lager a Rosarno che accoglie lavoratori dell’agricoltura provenienti dall’Africa, carabiniere che è stato costretto ad uccidere per difendersi dal suo accoltellatore.
Tutti a scandalizzarci, giustamente, delle condizioni bestiali in cui sono costretti a vivere questi lavoratori.
Sono gli stessi che fra poco si sposteranno in Puglia e in Campania in altri campi in cui vivere come bestie per essere schiavizzati da altri caporali che garantiscono mano d’opera a basso costo ai proprietari terrieri.
Non è una novità.
Lo stato è a conoscenza di tutto il sistema che è in uso nel Sud per mantenere un’agricoltura da terzo mondo.
Ricordo negli anni 80, quando giornalmente percorrevo l’autostrada per andare a Catanzaro per lavoro, la visione dei camions coperti da un telone con delle panche ai due lati e decine di donne e di ragazze sedute sopra, infreddolite, che ritornavano a casa nei paesi pedemontani della Piana.
Erano giornaliere di campagna, reclutate per raccogliere olive o altri prodotti nel Lametino.
Anche in quel caso c’erano caporali che garantivano mano d’opera a basso costo.
Molte erano mamme che facevano le schiave in giro per garantire anche le “101 gionate” alle figlie, che così maturavano la disoccupazione agricola e la pensione.
I contributi, spesso, se le pagavano loro con trattenute sul loro salario.
Una sera del mese di Aprile del 1986 il camion vicino a Rosarno, ormai vicino ai paesi di provenienza delle lavoratrici, andò fuori strada.
Vi furono cinque raccoglitrici morte, dieci ferite, ferito anche l’autista del camion che era il caporale, che venne arrestato.
Tutti erano a conoscenza di questo sistema, che creava complicità tra vittime e carnefici, ma ci son voluti cinque ragazze morte per gridare allo scandalo.
Per un mese polizia a pattugliare l’autostrada, poi niente.
La sera continuavo a vedere questi camions con queste povere donne, bellissime nei volti scavati e sofferenti, ma pieni di fierezza di lavoratrici che si sacrificavano per la famiglia e per i propri figli, o di ragazze che mantenevano la loro giovanile sfrontatezza, anche se stanche e infreddolite, in quanto partivano che era ancora buio.
Dopo ogni incidente , dicevo, si grida allo scandalo.
La sinistra si straccia le vesti e attacca i padroni terrieri sfruttatori e invoca leggi severe per caporali e agrari. I sindacati pretendono garanzie contrattuali e invocano un controllo permanente delle forze dell’ordine. I benpensanti gridano che è una vergogna per l’Italia l’esistenza di questi fenomeni.
Il governo si impegna a fare leggi severe per stroncare il caporalato.
I giornali per qualche giorno dedicano le prime pagine alla notizia.
Dopo un mese nessuno ne parla e tutto continua come prima, salvo qualche piccolo miglioramento episodico, non strutturale, per cui destinato a essere temporaneo.
Uno di questi interventi fu il campo per questi lavoratori a Rosarno, dopo la rivolta degli schiavi, che è degradato a lazzaretto, senza servizi.
Tento di andare oltre il gridato per capire il perché di questa incapacità dello stato ad intervenire.
Mi torna in mente un accordo sindacale firmato a fine 1985 a Castrovillari per il bracciantato che allora suscitò scalpore e non pochi mal di pancia a sinistra.
Riporto le parole del segretario regionale della CGIL di allora, Alfonso Torsello, firmatario dell’accordo, rilasciate durante un’intervista.
Dice Torsello:
< Un sindacato serio e veramente preoccupato deve sapere prendere atto della realtà ed azionare i mezzi che ha a disposizione. A Castrovillari abbiamo stipulato qualche giorno fa un accordo per il bracciantato agricolo, al di sotto dei minimi contrattuali. Le aziende si sono impegnate ad assumere soltanto ed esclusivamente tramite il collocamento ufficiale; i braccianti percepiranno, però, 40.000 lire in meno della paga contrattuale. Se non avessimo fatto questo, se ci fossimo irrigiditi nella difesa cartacea del contratto, avremmo ottenuto certamente l’effetto contrario: le aziende, cioè, non essendo compatibile con i prezzi di mercato il costo della paga contrattuale, avrebbero continuato a rifornirsi di mano d’opera attraverso i caporali ed ai lavoratori sarebbe andato assai meno del 50% della previsione contrattuale, mentre il resto sarebbe finito nelle mani dei caporali e della mafia>.
Si gridò al ritorno delle gabbie salariali.
Torsello chiarì che il contratto era valido per alcune colture che non reggevano sul mercato ed era temporaneo, per permettere ai proprietari di attuare piani di miglioramento colturale, associarsi per fare agricoltura di qualità e per restringere la filiera per arrivare al consumatore.
Oggi la sibaritide è una delle punte di diamante dell’agricoltura meridionale e nazionale.
Un altro fatto che mi aiuta a riflettere è che oggi non si pone più il problema delle raccoglitrici di olive, problema risolto dall’innovazione tecnologica e di processo, quali le reti, il rinnovamento colturale con l’abbassamento degli alberi per cui è stato possibile usare gli scuotitori, con il conseguente miglioramento della qualità dell’olio e della sua remuneratività.
Si è creata mano d’opera specializzata come scuotitori, potatori.
Si può pensare di lasciare al mercato la soluzione del problema o è necessario che lo stato predisponga interventi per indirizzare l’evoluzione del mercato, in un sistema di regole che permettano di stare anche oggi sul mercato nella legalità?
Questo è il nodo vero, su cui il governo dovrebbe intervenire in forza dell’art. 41 della costituzione, che recita:
“L’iniziativa economica privata è libera.
Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo di arrecare danno alla libertà, alla dignità umana,…. “.
La coltura degli agrumi destinati all’industria, con le regole attuali, non è economicamente sostenibile, per cui, è un’iniziativa economica che non può garantire, per essere espletata con un minimo di utile da parte del proprietario, la legalità, quindi il rispetto della libertà, e la giusta remunerazione del lavoratore, quindi il rispetto della dignità umana.
Le industrie pagano le arance a 5 o 6 centesimi al chilo, posto industria.
Dovendo pagare secondo la legge un lavoratore costerebbe circa 40 euro lorde al giorno, per sei ore e mezza di lavoro, tale è l’orario giornaliero previsto contrattualmente, pari a 39 ore settimanali con sei giorni lavorativi.
In sei ore e mezza un lavoratore arriva a raccogliere in media circa 8 quintali al giorno.
Impossibile quadrare i conti.
Restano fuori i costi di trasporto, di coltivazione, dall’aratura, alla concimazione, alla pulitura degli alberi, al trattamento fitosanitario.
Oltre all’incasso, che spesso il proprietario incassa l’anno dopo, mentre i costi sono cash, il proprietario ha il titolo che gli rende, sempre l’anno dopo, un contributo comunitario medio di circa 1300 euro ad ettaro.
L’entità di questo contributo, sulla base della revisione della PAC (Politica Agraria Comunitaria) dal 2018 si ridurrà a circa 300 euro ad ettaro.
Pagare per la raccolta l’attuale contratto bracciantile, rispettandone anche gli orari, per i proprietari sarebbe una perdita secca.
Si può immaginare cosa succederà fra due anni, se rimarranno così le cose.
Migliaia di ettari di agrumi, che rappresentano nella fascia costiera della Piana di Gioia Tauro e nelle fasce di terreno lungo i fiumi una parte importante dell’economia del territorio, sulla base di questi costi dovrebbero rimanere con il frutto sull’albero.
Fatto impossibile perché i proprietari debbono dimostrare di aver venduto il prodotto, altrimenti perdono anche il contributo europeo sui titoli di proprietà e di coltivazione.
Il non tenere conto della realtà genera ricorso all’illegalità.
Nell’illegalità diffusa subentra la mediazione dei caporali, spesso immigrati anche loro, l’attenzione della mafia, che sovrintende nella zona ad ogni azione illegale.
Si crea l’alibi e la complicità verso approfittatori e mafiosi, che, senza averne necessità in quanto fanno colture redditizie, usufruiscono di questo mercato illegale di mano d’opera, mescolandosi con la massa che è vittima della situazione rendendo strutturale l’illegalità in agricoltura.
Tutto degrada.
La Calabria ha bisogno di legalità, quale base necessaria per essere liberi e perché si possa investire in sviluppo, legalità che si deve basare su norme compatibili con la realtà e perciò tutti obbligati ad attuarli .
Nel settore agrumicolo servono regole che siano temporanee fino all’introduzione, da incentivare, di innovazioni di processo e di prodotto, da attuare in tempi certi e brevi, e servono controlli severi sulla loro attuazione .
La particolarità delle condizioni pedoclimatiche della Piana di Gioia Tauro consente produzioni di alta qualità, come è successo nella sibaritide che oggi annovera molte eccellenze dell’agricoltura italiana, quali le uve senza noccioli o le clementine, esportate in tutto il mondo.
Lo stato di bisogno e la particolarità storica che ha determinato situazioni particolari, come l’agrumicoltura, non implicano uno stato che chiude un occhio, per non aggravare la situazione di bisogno, accettando di fatto l’illegalità.
Si costringe gente per bene a ricorrere ai servizi erogati da persone che si trovano a loro agio nell’illegalità, diventando complice di mafiosi e di parassiti.
Lo stato deve avere la capacità di dettare regole che permettano alla gente per bene di vivere nella legalità, senza andare in rovina, e contemporaneamente di indirizzare la gestione aziendale, con giusti incentivi e disincentivi, verso l’introduzione di innovazioni di processo e di prodotto, perché si superi lo stato di economia assistita.
Per chi non si adegua è giusto, , alla luce dell’art. 41 della costituzione, che lo stato ponga in discussione il diritto della gestione di terreni con colture non compatibili con il mercato.
Un salario possibile per la sola agrumicoltura, nella fase di passaggio, dovrebbe non essere superiore ai 35 euro lorde giornaliere per otto ore di lavoro, euro che dovrebbero andare tutti ai lavoratori, con la fiscalizzazione degli oneri sociali.
Il non affrontare la situazione con soluzioni realistiche che permettano la fine della necessità del caporalato, garantiscano la dignità dei lavoratori, rende lo stato e le forze sociali complici dei caporali e dei mafiosi, istigatori all’illegalità, essi stessi illegali, in quanto non ottemperanti a quanto previsto dall’art. 41 della costituzione.