Ho ucciso la Befana
redazione | Il 12, Gen 2012
Repentina metamorfosi di un bravo figliolo, mai diventato adulto, tutto casa e chiesa, cresciutosi nella bambagia, sotto l’ala protettrice di una mamma iperchioccia, che improvvisamente, e inaspettatamente, commette l’irreparabile
di DON SALAZZAR
Ho ucciso la Befana
Repentina metamorfosi di un bravo figliolo, mai diventato adulto, tutto casa e chiesa, cresciutosi nella bambagia, sotto l’ala protettrice di una mamma iperchioccia, che improvvisamente, e inaspettatamente, commette l’irreparabile
di Don Salazzar
Ho trentatré anni, ma non per questo mi sento maturo. Figlio unico, sono affetto da quella sindrome che è stata definita della “lunga adolescenza”. Nel senso che da casa non mi schiodo. Né sento la necessità di rendermi autonomo andandomene a vivere da solo e magari – dico per dire – sposarmi.
Chi me lo fa fare? In famiglia vivo benissimo.
O meglio, vivevo. Perché mi è successa una cosa incredibile, certamente legata al mio “complesso di Peter Pan”.
Intanto, ci tengo a precisare che di carattere sono mite e aborro ogni forma di violenza. Anche quella verbale: chi parla e alza la voce, al di là di ciò che afferma, mi procura un fastidio indicibile e insopportabile. Mi ritengo decisamente pacifico. Non ci sono cortei o manifestazioni contro la guerra che non mi hanno visto solidale. Amo gli animali, anche se a casa non ne ho mai potuto tenerne alcuno, nemmeno un pappagallino, nemmeno un pesciolino, perché mammà diceva che sporcano e che possono trasmettere brutte malattie.
Sono di indole pigra e non me la sono mai sentita di impegnarmi – come si dice – nel volontariato o in politica, anche perché considero entrambi – ma la politica soprattutto – due campi ove regna il tornaconto personale dei più. Tuttavia, non condanno chi ne fa parte.
Non sono riuscito a trovare un lavoro stabile e ho cercato di arrangiarmi facendo qualcosa nel precariato. Nel frattempo mi ero messo sotto a studiare per prendermi quella benedetta laurea in legge (per la quale sono abbastanza fuori corso), se non altro per accontentare l’orgoglio genitoriale e per dare un senso più plausibile al mio stare stabilmente in casa. Mio padre non mi ha mai detto niente. E non solo perché di poche parole ma perché, tutto sommato, si sentiva felice di vedermi tranquillo nella nostra abitazione, lontano dai pericolosi e dalle tentazioni esterne.
Anche mia madre lo era. Figuriamoci, povera donna. Sapermi sempre lì, a portata di mano e di voce, senza grilli per la testa, senza la frequentazione di cattive compagnie, le serviva per placare tutta l’apprensione che si portava dentro per quel figliolo unigenito arrivato in ritardo e fatto crescere nella bambagia.
Per questo non mi aveva fatto mai mancare niente, viziandomi fino all’inverosimile. Tutti i miei desideri, espressi o a malapena accennati o addirittura taciti (mi leggeva in testa) venivano subitaneamente esauditi. Non mi avrebbe mai dato una delusione e men che meno un dispiacere tanto era il bene che mi voleva.
Forse l’unico suo neo è stato quello di non avermi mai detto tutto sulle cose della vita, lasciandomi su molti aspetti della realtà ignaro come un bambino.
E non mi riferisco al sesso, per il quale, francamente, non ho mai nutrito grande attenzione giudicandolo, per quel poco di esperienza che ho avuto al riguardo, solamente un mezzo di richiamo da parte delle donne verso gli uomini assatanati di piacere in modo da tenerli sempre sottogiogo.
E qui, credetemi, l’abbondante educazione cattolica che mi è stata inculcata per volere di mammina c’entra poco o nulla. Sono riflessioni che ho maturato da solo e che mia madre, quando qualche volta gliene parlavo, mostrava di condividere appieno. Sicché, nessuna meraviglia da parte sua se non mostravo interesse per le femminucce.
Come passavo il tempo in casa? Televisione, Internet e tanta Playstation. Come lettura solo e rigorosamente fumetti (Topolino, il Giornalino e i Super Eroi ).
Un figlio modello, no? Molti di voi non la penseranno così, ma mia madre, e anche le sue amiche, mi consideravano davvero un figlio virtuoso, soprattutto se paragonato ai loro, sempre in giro, sempre in discoteche, sempre a farsi le canne, sempre a puttaneggiare.
Un figlio modello, già. Ma che a un certo punto l’ha combinata davvero grossa. Molto grossa.
Dovete sapere che la mia condizione tardoadolescenziale (ma forse sarebbe più giusto definirla veteroinfantile), vissuta nella dorata situazione familiare di cui vi ho detto, mi ha portato a credere, anche alla mia età, alle cose fantastiche. Alle favole, per esempio. E alla Befana.
Proprio così. Alla Befana. Alla vecchietta con la scopa e col sacco colmo di regali.
Solo che costei ogni anno, nella notte del 5 gennaio, si presentava a casa mia e invece dei giocattoli (ne avevo tanti, è vero, ma uno in più non mi disturbava) mi portava esclusivamente cenere e carbone.
Ma come, mi chiedevo incredulo tra me e me, se ho sempre fatto il bravo, perché la vegliarda invece di premiarmi mi puniva? Qualche volta ho cercato di accennare la cosa a mammà, ma lei prontamente mi rassicurava affermando che non avevo bisogno di niente e che se volevo qualcosa non avevo che da schioccare le dita. Sì, ma perché la Befana, della quale mi fidavo ciecamente, mi trattava così? Io mi sentivo immune da ogni colpa o mancanza.
Per trentadue anni mi sono tenuto la frustrazione e la rabbia dentro. Finché, l’anno dopo, la collera è esplosa. Impetuosa. Imprevista.
A trentatré anni, la notte della vigilia dell’Epifania, dopo avere accuratamente evitato di addormentarmi, un’ora prima dell’alba ho potuto osservare, sbirciando con un occhio, la vecchietta entrare piano piano nella mia cameretta e, come ogni anno, avvicinarsi alla calza appesa ai piedi del mio letto, e, come ogni anno, apprestarsi a riempirla di cenere e carbone. Ancora cenere e carbone!
Allora non ci ho visto più.
Afferrando il coltellaccio da cucina che avevo in precedenza piazzato sotto il cuscino, mi sono scagliato contro la donna, e giù, coltellate su coltellate, incurante del sangue e delle grida della malcapitata. Anche se sono state proprio quelle grida disperate a riportarmi, dopo qualcosa come duecentonove colpi di lama (tanti ne ha contati il medico legale) inferti contro di lei, alla realtà.
E fu davvero un brusco risveglio. Soprattutto quando realizzai che la vecchietta che avevo furiosamente sventrato era mammina. Sì, proprio lei. Mammina. Che ogni anno si travestiva da Befana per continuare a farmi credere nelle favole. Per continuare a tenermi lontano dal mondo di fuori, cattivo e violento. Solo che, come mi è stato spiegato da mio padre (sempre di poche parole e, nella tragedia, anche senza lacrime), il carbone e la cenere per lei, e anche per me che ne ero il destinatario, dovevano avere il valore simbolico della purificazione, una forma lieve di punizione che assumeva il valore di una piccolissima compensazione negativa per tutti i regali ricevuti e per gli agi della mia beata esistenza.
Esistenza che, comunque, da quel giorno non subì grosse modifiche. Il giudice, per il mio stato mentale (al processo gli avvocati scomodarono Freud e Edipo, Erika e Omar, Amanda e Raffaele, Sabrina e Sarah e – poteva mancare? – anche zio Michele), mi condannò a scontare la pena ai domiciliari, a casa mia.
Figuriamoci che pena! Era quello che avevo sempre fatto. Solo che non c’era più mammina a tenermi compagnia e a rimboccarmi le coltri ogni sera (e mio padre era sempre più di poche parole).
E non ci sarebbe stata più neppure la Befana.
Ma forse era questo il castigo. Il rimpianto per entrambe. E persino per quella cenere e quel carbone che da allora nessuno sarebbe venuto a portarmi nella notte dell’Epifania.
Proprio ora che ne meritavo di santa ragione.
A tonnellate.
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