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TAURIANOVA (RC), LUNEDì 23 DICEMBRE 2024

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I carabinieri di Reggio arrestano la madre e la sorella della collaboratrice di giustizia Giuseppina Pesce

I carabinieri di Reggio arrestano la madre e la sorella della collaboratrice di giustizia Giuseppina Pesce

| Il 16, Apr 2011

Ecco l’ordinanza di custodia cautelare emessa dal Gip Vincenzo Pedone

I carabinieri di Reggio arrestano la madre e la sorella della collaboratrice di giustizia Giuseppina Pesce

Ecco l’ordinanza di custodia cautelare emessa dal Gip Vincenzo Pedone

 

Nella serata di ieri, i carabinieri del Comando Provinciale di Reggio Calabria e quelli di Milano hanno arrestato la madre e la sorella della collaboratrice di giustizia Giuseppina PESCE, dando esecuzione ad un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal GIP presso il Tribunale di Reggio Calabria, dott. Vincenzo Pedone, su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria.

Le accuse formulate a carico di FERRARO Angela e PESCE Marina, dalla DDA di Reggio Calabria sono di avere preso parte nell’ambito della associazione di tipo mafioso denominata ‘ndrangheta, operante sul territorio della provincia di Reggio Calabria, del territorio nazionale ed estero costituita da molte decine di locali, articolate in tre mandamenti e con organo di vertice denominato “Provincia”, alla cosca Pesce, operante in Rosarno, zone limitrofe e Milano, a sua volta inserita nel territorio compreso nella fascia tirrenica della provincia reggina, che attraverso la forza intimidatrice tipica dei sodalizi mafiosi controlla le attività economiche, attraverso la gestione di interi settori imprenditoriali e commerciali.

Le due donne sono, altresì, accusate del reato di estorsione e di una serie di intestazioni fittizie di beni.

Il provvedimento coercitivo trae fondamento, prevalentemente, dalle dichiarazioni accusatorie rese ai magistrati della DDA di Reggio Calabria da PESCE Giuseppina – figlia di FERRARO Angela e sorella di PESCE Marina – il cui contributo è stato definito dal Gip “granitico riscontro e naturale completamento del compendio investigativo già raccolto”.

FERRARO Angela e PESCE Marina erano già state destinatarie del provvedimento di fermo emesso lo scorso 26 aprile dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, nell’ambito dell’operazione cd. ALL INSIDE, che ha comportato l’arresto di ben 40 persone e la disarticolazione della potente cosca di ndragheta.

A FERRARO Angela i magistrati della DDA reggina contestano un ruolo di collegamento tra il marito detenuto Pesce Salvatore e gli altri membri del clan, sia detenuti (ad es. il fratello Ferraro Giuseppe, il figlio Pesce Francesco cl. 84), che in libertà.

PESCE Marina è accusata di avere svolto un ruolo di collega­mento e trasferimento di comunicazioni ed ordini tra il padre Pesce Salvatore ed il fratello Pesce Francesco cl. 84, entrambi detenuti e gli altri associati; in particolare, per avere svolto il ruolo di in­termediaria circa le specifiche disposizioni date da PESCE Salvatore e PESCE Francesco cl.84 sui i destinatari e le modalità delle attività estorsive, nonché per avere partecipato all’attività di intesta­zione fittizia di beni e reimpiego dei capitali illeciti del gruppo criminale.

In quella occasione, il Gip di Milano, pur ritenendo sussistenti i gravi indizi di colpevolezza nei confronti di entrambe le indagate, le aveva rimesse in libertà, ritenendo insussistenti le esigenze cautelari.

Con il provvedimento di fermo del 26 aprile 2010 la DDA di Reggio Calabria aveva  mosso le stesse accuse anche a PESCE Giuseppina, la quale,  però, nello scorso mese di ottobre 2010, ha intrapreso un’intensa e proficua collaborazione con i magistrati della DDA di Reggio Calabria, che ha portato significativi risultati investigativi, consentendo l’emissione di ulteriori provvedimenti coercitivi nei confronti di altri  affiliati alla cosca PESCE, tra i quali anche gli stretti congiunti della stessa Giuseppina.

Il provvedimento che oggi ha riportato in carcere la sorella e la madre della collaboratrice ripercorre gli aspetti salienti di una collaborazione che contiene “precise e circostanziate chiamate di correo anche nei confronti dei suoi più stretti congiunti (il padre PESCE Salvatore, la madre FERRARO Angela, i fratelli Francesco e Marina), confermando il pesante quadro indiziario nei loro confronti”.

Giuseppina, sin dall’inizio, ha innanzitutto riconosciuto le proprie responsabilità, ammettendo di aver effettivamente svolto il ruolo di intermediaria tra il padre detenuto e gli altri sodali, circa disposizioni e direttive relative alle attività criminali della cosca, oltre ad essersi prestata a intestare fittiziamente attività commerciali, per eludere provvedimenti ablativi della A.G. Successivamente fornendo preziosi particolari ha ammesso l’esistenza della potente cosca di ndrangheta, operante sul territorio della città di Rosarno e con ramificazioni nel nord del paese; dalla posizione privilegiata di figlia del boss PESCE Salvatore (fratello di PESCE Antonino cl. 53, storico capo dell’omonima consorteria criminale), sorella di PESCE Francesco cl. 84, dedito alle attività estorsive gestite dalla famiglia; cugina di PESCE Francesco cl. 78, attualmente latitante, figlio di Antonino cl. 53 e temibile successore al vertice della cosca, ha ricostruito l’intero organigramma della potente famiglia mafiosa, descrivendo il ruolo di ciascun componente, compresi i suoi stretti congiunti; ha riferito circa le vicende relative alla successione al vertice della cosca, a causa della detenzione dello zio PESCE Antonino cl. 53, precedente capo indiscusso del gruppo; ha descritto l’ascesa al potere del pericoloso cugino PESCE Francesco cl. 78, sottrattosi al provvedimento coercitivo del 28.4.2010 e tuttora latitante; ha dettagliatamente indicato attività economiche riconducibili alla cosca mafiosa; ha contribuito a fare luce su una serie di omicidi riconducibili alla cosca mafiosa, tra cui quello di PESCE Annunziata – secondo quanto riferito dalla collaboratrice – uccisa dallo zio boss PESCE Antonino cl. 53 e dai fratelli Antonino e Rocco, detti “i sardignoli”, a causa di una relazione extraconiugale con un appartenente alle Forze dell’Ordine.

Il ruolo svolto da PESCE Giuseppina all’interno della potente cosca mafiosa e lo stretto legame di sangue che la lega ai sodali  hanno reso il contributo da lei fornito estremamente significativo, nell’ambito di una realtà criminale difficilmente penetrabile e poco permeabile a fenomeni collaborativi.

Quanto riferito da Giuseppina PESCE ha trovato importantissime conferme negli esiti di attività di investigazione autonomamente svolte dai Carabinieri e nell’attività di riscontro prontamente avviata, che ha consentito tra l’altro il rinvenimento di ben 3 bunker, di cui uno all’interno dell’abitazione del latitante PESCE Francesco cl. 78.

Le due donne arrestate dai Carabinieri a Milano sono state immediatamente tradotte a Reggio Calabria, dove nei prossimi giorni verrà celebrata l’udienza preliminare che le vede imputate insieme ad altri 74 affiliati alla cosca PESCE (cd. procedimento ALL INSIDE), per i quali la DDA reggina ha chiesto il rinvio a giudizio.

 

ORDINANZA DI CUSTODIA CAUTELARE IN CARCERE
– ARTT. 291 E SEGG. C.P.P. –

Il giudice per le indagini preliminari, dott. VINCENZO PEDONE,

Letti gli atti del procedimento indicato in epigrafe nei confronti di:

1) Ferraro Angela, nata a Taurianova il 14.09.1963
Difesa di fiducia dall’avv. Giunta Gianfranco foro Reggio Calabria

2) Pesce Marina, nata a Cinquefrondi (RC) il 13/10/1982
Difeso di fiducia dall’avv.  Giunta Gianfranco del foro di Reggio Calabria

INDAGATE

A) del reato p. e p. dall’art. 416 bis – commi I, II, III, IV, V e VI – c.p., per aver preso parte, con i ruoli e le funzioni di seguito specificati, nell’ambito della associazione di tipo mafioso denominata ‘ndrangheta, operante sul territorio della provincia di Reggio Calabria, del territorio nazionale ed estero costituita da molte decine di locali, articolate in tre mandamenti e con organo di vertice denominato “Provincia”, alla cosca Pesce, operante in Rosarno, zone limitrofe e Milano, a sua volta inserita nel territorio compreso nella fascia tirrenica della provincia reggina, contribuendo alla realizzazione degli scopi del sodalizio, attraverso la forza di intimidazione promanante dal vincolo associativo e le conseguenti condizioni di assoggettamento ed omertà che ne derivavano, con la commissione di delitti contro il patrimonio e grazie anche alla ampia disponibilità di armi; scopi, in particolare, diretti:

– al controllo delle attività economiche, anche attraverso la gestione di interi settori imprenditoriali e commerciali finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto, o il profitto di delitti;
– al conseguimento, infine, per sé e per gli altri affiliati di ulteriori profitti e vantaggi ingiusti, attraverso attività delittuose, quali omicidi, estorsioni, rapine, sistematicamente esercitate ai danni di imprenditori privati.

PESCE Antonino, PESCE Francesco cl.78, PESCE Giuseppe cl.54, in qualità di organizzatori, capi e promotori, con compiti di decisione, pianificazione e di individuazione delle azioni da compiere, degli obiettivi da perseguire, delle attività economiche da avviare e attraverso cui riciclare il denaro e le altre utilità provento delle dette azioni delittuose, in riferimento all’intera organizzazione criminale;

PESCE Rocco cl.57, quale promotore ed organizzatore, con compiti decisionali e pianificatori  dell’attività illecita del sodalizio mafioso, anche in relazione alla gestione del patrimonio accumulato attraverso le attività illecite del sodalizio, relazionandosi sul punto direttamente con il fratello Antonino, affinché quest’ultimo, per il tramite del figlio Francesco, portasse a termine gli obiettivi criminali della cosca;

Pesce Vincenzo cl. 59, quale promotore ed organizzatore del gruppo, con compiti di decisione, pianificazione e di individuazione delle azioni estorsive ed omicidiarie da compiere nell’interesse dell’intera organizzazione criminale;

PESCE Marcello cl.64, quale promotore ed organizzatore del sodalizio, per aver svolto un rilevante ruolo di intermediazione, nell’ambito dell’incontro tra i vertici delle famiglie mafiose Bellocco e Pesce, al fine di redimere la faida nata in seguito all’omicidio Sabatino, oltre a compiti decisionali ed organizzativi nell’ambito della attività di traffico di stupefacenti e di reinvestimento dei profitti accumulati dalla cosca;

Pesce Salvatore quale promotore ed organizzatore del gruppo, con compiti di decisione, pianificazione e di individuazione delle azioni estorsive da compiere, nonché delle attività economiche da avviare e attraverso cui riciclare il denaro e le altre utilità provento delle dette azioni delittuose, in riferimento all’intera organizzazione criminale;

Ferraro Giuseppe e Ferraro Mario: il primo quale punto di riferimento, con funzioni di capo e promotore del gruppo (comprendente Moubarakchina Elvira, Petullà Alberto, Lucia Claudio, Odierna Yuri, Bassolamento Marco), sul territorio della città di Milano, il secondo, quale capo e promotore del gruppo sul territorio calabrese, entrambi stabilmente dediti alla cura degli affari illeciti della cosca “Pesce”, con compiti di pianificazione, organizzazione ed esecuzione delle attività estorsive e del traffico di sostanze stupefacenti.  

PESCE Giuseppe cl. 80, GIOVINAZZO Rocco  
in qualità di partecipi, per avere collaborato direttamente e personalmente al finanziamento dell’organizzazione, attraverso il delitto di riciclaggio, grazie a condotte finalizzate ad occultare la illecita provenienza del denaro, attraverso l’investimento in attività commerciali ed imprenditoriali;

RAO Franco, detto “U Puffo” o “il nano”, RAO Rocco;
in qualità di partecipi, per avere collaborato direttamente e personalmente al finanziamento dell’organizzazione, attraverso il delitto di riciclaggio, in quanto, stabilmente dediti alla ricezione di assegni bancari provento delle attività estorsive ed al deposito su C/C relativi alle loro attività commerciali, restituendo denaro contante o altri assegni bancari, in modo da ostacolare l’identificazione della loro provenienza delittuosa;  

MATALONE Roberto, PESCE Francesco, classe 1979  
per avere svolto, in qualità di partecipi, un ruolo di collegamento e trasferimento di comunicazioni ed ordini tra il detenuto Pesce Antonino, classe 1953 e gli altri associati; in particolare, per Matalone Roberto anche contribuendo al reinvestimento dei capitali illeciti del gruppo criminale; per Pesce Francesco, classe 1979, con riferimento alle comunicazioni con il padre Pesce Giuseppe, detto “Pecora”, nonché per lo svolgimento delle attività mafiose da quest’ultimo direttamene comandategli.

PESCE Maria Grazia, STANGANELLI Maria, per avere svolto, in qualità di partecipi, un ruolo di collegamento e trasferimento di comunicazioni ed ordini tra il detenuto Pesce Francesco, classe 1978 e gli altri associati; in particolare, per avere svolto il ruolo di intermediarie circa le specifiche disposizioni date da PESCE Francesco sui i destinatari e le modalità di ogni singola attività estorsiva.

PESCE Giuseppina, PESCE Marina
per avere svolto, in qualità di partecipi, un ruolo di collegamento e trasferimento di comunicazioni ed ordini tra il padre detenuto Pesce Salvatore e gli altri associati; in particolare, per avere svolto il ruolo di intermediarie circa le specifiche disposizioni date da PESCE Salvatore sui i destinatari e le modalità delle attività estorsive, nonché per avere partecipato all’attività di intestazione fittizia di beni e reimpiego dei capitali illeciti del gruppo criminale.  

FERRARO Angela cl. 63  
per avere svolto, in qualità di partecipe, un ruolo di collegamento tra il marito detenuto Pesce Salvatore e gli altri membri del clan, sia detenuti (ad es. il fratello Ferraro Giuseppe), che in libertà.

MESSINA Maria Grazia cl. 42;
per avere svolto, in qualità di partecipe, il ruolo di cassiera, con riferimento al denaro contante ed agli assegni, provento dell’attività illiceità del gruppo immediatamente riferibile a Pesce Antonino e Pesce Francesco, classe 1978.

VARRÀ Domenico cl.54
per avere esercitato, in qualità di partecipe, un ruolo preminente nella cura dei rapporti con i legali del clan, nonché nella mediazione interna alla associazione tra le varie articolazioni della cosca.

ARENA Domenico cl.54, ARENA Antonio cl. 65
per avere svolto, in qualità di partecipi, il ruolo di intestatari fittizi o, comunque, di soggetti attraverso le cui imprese Pesce Vincenzo conseguiva i benefici patrimoniali dell’attività di imposizione dei mezzi di trasporto e attraverso cui la CE.DI. SISA S.p.A. svolgeva le attività di logistica;

TIRINTINO Antonino, nato a Rosarno (RC) il 16.7.1959
per avere svolto, in qualità di partecipe, il ruolo di intestatario fittizio o, comunque, di intermediario nell’attività di intestazione fittizia di beni ed attività economiche facenti capo a PESCE Salvatore, volta al reimpiego di capitali illeciti del gruppo criminale;  

SIBIO Domenico, cl.78
per avere svolto, in qualità di partecipe, il ruolo di sovrintendente e controllore, per conto di Pesce Francesco, classe 1978, delle modalità operative connesse alla gestione dei mezzi di trasporto, con cui la CE.DI. SISA S.p.A. svolgeva le attività di logistica;

DI MARTE Francesco, DI MARTE Giuseppe e LEOTTA Domenico:
per aver svolto, in qualità di partecipi, un rilevante ruolo di intermediazione, partecipando all’incontro tra i vertici delle famiglie mafiose Bellocco e Pesce, al fine di redimere la faida nata in seguito all’omicidio Sabatino, oltre che funzioni operative nel settore del traffico di sostanze stupefacenti e delle estorsioni.

FILARDO Giuseppe “Fifio”  
per aver svolto, in qualità di partecipe, funzioni operative nel settore del traffico di sostanze stupefacenti e nella gestione di un’emittente radio riconducibile a Pesce Salvatore, utilizzata per comunicare messaggi dall’esterno ai detenuti.

PESCE Vincenzo cl.86, PESCE Francesco cl. 78, PESCE Francesco cl. 84, PESCE Vincenzo  cl. 86, D’AGOSTINO Francesco, PALAIA Rocco, FORTUGNO Andrea, FORTUGNO Domenico:
per aver svolto, in qualità di partecipi, funzioni operative, nell’approvvigionamento e detenzione di armi, esecuzione di rapine ai danni di imprenditori, atti intimidatori nei confronti di esercenti attività commerciali.

CONSIGLIO Salvatore, GIOVINAZZO Francesco, PESCE Francesco cl. 84, PESCE Francesco cl.87, PESCE Rocco cl. 84, ZANGARI Antonio:
per aver svolto, in qualità di partecipi, funzioni operative nel settore degli omicidi per conto del sodalizio criminale.

MOUBARAKCHINA Elvira, PETULLÀ Alberto, LUCIA Claudio, ODIERNA Yuri, BASSOLAMENTO Marco
per avere svolto il ruolo di partecipi del gruppo che faceva riferimento a Ferraro Giuseppe, agendo per il controllo di ampi spazi del territorio milanese e lo sviluppo in quella zona delle attività delittuose del gruppo.

In Rosarno, Milano ed altri luoghi con condotta accertata sino ad almeno il 28 aprile 2010 e tuttora perdurante

PESCE Salvatore, PESCE Francesco (cl. 1984), Ferraro Angela, PESCE Giuseppina, PESCE Marina, Palaia Rocco, PESCE Vincenzo, cl. 86

12) reato p. e p. dagli artt. 110, 81 cpv., c.p.,  12 quinquies D. L. n. 306/92, 7 D.L. n. 152/91, perché agendo in concorso tra loro, con più atti esecutivi di un medesimo disegno criminoso, Pesce Francesco e Pesce Salvatore intestavano la titolarità di più mezzi di autotrasporti alla Trivel Sud di Armeli Signorino, al fine eludere le disposizioni di legge che consentono il sequestro e la confisca dei beni in materia di misura di prevenzione, ovvero, per agevolare il riciclaggio dei proventi dell’attività di narcotraffico, estorsione ed altri delitti contro il patrimonio, a cui Pesce Salvatore e Pesce Francesco erano dediti.
Fatti aggravati, in quanto consumati avvalendosi delle condizioni di associati mafiosi di Pesce Salvatore e Pesce Francesco ed anche al fine di agevolare l’attività dell’associazione di appartenenza.
Commesso in Rosarno (RC) sino al febbraio 2007.

PESCE Salvatore, PESCE Francesco (cl. 1984), Ferraro Angela, PESCE Giuseppina, PESCE Marina, Palaia Rocco,  PESCE Vincenzo, cl. 86
13) reato p. e p. dall’art. 110, 81, 629 2° comma in relazione all’art. 628 3° comma n. 3 c.p., 7 D. L. n. 152/91, perché, in concorso tra loro ed in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, mediante violenza e minaccia, costringevano Armeli Signorino, titolare della impresa di trasporti “Trivel Sud”, a versare loro, mensilmente, una somma di denaro compresa tra € 800 ed €1000, procurandosi così un ingiusto profitto con altrui danno.
Fatti aggravati in quanto consumati avvalendosi della condizione di associati mafiosi e da soggetti appartenenti ad una cosca mafiosa.
Commesso in Rosarno nel periodo compreso tra i mesi di ottobre 2006 e febbraio 2007

19) PESCE Salvatore, PESCE Giuseppina, PESCE Marina, Paterna Erminda (per cui si procede separatamente)
reato p. e  p. dagli artt. 110 c.p. e  12 quinquies D. L. n. 306/92, 7 D. L. n. 152/91, perché Pesce Salvatore, Pesce Giuseppina e Pesce Marina attribuivano fittiziamente a Paterna Erminda la titolarità dell’attività di commercio al dettaglio di prodotti alimentari, con insegna “Market Alimentare”, operante in una unità locale sita in Rosarno alla via Maria Zita n. 14, che in realtà veniva gestiva direttamente da Pesce Salvatore o, per il tramite dei suoi familiari, tra cui Pesce Giuseppina e Pesce Marina, impiegate presso il suddetto esercizio commerciale. Condotta posta in essere al fine eludere le disposizioni di legge che consentono il sequestro e la confisca dei beni, in materia di misura di prevenzione ovvero per agevolare il riciclaggio dei proventi dell’attività di narcotraffico a cui il Pesce era dedito.
Fatti aggravati, in quanto consumati avvalendosi delle condizioni di associati mafiosi di Pesce Salvatore ed anche al fine di agevolare l’attività dell’associazione di appartenenza.
Fatti accertati in Rosarno il 13 aprile 2006.

20) PESCE Salvatore, PESCE Francesco (cl. 84), PESCE Giuseppina, PESCE Marina
reato p. e p. dagli artt. 110 c.p.,  12 quinquies D. L. n. 306/92, 7 D.L. n. 152/91, perché, in concorso tra loro, Pesce Salvatore attribuiva fittiziamente a Pesce Francesco – Pesce Giuseppina – Pesce Marina la titolarità dell’attività commerciale, avente ad oggetto la vendita al dettaglio di abbigliamento, calzature e pelletterie, denominata “EXCLUSIVE” di PESCE Marina & C., S.n.c., operante in Rosarno (RC), via Empoli n. 1, che in realtà egli gestiva direttamente o per il tramite dei citati familiari. Condotta posta in essere al fine eludere le disposizioni di legge che consentono il sequestro e la confisca dei beni, in materia di misura di prevenzione ovvero per agevolare il riciclaggio dei proventi dell’attività di narcotraffico, estorsione ed altri delitti contro il patrimonio a cui Pesce Salvatore e Pesce Francesco erano dediti, per come descritto nei restanti capi di imputazione.
Fatti aggravati, in quanto consumati avvalendosi delle condizioni di associati mafiosi di Pesce Salvatore e Pesce Francesco ed anche al fine di agevolare l’attività dell’associazione di appartenenza.
Commesso in Rosarno (RC) nel periodo marzo 2003/novembre 2004.

*****
I GRAVI INDIZI DI COLPEVOLEZZA
Prima di vagliare il vasto e articolato materiale indiziario posto a fondamento della richiesta custodiale avanzata nei confronti di Ferraro Angela e Pesce Marina, appare utile richiamare alcuni principi di diritto che attengono alla valutazione:
–    degli indizi che, a mente dell’art. 273 c.p.p., legittimano, per la loro gravità, l’emissione del titolo custodiale;
–    della c.d. chiamata di correo
–    delle intercettazioni telefoniche ed ambientali.
A tal proposito, si osserva che in tema di prove, l’art. 192 c.p.p. disciplina innanzi tutto (comma primo) l’utilizzazione della “prova”, intendendo per tale una circostanza di per sé idonea a dimostrare una situazione o una circostanza che il giudice “valuta”, riconoscendole o negandole attendibilità. Considera poi gli “indizi” (comma secondo) stabilendo che se gravi, precisi e concordanti, sono idonei a far “desumere” l’esistenza di un fatto e perciò assumono valore di prova. Infine regola l’utilizzazione degli “elementi di prova” (comma terzo) condizionandone il valore probatorio al riscontro esterno e, quindi, considerandoli di per sé non attendibili, a meno che non siano confermati, sia pure indirettamente, da altro elemento di prova; in particolare, dall’espressione “altri elementi di prova” si deduce che il legislatore considera la dichiarazione del correo “elemento di prova” e che l’elemento di conferma è della stessa specie, cioè bisognoso di riscontro esterno (Cass. sez. I, 03-08-1993, n. 7561, Boccolato).
Tanto premesso, si ritiene di poter condividere, per linee generali, quell’orientamento giurisprudenziale secondo cui “indizio rilevante è quello che consente di far derivare al giudicante, con apprezzabile grado di verosimiglianza, l’esistenza della condotta criminosa in contestazione.”
Il rilievo di tale indizio si manifesta con maggior efficacia ove sia tale da consentire di escludere la possibilità di interpretazioni alternative idonee ad assorbire la rilevanza penale delle condotte ascrivibili all’indagato.
Giova far presente altresì che l’indizio che rileva in materia cautelare non deve essere inteso come concetto contrapposto a quello di prova diretta, bensì, per giurisprudenza ormai pacifica, che si ritiene di dover condividere in questa sede, esso deve consistere in qualsiasi elemento di qualunque genere acquisito al giudizio e che diventerà prova: è un elemento di investigazione in proiezione probatoria, mancante della verifica probatoria, ma tuttavia tale “da far presumere, allo stato degli atti, con qualificata probabilità, che il reato sia stato effettivamente commesso e che di esso si sia resa colpevole proprio la persona nei cui confronti si procede” (cfr. per tutte Sez.1, n. 255, 30.5.91, Birra) o, secondo l’orientamento delle Sezioni Unite (S.U. 21.4.95), come elemento a carico dell’indagato, di natura logica o rappresentativa, che, contenendo in nuce tutti o soltanto alcuni degli elementi strutturali della corrispondente prova, non valga di per sé a provare oltre ogni altro dubbio la responsabilità dell’indagato, ma tuttavia consenta, per la sua consistenza, di prevedere che, attraverso la futura acquisizione di ulteriori elementi, sarà idoneo a dimostrare tale responsabilità.
Deriva da tali orientamenti che il giudizio che si richiede in sede cautelare discende dal complesso dei singoli elementi indizianti che devono convergere al punto tale da pervenire ad un giudizio di natura probabilistica a carico dell’indagato, e non di certezza, essendo questo riservato solo al vaglio dibattimentale, interpretandosi la gravità come capacità di resistere ad interpretazioni alternative, richiedendosi altresì oltre ad essa anche la conferenza all’oggetto del giudizio, nel senso che l’indizio grave deve essere direttamente proporzionale al grado di congruità e conferenza all’individuazione della responsabilità dell’indagato.
Quel che pacificamente può affermarsi è che non si richieda in sede cautelare anche il requisito della certezza, della precisione e della concordanza, tutti parametri che il legislatore riserva per la valutazione dibattimentale: elevata probabilità e non certezza che la persona incolpata e non altri sia l’autore del fatto; non precisione, perché è possibile attribuire rilievo anche a quei dati certi dai quali attraverso massime di esperienze si perviene a dati incerti inerenti non il fatto principale ma elementi di contorno; non concordanza, che vuol dire l’ammissibilità dell’emissione della misura anche in presenza di indizi contraddetti da altri purché i primi siano definibili gravi (Sez. 1, n. 2728 del 08/06/1993, Moccia; Sez. 6, n. 1540 del 21/05/1993, Forte ed altro).
Sulla base di tali indicazioni e limitazioni, l’indizio che rileva, quello che può essere definito “grave”, continua ad essere quello che si sostanzia in un’alta probabilità della esistenza del reato e della sua attribuibilità all’indagato, e non anche quello dotato di precisione e concordanza.
Sulla definizione di indizio grave le Sezioni Unite della Cassazione si sono espresse nei seguenti termini: “In tema di misure cautelari personali, per gravi indizi di colpevolezza ai sensi dell’art. 273 c.p.p. devono intendersi tutti quegli elementi a carico, di natura logica o rappresentativa, che -contenendo in nuce tutti o soltanto alcuni degli elementi strutturali della corrispondente prova – non valgono di per sé, a provare oltre ogni dubbio, la responsabilità dell’indagato e tuttavia consentono, per la loro consistenza, di prevedere che attraverso la futura acquisizione di ulteriori elementi, saranno idonei a dimostrare tale responsabilità, fondando nel frattempo una qualificata probabilità di colpevolezza” (Sez. Un. 21.4.95, Costantino, 10.3.99).
Su tali osservazioni vanno ad innestarsi considerazioni ulteriori che discendono dall’intervento legislativo operato di recente in materia cautelare, che determina una nuova lettura dell’art. 273 c.p.p., imponendosi il coordinamento della norma con l’art. 192, commi 3 e 4 (per cui le dichiarazioni del coimputato o dell’imputato in procedimento connesso esigono sempre un riscontro estrinseco che ne confermi l’attendibilità), con l’art. 195, comma 7, (ne consegue l’inutilizzabilità di quanto assunto con riferimento a fonte de relato  ignota), con l’art. 203, comma 1 bis (dunque inutilizzabili le informazioni assunte da confidenti mai interrogati ne assunti a sommarie informazioni) e con l’art. 271 c.p.p. comma 1 (per cui sono inutilizzabili i risultati di intercettazioni irrituali), dovendosi tuttavia mantener fermo il principio secondo cui, a fronte delle limitazioni introdotte, permane, sulla base del silenzio normativo, la differenziazione fra fase cautelare e giudizio grazie al mancato richiamo dell’art. 192, comma 2 c.p.p..
A fronte di tali indicazioni di ordine generale, relative ai parametri entro i quali si deve contenere la valutazione cautelare, occorre in quest’ulteriore fase procedere alla verifica della portata delle prove singolarmente prodotte, e se vi sia rispondenza rispetto ai profili di legittimità previsti dalla normativa processuale.
Il materiale offerto alla valutazione di questo Giudice, frutto di una meticolosa ed efficace attività investigativa svolta dagli inquirenti, è costituito dalla sinergica lettura di diversi elementi probatori che si mutuano dalla proficua attività di captazione delle conversazioni intercorse tra gli allora indagati e i soggetti che, a vario titolo risultano aver avuto un ruolo nella complessa ed articolata vicenda oggetto dell’attività investigativa, dalle attività di osservazione, pedinamento e controllo del territorio da parte della polizia giudiziaria, oltre che da varie fonti dichiarative, ivi comprese le propalazioni della collaboratrice di giustizia Pesce Giuseppina, intranea all’omonimo sodalizio, e documentali che compendiano la prospettazione accusatoria.
*
LA CHIAMATA DI CORREO
Il legislatore indica la regola di giudizio relativa alla chiamata di correo ai commi 3 e 4 dell’art. 192 c.p.p..
Com’è noto in ordine alla valutazione della “chiamata in correità” rlandoRLANDO) ha da tempo statuito in modo costante che la stessa assume valore di prova diretta contro l’accusato in presenza di tre requisiti consistenti:
a) nella credibilità del dichiarante valutata in base a dati e circostanze attinenti direttamente alla sua persona, quali il carattere, il temperamento, la vita anteatta, i rapporti con l’accusato, la genesi ed i motivi della chiamata di correo;
b) nell’attendibilità intrinseca della chiamata di correo desunta da dati specifici interni ad essa quali la spontaneità, l’immediatezza, la reiterazione senza contraddizioni, la costanza nel tempo (senza ritrattazioni), la verosimiglianza, la logicità, la precisione, la completezza della narrazione, l’univocità;
c) nell’esistenza di riscontri esterni, che confermino l’attendibilità della chiamata di correo già scrutinata come intrinsecamente attendibile intrinseca (principio questo ricavabile dalla stessa lettera del comma 3 dell’art. 192, che parla di “conferma dell’attendibilità delle dichiarazioni” e non del dichiarante).
Quanto ai riscontri la stessa giurisprudenza ha richiesto che gli stessi:
– debbano essere certi,
– non debbano necessariamente riguardare direttamente il “thema probandum”, ovvero la prova in sé della colpevolezza dell’imputato, altrimenti costituirebbero prove autonome della colpevolezza;
– debbano avere carattere “individualizzante” nel senso che non possono limitarsi a confermare le modalità obiettive del fatto descritte dal chiamante, ma devono riguardare in modo specifico la posizione soggettiva del chiamato in relazione ai singoli fatti delittuosi a lui addebitati;
– possano avere qualunque natura sia rappresentativa che logica e possono essere costituiti anche da altra chiamata di correo, purché le due chiamate siano:
– convergenti in ordine al fatto materiale oggetto della narrazione;
– indipendenti, nel senso che non devono derivare da pregresse intese fraudolente od anche solo da suggestioni o condizionamenti che potrebbero inficiarne il valore della concordanza;
– specifiche, nel senso che la c.d. “convergenza del molteplice” deve essere sufficientemente individualizzante, ossia le varie dichiarazioni pur non necessariamente sovrapponibili devono confluire su fatti che riguardano direttamente sia la persona dell’incolpato sia le imputazioni a lui attribuite (Sez. 2, 30.04.99, Cataldo).
Tale regola ermeneutica, originariamente fissata solo per il giudizio di merito, opera oggi anche in sede cautelare per effetto della legge n. 63 dell’1.03.2001 il cui art. 11 ha inserito nell’art. 273 c.p.p. il comma 1 bis contenente la seguente norma: “Nella valutazione dei gravi indizi di colpevolezza si applicano le disposizioni degli artt. 192 commi 3 e 4…”.
Nell’interpretazione di questa norma si sono registrati oscillanti orientamenti giurisprudenziali che hanno trovato soluzione nella decisione delle Sezioni Unite secondo cui “in tema di valutazione della chiamata in reità o correità in sede cautelare, le dichiarazioni accusatorie rese dal coindagato o coimputato nel medesimo reato o da persona indagata od imputata in un procedimento connesso o collegato, integrano i gravi indizi di colpevolezza di cui all’art. 273 comma 1 c.p.p., in virtù dell’estensione applicativa dell’art. 192 commi 3 e 4 ad opera dell’art. 273 comma 1-bis c.p.p. soltanto se esse, oltre ad essere intrinsecamente attendibili, risultino corroborate da riscontri estrinseci individualizzanti, tali cioè da assumere idoneità dimostrativa in ordine all’attribuzione del fatto-reato al soggetto destinatario di esse, ferma restando la diversità dell’oggetto della delibazione cautelare, preordinata ad un giudizio prognostico in termini di ragionevole ed alta probabilità di colpevolezza del chiamato, rispetto a quella di merito, orientata invece all’acquisizione della certezza processuale in ordine alla colpevolezza del chiamato, rispetto a quella di merito, orientata invece all’acquisizione  della  certezza   processuale  in  ordine alla colpevolezza dell’imputato” (Sez. Un. n. 36267 del 30.05.2006, P.G. in proc. Spennato).
Tale ultimo orientamento appare senz’altro preferibile, essendo del tutto evidente che il legislatore nell’introdurre questa modifica normativa ed avendo ben presenti i diversi criteri usati dalla Giurisprudenza in ordine alla valutazione della “chiamata in correità” a seconda che si trattasse del piano cautelare o di quello del giudizio di merito, ha perseguito lo scopo di omologare per quanto possibile la valutazione della chiamata in correità in sede cautelare ed in sede di giudizio di merito.
*
LE INTERCETTAZIONI

Rispetto al rilevante materiale d’indagine, al fine di individuarne la valenza probatoria, vanno affrontate e risolte le ricorrenti questioni relative all’identificazione dei conversanti e alla interpretazione e valutazione delle conversazioni intercettate.
Sotto questo profilo, dovendosi condividere i criteri ermeneuti rispettosi della giurisprudenza di legittimità formatasi al riguardo, è sufficiente osservare che non solo l’identificazione dei conversanti appare assolutamente certa, ma che altrettanto conducente appare la valutazione probatoria attribuita ai dialoghi captati.
Quanto alla valenza probatoria delle conversazioni captate va premesso che, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale “il contenuto di un’intercettazione, anche quando si risolva in una precisa accusa in danno di terza persona, indicata come concorrente in un reato alla cui consumazione anche uno degli interlocutori dichiara di avere partecipato, non è in alcun senso equiparabile alla chiamata in correità e, pertanto, se va anch’esso attentamente interpretato sul piano logico e valutato su quello probatorio, non va però soggetto, nella predetta valutazione, ai canoni di cui all’art. 192, comma 3, c.p.p.” (Sez. 5, n. 13614 del 19.01.2001, Primerano; n. 38413 del 9.10.2003, Alvaro ed altri; n. 603 del 13.01.2004, Grande Aracri; Sez. 1, n. 1683 del 21.01.2004, Barillà ed altri).   
Ne deriva che, se per un verso si deve ritenere che nella valutazione delle affermazioni intercettate non si applichi la regola di giudizio di cui all’art. 192, comma 3, c.p.p. (che richiede la sussistenza di “altri elementi di prova che ne confermino l’attendibilità”), per altro verso si deve comunque riconoscere che anche nei confronti delle intercettazioni si pone un problema di “esatta comprensione” e di “credibilità” delle affermazioni fatte dai conversanti.
Sotto il profilo dell’esatta comprensione la Suprema Corte ha affermato, con riferimento ai risultati delle intercettazioni di comunicazioni, che “il giudice di merito deve accertare che il significato delle conversazioni intercettate sia connotato dai caratteri di chiarezza, decifrabilità dei significati, assenza di ambiguità, di modo che la ricostruzione del significato delle conversazioni non lasci margini di dubbio sul significato complessivo della conversazione. In questo caso ben può il giudice di merito fondare la sua decisione sul contenuto di tali conversazioni.
Se invece la conversazione captata non è connotata da queste caratteristiche – per l’incompletezza dei colloqui registrati, per la cattiva qualità dell’intercettazione, per la cripticità del linguaggio usato dagli interlocutori, per la non sicura decifrabilità del contenuto o per altre ragioni – non per questo si ha un’automatica trasformazione da prova ad indizio, ma è il risultato della prova, che diviene meno certo con la conseguente necessità di elementi di conferma che possano eliminare i ragionevoli dubbi esistenti. E, quindi, in definitiva, i criteri di valutazione della prova divengono quelli della prova indiziaria” (Sez. 4, n. 21726 del 07.05.2004, Spadaro ed altri).
A tal proposito la Corte regolatrice ha affermato che “gli indizi raccolti nel corso delle intercettazioni telefoniche possono costituire fonte diretta di prova della colpevolezza dell’imputato e non devono necessariamente trovare riscontro in altri elementi esterni, qualora siano:
– gravi, cioè consistenti e resistenti alle obiezioni e quindi attendibili e convincenti;
– precisi e non equivoci, cioè non generici e non suscettibili di diversa interpretazione altrettanto verosimile;
– concordanti, cioè non contrastanti tra loro e, più ancora, con altri dati od elementi certi…” (Sez. 4, n. 22391 del 21.05.2003, Qehalliu Luan).  
Sotto il diverso, quanto rilevante, profilo della “credibilità” delle affermazioni intercettate e, quindi, della loro valenza probatoria la giurisprudenza di legittimità distingue tre tipi d’intercettazione: quelle totalmente auto-accusatorie, quelle parzialmente auto-accusatorie e quelle totalmente etero-accusatorie.
Le intercettazioni auto-accusatorie sono tali in quanto è lo stesso conversante che esplicitamente od implicitamente accusa sé stesso di aver commesso un dato reato, sicché le affermazioni pronunciate dall’imputato o dall’indagato “contra sé” equivalgono ad una sorta di confessione extragiudiziale e, pertanto, “hanno integrale valenza probatoria” (Sez. 6, n. 27656 del 09.07.2001, CORSO G. ed altri).
La Suprema Corte, a proposito della valenza probatoria di tali intercettazioni auto-accusatorie, ha altresì sottolineato che “in materia di intercettazioni telefoniche non trovano applicazione gli artt. 62 e 63 c.p.p., in quanto le ammissioni di circostanze indizianti, fatte spontaneamente dall’indagato nel corso di una conversazione telefonica, la cui intercettazione sia stata ritualmente autorizzata, non sono assimilabili alle dichiarazioni da lui rese del corso dell’interrogatorio dinanzi all’Autorità giudiziaria od a quello di polizia giudiziaria, né le registrazioni ed i verbali delle conversazioni telefoniche sono riconducibili alle testimonianze de relato sulle dichiarazioni dell’indagato, in quanto integrano la riproduzione fonica o scritta delle dichiarazioni stesse di cui rendono in modo immediato e senza fraintendimenti il contenuto” (Sez. 6, n. 31739 del 28.07.2003, Corteggiano ed altri).  
Le intercettazioni parzialmente auto-accusatorie sono quelle nel corso delle quali uno dei conversanti accusa sé di avere commesso un dato reato, in concorso con un terzo del tutto estraneo alla conversazione. Tali conversazioni possono, in linea di principio, costituire prova diretta della responsabilità senza bisogno di ulteriori elementi di conferma, ma, essendo coinvolto pur sempre un terzo estraneo alla conversazione, la loro valutazione deve sempre avvenire con particolare rigore.
Infine, le intercettazioni totalmente etero-accusatorie sono quelle nel cui ambito uno od entrambi i conversanti accusano un terzo di avere commesso un determinato reato. In relazione a tali intercettazioni la Corte di Cassazione ha in più occasioni sottolineato che “…nel caso di generiche affermazioni fatte da terze persone nel corso di conversazioni alle quali non è partecipe l’indagato, è necessario che esse trovino riscontro in altri elementi di supporto che integrino con riferimenti specifici la genericità dell’accusa…” (Sez. 1, n. 6234 del 02.11.2000, Zavettieri; n. 6232 del 02.11.2000, Primerano).
Tale più rigoroso criterio ermeneutico è stato ulteriormente precisato, avendo la Suprema Corte ritenuto necessaria la sussistenza di un “…riscontro obiettivo ed estrinseco, in qualche modo verificabile, che consenta di ritenere attendibili le dichiarazioni provenienti da intercettazioni ambientali avvenute tra persone diverse dall’indagato…” (Sez. 2, n. 34423 del 16.03.2001, Libri).
Avuto da ultimo riguardo al profilo della “comprensione” del contenuto delle conversazioni captate, e, quindi, del livello di rigore occorrente per la loro valutazione, va rilevato che, vertendosi di regola in tema intercettazioni ambientali, le stesse appaiono del tutto chiare e credibili a cagione della loro spontaneità, essendo avvenute tra soggetti ignari di essere intercettati, sicché deve escludersi che i dialoghi captati siano mendaci ovvero frutto di millanteria, atteso che risultano provenire proprio dagli indagati e cioè da fonti conoscitive dirette delle vicende delittuose in esame.
Può quindi affermarsi, in relazione alla credibilità e valenza probatoria delle conversazioni intercettate, che nel caso di specie la prova dei gravi indizi di colpevolezza nei confronti degli indagati ben può essere tratta direttamente dalle dichiarazioni auto ed etero-accusatorie provenienti dai medesimi conversanti.
Alla stregua di tali premesse ermeneutiche, appare opportuno occuparsi delle condotte ascritte agli indagati, analiticamente riepilogate nell’articolata richiesta dei Pubblici Ministeri alla quale appare opportuno, per ragioni di sintesi e di economia processuale, fare espresso rinvio per relationem – essendo ciò consentito dalla costante giurisprudenza  di legittimità – fermo restando l’autonoma valutazione da parte di questo giudice del materiale probatorio in esame.
§

LA RICHIESTA CAUTELARE

Avuto riguardo ai gravi indizi di colpevolezza, che costituiscono il primo presupposto da valutare ai fini dell’applicazione della richiesta custodiale, osservano i requirenti quanto segue:
Premesso che, con provvedimento, in data 26 aprile 2010, qui da intendersi integralmente riportato, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Calabria – Direzione Premesso che, con provvedimento, in data 26 aprile 2010, qui da intendersi integralmente riportato, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Calabria – Direzione Distrettuale Antimafia  ha disposto il fermo nei confronti di 40 persone, tra cui FERRARO Angela e PESCE Marina, per il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, in quanto fortemente indiziati di appartenere alla potente ndrina  PESCE di Rosarno, nonché per una serie di gravi reati fine.
Il predetto provvedimento di fermo è stato eseguito nella giornata del 28 aprile 2010, per FERRARO Angela e PESCE Marina, in territorio ricompreso nel circondario del Tribunale di Milano.

Il Gip presso il Tribunale di Milano, con provvedimento emesso in data 1 maggio 2010, non ha convalidato il fermo e, pur confermando la gravità indiziaria anche per il reato di cui all’art. 416 bis c.p. nei confronti delle indagate sopra indicate, ha respinto la richiesta di misura cautelare per insussistenza delle esigenze cautelari.

Si riporta, di seguito testualmente, l’ordinanza del G.i.p. presso il Tribunale di Milano sul punto:

“Ferraro Angela e Pesce Marina sono rispettivamente moglie, madre e sorella, la prima, e figlia sorella e nipote, la seconda, di altri indagati detenuti (Pesce Salvatore, Pesce Francesco, Ferraro Giuseppe).
Proseguono nella gestione del patrimonio familiare in assenza degli uomini, su direttive che questi impartiscono dal carcere, indicando da chi andare a riscuotere il “pizzo”, quali relazioni tenere con altri soggetti appartenenti a bande criminali copresenti sul territorio, disponendo intestazioni fittizie di attività commerciali; discutono anche con gli uomini delle politiche da adottare in caso di contrasti con altri gruppi (v. ad esempio, l’episodio di Ferraro Rosa, pag. 32 e ss. del decreto di fermo; il contrasto con gli Ascone, in relazione all’omicidio di Mimmo Sabatino, pag. 37 e ss. del fermo; la questione Pompei, pagg. 62 e ss. del decreto, etc).
Si vede dagli atti come le donne della famiglia, che per ragioni culturali probabilmente non verrebbero portate a parte delle questioni rilevanti per il clan, solitamente decise dagli uomini, verificandosi per converso lo stato detentivo di tutti i maschi adulti (rispetto a Ferraro Angela il marito, il figlio, il fratello, rispetto a Marina il padre, il fratello, lo zio) prendono parte attiva nella gestione degli affari del gruppo, con maggiore (Angela) o minore autonomia (Marina).

Nel decreto di fermo FERRARO Angela viene indicata come soggetto rivelatosi prezioso elemento di collegamento tra il marito detenuto Pesce Salvatore e gli altri membri del clan, sia detenuti (ad es. il fratello Ferraro Giuseppe) che in libertà.
L’attività di indagine ha consentito di disvelare la sua diretta conoscenza di tutte le vicende chiave in cui si è manifestata l’esistenza dell’organizzazione criminale denominata “Clan Pesce”. Ma la sua condotta non è stata meramente passiva, atteso come sulla base di quelle conoscenze e della conseguente intraneità all’associazione, la donna si è mossa per dare concreto apporto alle esigenze della stessa, fornendo così un attivo contributo alla vita dell’associazione. A tale proposito, si riportano di seguito alcuni brevi, significativi passaggi delle risultanze investigative tratte dall’informativa della Polizia penitenziaria – N.I.C. Roma – n. 1983 dell’11.06.2007, alla quale si rimanda.

Colloquio detenuto PESCE Salvatore del 10 giugno 2006

Dalle ore 11:17:14”
Salvatore:     Allora, tu mi devi fare questa cortesia.
Angela:     Che non la paghiamo, però, cazzo. Li ha denunciati a tutti…
Salvatore:     Chi la paga? La facciamo investire. Allora, fammi questa cortesia, Angela, chiama tuo zio, gli devi dire: “ Ha detto mio marito che lui a tua nipote non l’ha messa da nessuna parte, che è stata tua nipote che ha voluto mettersi, che tua nipote voleva 10.000 euro se io facevo qualche truffa. Io truffe non ne ho fatte (incompr.). Mio marito ha potuto peccare un po’ d’ingenuità, che non aveva capito di che pasta era fatta”. Poi: “ Ha detto mio marito, se siete capaci di risolvere questo problema, che lo risolviate; per il rispetto che vi porta, lo dice a voi, ma ha detto mio marito che se in caso torna a casa mia lei, il provvedimento lo prende mio marito. Se poi volete litigare, se poi i FERRARO volete litigare, è disposto pure a litigare”. Poi gli devi dire: “Che se a loro non gli interessa, che se la vede lui, e che se in caso sa mio marito che arriva davanti a casa mia a spaventargli la figlia, o qualcuno… che prima prende lei, e poi, se c’è qualcun altro che viene dietro, se c’è qualcun altro che prende le difese, che poi…” . ditegli: “Di prendere provvedimenti, che sennò il provvedimento lo prende lui, che lo sapete che in 24 ore lo prende il provvedimento”.
Dalle ore 11:19:06”
Angela:     Sai di cosa si spaventa? Che la accollano a te.
Dalle ore 11:20:01”
Salvatore:     Ditegli che io martedì voglio la risposta. La faccio investire sulla strada. Come attraversa la strada arriva una macchina veloce, e….

Colloquio detenuto FERRARO Giuseppe del 12 ottobre 2006
Dalle ore 11:49:28” alle ore 11:53:06”
Angela:    E’ successa una cosa brutta a Rosarno .. (inc.) .. hanno ammazzato Mimmo Sabatino.
Giuseppe:     Ah, una disgrazia …e dove a Rosarno? …
Angela:      Minchia, no?
Giuseppe:     E che ne sapevo …
Angela:     (inc.) …
Giuseppe:     E che ne sapevo … tra loro?..
Angela:     ASCONE …
Giuseppe:     Come? …
Angela:     Si erano accordati, tutto si, tutto si, tu fa brodo, tutto fa brodo …
Angela:      ASCONE …ASCONE …
Giuseppe:     Eh ?..
Angela a questo punto si alza dalla sedia e si siede vicino al fratello facendo spostare la di lei figlia, avvicinandosi al fratello stesso a distanza ravvicinatissima ed abbassando il tono della voce
OMISSIS …
Angela:    Insieme a Pecora,  che aveva la sorveglianza … da sette mesi era uscito …lui stava andando a casa… dice che quella mattina diluviava a Rosarno … io non c’ero che ero andata a (incomprensibile)  che diluviava … dice che l’ha affrontato una macchina là sotto al  Picchio… dice che si sono messi (inc.) … nel fuoristrada (inc.) .. dice che appena è  sceso dalla macchina quello gli ha sparato tre colpi ravvicinati …
Giuseppe:    I figli di Nino?
Angela:    Mhm …( facendo  cenno di si con la testa)
Giuseppe:    I figli di Nino? … i figli di Nino Ascone? …
Angela:    (fa cenno di si con la testa)…quelli che sono due fratelli … Michele, Vincenzo?…
Giuseppe:    (inc.) … sono usciti dal carcere …uno è genero …
Angela:    Uno è latitante…. Uno era il genero di Ciccio.
Giuseppe:    Il genero del diavolo…
Angela:    Il genero del diavolo…uno (inc.) .. è carcerato, quell’altro è latitante…
Giuseppe:    E quello gli ha sparato? …
Angela:    (fà  cenno di si con la testa)…un anno addietro… tre anni addietro hanno avuto una lite e si sono chiariti… (inc.) … dice che l’unica .. (inc.) .. questa è …perché lui non  ha avuto niente con nessuno …(inc.) … infatti noi, quella mattina che siamo partiti, siamo andati a (incompr.) da Gesù Bambino … lo vuoi il bracciale di Gesù Bambino? .. lo vuoi? …eeehh …mia figlia Giusi ha detto ..“oh Mà” … il giorno dopo, non quando .. (inc.) .. quella mattina che siamo partiti dice..”ma tu l’hai vista quella macchinina rossa” .. perchè noi siamo partiti alle sei … dice ..”l’hai vista quella macchinetta rossa  davanti al market ferma?” .. gli ho detto io : “no” … quella macchina era di loro, di uno di loro …(inc.) … gli Ascone …e Pecora .. (inc.) …
Giuseppe:    Chi? ..
Angela:    Pecora …e manco i cani (fonetico)
OMISSIS

Colloquio detenuto FERRARO Giuseppe del 07 dicembre 2006
Dalle ore 11:27:04”
Angela:    (Rivolgendosi a Giuseppe) Poi ha detto che tu gli hai scritto che lo hai rimproverato che è venuto là sotto per prendersi la droga. Gli ho detto: “E’ vero, Claudio, a me lo ha detto (incomprensibile)”. Dice: “Ma dove sono andato?” Gli ho detto: “Mio cugino (incomprensibile) ti conosce – gli ho detto – Claudio” “ (Incomprensibile) Mi avranno scambiato per qualcun altro”; gli ho detto io: “Non ti ha potuto scambiare per un altro, perché ti conosce. E poi – gli ho detto io – scusa, (incomprensibile) non è che gliel’ho detto a (incomprensibile) in senso di critica. Gli ho detto così: Claudio è sceso (incomprensibile)”; dice: “E perché non dovevo venire?” Gli ho detto io: “Fai tu”.    

Colloquio detenuto PESCE Salvatore del 14 settembre 2006
Dalle ore 10:52:55” alle ore 11:07:02”
OMISSIS
Angela:    Digli il fatto di coso. Come si chiama? Diglielo (incomprensibile).
Francesco:    Di chi?
Angela:    Gli ha (incomprensibile) i soldi, e non gli ha detto niente.
Francesco:    2000 € (incomprensibile).
Angela:    Sì, sì. E non gli ha detto niente.
Francesco:    (Incomprensibile).
Angela:    (Incomprensibile). Questo fratello mio ha mandato la lettera (incomprensibile) a questi qua (incomprensibile) per mandargli i soldi.
Francesco:    Io gli ho detto che glieli do.
Angela:    Stai zitto. Non è la questione che glieli dai.
Salvatore:    (Incomprensibile) gliele devi dire queste cose, Ciccio.
Angela:    Eh. Perché questo fratello mio, a questo punto qua dice: “Pezzo di merda, io gli mandavo 3.000.000 al mese per dare 100.000 lire al giorno a te. Ora. I cristiani ti hanno dato questi qua, che io avanzavo (incomprensibile).
Francesco:    (Incomprensibile).
Angela:    Ciccio, o 1000, o 500, dice: “Per che cazzo non (incomprensibile)?”.
Salvatore:    Non sono i soldi. È (incomprensibile) per dirglielo.
Angela:    A parte (incomprensibile): “Non è l’azione nei miei confronti”, perché questi qua, quando (incomprensibile).
Francesco:    (Incomprensibile).
Salvatore:    Ciccio, non è per i soldi.
Angela:    Che testa che ha
Francesco:    (Incomprensibile).
Angela:    Non ragiona… non ti fa ragionare.     
Francesco:    (Incomprensibile).
Angela:    Sì, però 2 settimane fa, Ciccio, quando (incomprensibile) a Milano, quando (incomprensibile).
Francesco:    Ma cosa stai dicendo? (Incomprensibile).
Angela:    Ma poi, mio fratello (incomprensibile).
Salvatore:    Ciccio, non sono i soldi, che c’entra.
Angela:    Perché questi… i Pompei gli hanno detto…
Salvatore:    Ma digliele queste cose, Ciccio.
Angela:    Sì, perché (incomprensibile)…
Francesco:    (Incomprensibile) 3 settimane fa me li ha portati il figlio (incomprensibile). Non me li hanno dati nemmeno quelli là, a me, i soldi, che me li ha dati il figlio di (incomprensibile).
OMISSIS
Angela:    Gli ha detto (incomprensibile) ‘sto Alberto gli ha detto: “Sono cazzi suoi se mio cugino glielo ha detto se gli ha dato i soldi al (incomprensibile)”. Ora, mio fratello ha detto: “Io non posso fare queste figure di merda a mandare ogni poco (incomprensibile), quando questo a me i soldi me li ha dati. Che ti costa dirmi: zio, me li hanno dati, mi sono serviti. Basta, io me ne fotto dei soldi”.
Francesco:    (Incomprensibile) una volta sola (incomprensibile).
Angela:    Dice:“Io me ne fotto dei soldi”. Poi, (incomprensibile) con Claudio, infatti dice che i Pompei non pagano (incomprensibile).
Francesco:    (Incomprensibile).
Angela:    Tu non devi andare, perché tu, con una volta che sei andato hai combinato guai.
Francesco:    (Incomprensibile).
Angela:    Gli ha detto (incomprensibile): “Ma che ti viene a te Claudio?”; “No, a me non mi viene niente”; “E come, lui dice che è cugino vostro, che qua, che là”.
OMISSIS
Angela:    (Rivolgendosi al marito Pesce Salvatore) E poi, era giusto che lui doveva dire: “A me non viene niente, me ne fotto di lui”? Come, tu non lo sai che…        
OMISSIS
Salvatore:    Sì, ma non ha tutte le ragioni, Claudio. Ha pure i suoi torti, Claudio. Perché…
Angela:    Intanto, li paga gli avvocati.
Salvatore:    Sì, (incomprensibile) li paga. Però va camminando pure con il nome nostro. Non è che va… va per…
OMISSIS

Colloquio detenuto FERRARO Giuseppe del 12 ottobre 2006
Progressivo dalle ore 12:16:11” alle ore 12:18:13”
Angela:        Io mi meraviglio perché questo cornuto di Franco non lo vuole fare più.
Giuseppe:    Bastardo (incompr.).
Angela:        Cioè, ma perché non vuole farlo più?
Giuseppe:    (Incompr.)
Angela:        Quando è venuto l’altra volta al Market, io gli ho detto: “Franco, vedi che mio nipote dispone di 100.000,00 euro, però…”
Giuseppe:    (Incompr.)
Angela:        Eh sì, si è tradito lui stesso. “Però” gli ho detto “(incompr.) te li dà, ma vuole il risultato, non sì, ma, però, qua, là, vediamo, (incompr.) prima, cioè prima che la fanno la Cassazione, però quando viene fatta deve essere positiva, che se è negativa (incompr.)”
Giuseppe:    (Incompr.)
Angela:        E mi guardava, poi gli ho detto: “Franco, se ne vuoi di più… ne vuoi altri 20.000 per te? Di che ne vuoi 120.000, mio nipote ha detto che non c’è prezzo per una cosa di queste”. Dopo un po’ ha cambiato atteggiamento. L’ho chiamato un’altra volta e gli ho detto (incompr.): “Franco vediamo questa cazza di Cassazione (incompr.)”. Mi ha detto: “Non posso fare niente”; “come non puoi fare niente, Franco? Scusa, hai bussato una volta, bussi la seconda volta. Scusa, ti abbiamo deluso la prima volta?” Gli ho detto: “Ti abbiamo deluso la prima volta?” Mi ha risposto: “No”; “e allora?” “Ma sai lo hanno cacciato. Là le cose sono cambiate…” io gli ho detto: “Ma dimmi una cosa: se tu sei sempre là dentro…”
Giuseppe:    (Incompr.)
Angela:        “Tu sei sempre la dentro Franco, a chi cazzo glielo racconti. Io ti dico: Franco non hanno fissato la Cassazione e tu hai pure il potere di fare fissare la Cassazione il più presto possibile (incompr.), Franco perchè non ce la vuoi fare?” E lui: “Angela, ti giuro su i miei figli” e io: “Franco non giurare, con tutta l’amicizia che c’è, non mi giurare”; e lui: “Perché non mi credi? E io: “No non ti credo, e cazzo non è che ti stiamo dicendo (incompr.)”

Ferraro Angela e Pesce Marina, capi 12) e 13)  
L’intestazione fittizia di mezzi di autotrasporto e l’estorsione in danno di Armeli Signorino

Nel corso delle intercettazioni ambientali effettuate in carcere di Pesce Salvatore e il figlio Francesco (dopo il suo arresto avvenuto il 30 ottobre 2006 per violazione legge droga), sono emerse – in più circostanze – riferimenti ad un diretto interesse in un’attività di trasporto merci.
Inizialmente, i primi risultati dell’attività d’indagine rivelavano che Pesce Salvatore, la moglie Ferraro Angela, il figlio Francesco e il cognato Palaia Rocco avevano interessi in attività di trasporto merci, tra cui la distribuzione delle merci del gruppo SISA; il seguito dell’attività investigativa rivelava però un quadro molto più complesso, che consentiva di collegare il filone d’indagine relativo al proc. pen. 2006/06/21 RGNR Palmi con quello sviluppato dal RONO CC.
L’incrocio dei dati probatori dimostrava il totale controllo, da parte del clan Pesce, dell’attività di distribuzione delle merci del gruppo SISA in buona parte del territorio calabrese.
Il primo riferimento utile si traeva dal colloquio, intercettato in carcere del 31.10.2006, quando Pesce Salvatore chiedeva ai familiari, in particolare al genero Palaia Rocco, notizie circa due camion (di cui uno nella disponibilità dello “sbirro” – identificato in Armeli Signorino) utilizzati per trasporto merci; dal contesto del discorso si comprendeva che l’attività di trasporto veniva svolta anche per conto della SISA e che per questa veniva corrisposta una somma di denaro del cui ritiro s’incaricava Palaia Rocco, per poi porla nella disponibilità di Ferraro Angela.

Colloquio detenuto PESCE Salvatore del 31 ottobre 2006
Dalle ore 12:08:46” alle ore 12:09:23”
Salvatore:    I camion chi li ha?
Rocco:        Eh?
Salvatore:    I camion chi li ha che se li badava?
Rocco:        Uno ce n’è camion alla Sisa.
Salvatore:    E l’altro dove ce l’ha?
Rocco:        E che cazzo ne so (incomprensibile). Mi ha detto di andare a prendermi i soldi (incomprensibile) pago l’autista, pago la nafta e la rimanenza gliela do a lei (fa cenno verso Angela).
Salvatore:    E l’altro dove ce l’ha? Vedi dove ce l’ha l’altro.
Rocco:            Un altro ce l’ha lo sbirro, il camion grande però, alla Sisa uno ce n’è camion.
Salvatore:    E l’altro dove ce l’ha?
Angela:            (Rivolgendosi a Rocco) Da tuo zio Benito.
Rocco:             (Incomprensibile).
Angela:            Eh.
Salvatore:    L’altro dove…
Rocco:            Ne aveva due però prima.
Salvatore:    Ma dice che lo aveva in officina, che lo stava aggiustando.
Rocco:            Uno gliene lavora alla Sisa.
Marina:    Non gridare.
Salvatore:    Rocco, ce n’è uno lo doveva avere in officina che lo stava aggiustando.
Rocco:            Non lo so.
Salvatore:    Vedi dove ce l’ha, e glielo fai … lo mandate.
Rocco:            Non (incomprensibile) l’autista?
Salvatore:    Lo trovi un autista.

In seguito all’arresto avvenuto in data 30.10.2006, anche Pesce Francesco affrontava con i familiari la questione dei camion. Durante il colloquio in carcere del 3.11.2006, infatti, veniva informato dal cognato Palaia Rocco che dei camion si sarebbe occupato lo zio Peppino “Pecora”, identificato nello zio Pesce Giuseppe.

Colloquio detenuto PESCE Francesco del 03 novembre 2006
Dalle ore 09:15:54” alle ore 09:16:05”
Francesco:    Comunque, con (incompr.) ha fatto qualcosa, che ha fatto?
Rocco:        I camion se li ha presi zio Peppino.
Francesco:    Quale zio Peppino?
Rocco:        Pecora.
Francesco:    Basta che gli porta i soldi a mia mamma.
Rocco:        E allora a chi (incompr.).
Vincenzo:    Sono rimasti 300,00 euro questo mese.

Il discorso dei camion era ripreso nel successivo colloquio in carcere del 07.11.2006, nel corso del quale Francesco, manifestando il proprio malumore per il mancato versamento della somma imposta all’Armeli per l’impiego dei suoi camion presso la SISA, incaricava la sorella Marina (che, consapevole di stare parlando di qualcosa di illecito, lo aveva appena aggiornato sulla situazione dei camion parlandogli all’orecchio) di riferire allo zio Pesce Giuseppe “Pecora” le condizioni di pagamento da imporre all’Armeli.

Colloquio detenuto PESCE Francesco del 07 novembre 2006
Dalle ore 11:02:15” alle ore 11:02:38”
Marina:        Parla all’orecchio del Fratello.
Francesco:        Chi, lo sbirro?
Marina:        Non lo so chi è.
Francesco:        Lui ogni 30 mi deve dare i soldi.
Marina:        Si, ha detto che te li da.
Francesco:    Digli allo zio Pino di andare lui, e che ogni 30 mi deve dare tutti i soldi giusti.
Marina:        Si, non ti preoccupare.

Dalle ore 11:26:50” alle ore 11:27:24”
Francesco:        Della Sisa? Glieli ha portati i soldi? Quanto gli è rimasto?
Marina:        (Incompr.)
Francesco:        Alla mamma. Della Sisa.
Marina:        (Incompr.)
Francesco:    Dei camion……. della SISA. Che dici non gliel’hanno portato Marina, oggi ne abbiamo 10, oppure uno deve andare a prendersi i soldi. Fatelo andare da Rino lo Sbirro che mi deve dare i soldi, ogni 1° del mese mi deve dare i soldi, digli di andare e gli deve dire che ogni 1° del mese mi deve dare i soldi.
Marina:        Si. Non ti preoccupare.
Rocco:            Va beh, può andare Ciccio.
Francesco:    Diglielo a Pecora, di andare da Rino e gli deve dire che ogni mese mi deve dare 800,00 euro al mese.

La situazione del versamento della somma imposta all’Armeli non si sbloccava, tant’è che nel colloquio in carcere del 10.11.2006 Francesco, nel ricevere dalla madre la notizia che per i camion le erano stati versati soltanto 400 € invece degli 800 imposti, esternava tutta la propria rabbia, e con evidente metodo mafioso, dimostrandosi consapevole del potere d’intimidazione derivante dal clan di appartenenza, dava incarico alla madre stessa e al cognato Palaia Rocco di minacciare per suo conto l’Armeli, o di farlo fare direttamente dallo zio Pesce Giuseppe “Pecora”, del quale l’Armeli, a dire dello stesso Francesco, aveva particolare timore.
A suggellare la forte capacità del clan Pesce di condizionare le attività economiche del territorio posto sotto il suo controllo, nell’immediato seguito della conversazione Francesco ricordava una precedente aggressione da loro (dal clan Pesce, appunto) perpetrata in danno dell’Armeli, concludendo che era giunto il momento di dargli una punizione esemplare bruciandogli i camion.
Un particolare non trascurabile nel contesto appena descritto è costituito dal ruolo svolto da Palaia Rocco, il quale non agisce soltanto come semplice “ambasciatore”, ma dimostra di essere soggetto attivo anche in merito alla somma di denaro da imporre all’Armeli, manifestando l’intenzione di farsi dare 1000 € invece degli 800 € pretesi dal cognato.

Colloquio detenuto PESCE Francesco del 10 novembre 2006
Dalle ore 10:52:23” alle ore 10:55:42”
OMISSIS
Francesco cl. 84:    I soldi del camion te li hanno portati?
Angela:    Quali soldi del camion?
Francesco cl. 84:    Di là da Rino.
Angela:    400 € di merda ha portato.
Francesco cl. 84:    Di là da Rino? Di là da Rino 400 €?
Angela:    Ancora me li deve dare (incomprensibile).
Francesco cl. 84:    (Rivolgendosi a Rocco) Ma perché non andate voi? (Rivolgendosi alla madre) perché 600? Ma chi te l’ha detto (incomprensibile)?
Angela:    Perché non ti ha lavorato il camion.
Francesco cl. 84:    Che vuol dire che non ha lavorato? A me deve dare (incomprensibile) € al mese.
Rocco:    Ora vado io. Poi, pomeriggio vado io da Rino.
Francesco cl. 84:    (Rivolgendosi a Rocco) di allo zio Pino che (incomprensibile) deve dare 800 € al mese a me.
Angela:    600 gliene ha dati. Ha dato l’assegno al “papero” ieri sera. 600 €.
Francesco:    E ma perché 600 €? A me ne dava sempre 800?
Angela:    Ha detto che 600 perché (incomprensibile) non ti ha lavorato.
Rocco:    (Incomprensibile).
Francesco cl. 84:    A me deve mandare 800 €. (Rivolgendosi a Rocco) Di a Rino lo sbirro che se non mi manda 800 € (incomprensibile) gli brucio (incomprensibile).
Rocco:    (Rivolgendosi a Francesco cl. 84) Prima erano 1000. ma prima 1000, poi a 800 è sceso?
Francesco cl. 84:     (Rivolgendosi a Rocco) Da 1000 è sceso a 800; ora, da 800 a 600. se non mi manda 800 € al mese digli che, sul bene di (incomprensibile), gli brucio tutti i camion.
Rocco:    Ieri (incomprensibile).
Francesco cl. 84:    A questo merda di culo. Maledizione a questo cornuto. (Rivolgendosi alla madre) A me ha dato sempre 800 € al me… mi doveva dare 1000 e mi ha dato 800 € al mese. Ora se n’è sceso a 600.
Francesco cl. 87:    Ora ti hanno arrestato…
Francesco cl. 84:    (Rivolgendosi alla madre) Digli che non te ne dia per niente, che come esco brucio tutte cose, e a lui lo brucio nei camion. A questo merda.
OMISSIS
Francesco cl. 84:    (Rivolgendosi a Rocco) Andate da Rino lo sbirro. Vai da Rino. Ah?
Rocco:    Vado io.
Francesco cl. 84:    Dillo pure allo zio Pino, di andare lui… di mandargli l’ambasciata lui, che con lui sta. A questo cornuto, l’altra volta lo abbiamo menato, un’altra volta lo dobbiamo menare.
Angela:    600 gli ha dato ieri sera.
Francesco cl. 84:    Questo… guarda che cornuto di merda.
Angela:    Ma non che gli ha dato… (incomprensibile).     
Francesco cl. 87:    E’ cornuto.
Francesco cl. 84:    Come esco gli do il resto di quelli che gli abbiamo dato l’altra volta. Il resto gli do. Ma questa volta gli brucio pure i camion, a questo pentito di merda.
Rocco:    Glielo dico io, altro che non cammina. Glielo dico io.
Francesco cl. 84:    Quanto vuole lui. A me (incomprensibile) 800 € al mese.
Rocco:    (Incomprensibile) no, 1000 € gli dico che ci deve dare.
Francesco cl. 84:    (Incomprensibile) 800.
Angela:    600 (incomprensibile).
Francesco cl. 84:    Poi (incomprensibile) 600.
OMISSIS

In data 14.11.2006, Pesce Francesco riceveva la visita in carcere del cugino Pesce Vincenzo cl. 86 il quale, a dimostrazione che vicenda relativa ai camion fosse una “questione di famiglia”, lo informava che, in seguito all’intervento dello zio Pino (Pesce Giuseppe “Pecora”) il problema era stato risolto.

Colloquio detenuto PESCE Francesco del 14 novembre 2006
Dalle ore 11:17:22” alle ore 11:17:26”
Francesco:    I camion stanno lavorando?
Vincenzo:    Con il capo fa cenno di si.
Francesco:    Pure il Mercedes, tutti?

Dalle ore 11:18:45” alle ore 11:18:52”
Francesco:    Da Rino lo Sbirro sono andati?
Vincenzo:    Si, è andato lo zio Pino.
Francesco:    Gli ha detto per (con le mani fa il segno di 8)?
Vincenzo:    Non lo so, so che è andato lo zio Pino

Nel colloquio in carcere del 05.12.2006 la vicenda dei pagamenti per l’attività dei camion sembrava essere stata in parte risolta, in quanto l’Armeli aveva versato soltanto 600 € invece degli 800 € imposti, cioè la somma che Pesce Francesco affermava di aver ricevuto regolarmente fino alla data del suo arresto.
Dando l’ennesima prova che oggetto delle conversazioni fossero somme di denaro di natura estorsiva, nel prosieguo della conversazione, Pesce Francesco ravvisava la necessità di inviare uno della famiglia Pesce ad intimorire l’Armeli, ribadendo al cugino Pesce Vincenzo, che si era offerto d’intervenire a risolvere la questione, di farsi dare la somma dall’Armeli “… se vuole e se non vuole” altrimenti avrebbe dato ordine dall’interno del carcere stesso  di “bruciargli tutti i camion”.

Colloquio detenuto PESCE Francesco del 05 dicembre 2006
Dalle ore 11:05:44” alle ore11:06:52”
Francesco:    (Rivolgendosi a Marina) digli ad Antonio di andare da Rino lo sbirro, ad oggi, di dargli i soldi. Se quello là cerca scuse, che mi manda l’ambasciata, che so io cosa devo fare. Se… come gli dà i soldi, li prendi e me li metti tutti sul libretto (fondo di credito con cui i detenuti acquistano al sopravitto), che fino a 1000 € li posso mettere. Prendi tutti i soldi di Rino lo sbirro e me li metti sul libretto…
Marina:    Giovedì.
Francesco:    8… 800 €. Me li metti tutti sul libretto. Però ti deve dare 800 €, sennò digli di non prenderseli per niente, che poi (incomprensibile) a Rino lo sbirro, se me li dà o non me li dà, i soldi. Perché mi sembra che qua non c’è nessuno buono, di fuori, che vada ad acchiappare a questo per dirgli di darmi i soldi, che sono 8 volte che glielo dico. E non va nessuno. (Rivolgendosi a Vincenzo) Siete capaci di andare a prenderlo e menargli? A me ha dato sempre 800 €; mi arrestano e non mi… i soldi scompaiono. Va per i soldi: 600 €. A me perché 800 €? Ora scala a 600 €? Non può andare nessuno a dirgli: “Ma come eravamo rimasti?”
Vincenzo:    (Incomprensibile). io non sono andato.
Francesco:    Non potete andare uno…
Vincenzo:    Ma se (incomprensibile) è andato Antonio, che vuoi da me? (Incomprensibile) che vuoi?
Francesco:    Se non andiamo uno di noi non li caga a questi. Devi andare là a dire: “Con mio cugino come siete rimasti, 800? Prendi i soldi, e a fine mese dagli i soldi.”
Vincenzo:    Vado io, come (incomprensibile) passo io. Come (incomprensibile) passo io. Quanto ti deve dare?
Francesco:    800 € al mese.
Vincenzo:    Ma il mese passato te li ha dati?
Francesco:    Me li ha dati. 600 (fonetico). Mi deve dare 800 e al mese…
Vincenzo:    Come torno (incomprensibile).
Francesco:    … Se vuole e se non vuole. Se ti dà 600 non (incomprensibile), che di qua mando a bruciargli tutti i camion. Glielo dico io se non mi dà i soldi, a questo merda di culo.
Vincenzo:    Come passo glielo dico io.

Dalle ore 11:49:01” alle ore11:49:50”

Francesco:    O Cenzo, che volevo dirti, mi sono scordato; e… parla con lo zio Pino, parla… che vadano da questo Rino.
Vincenzo:    Vado io come torno.
Francesco:    Ma… fai andare qualcuno (incomprensibile) che gliel’ho detto a Ciccio pecora, che quello è addormen…  
Vincenzo:    Perché, se vado quando torno che ci fa?
Francesco:    … Quello è addormentato. Deve menarlo, perché si volta male.
Vincenzo:    Lo meno.
Francesco:    fai andare lo zio Pino (fonetico). Devi dire allo zio Pino… andate con lo zio Pino, mi deve dare 800 E…
Vincenzo:    Ma posso andare io?
Francesco:    Gliel’ho detto a quell’addormentato di Ciccio pecora, ed è lo stesso di niente.
Vincenzo:    Ma posso andare io?
Francesco:    Và a trovare Ciccio pecora allora, digli se è andato. Che l’altra volta ho detto a Ciccio pecora di andare. Và a trovare Ciccio pecora, digli: “Cicc…”
Vincenzo:    Non è andato.
Francesco:    Ma tu digli: “Ciccio, sei andato da Rino per il fatto del nano?” Se ti dice: “Non sono andato”, fottitene di lui, prendi e vai tu. Hai capito?
Vincenzo:    Io lo meno.
Francesco:    Che è capace pure che è andato. Se si volta male menalo…
Vincenzo:    Io lo meno.
Francesco:    Che quello si volta male. Io l’ho menato. Digli che mi deve dare 800 € al mese. (Rivolgendosi a Marina) e Digli di andare… di trovare pure il laureanese per i soldi. Quando eh, poi mi metti i soldi qua.

Sulla questione dei camion si ritornava ancora nel colloquio in carcere del 12.12.2006. Nel corso della conversazione, la sorella del detenuto, Giuseppina, riferiva che Armeli aveva accettato di versare la somma di 1000 € ma, nonostante ciò, Francesco ribadiva il proposito di far pagare caro all’Armeli l’ostruzionismo posto in essere.

Colloquio detenuto PESCE Francesco del 12 dicembre 2006
Dalle ore 12:34:55” alle ore12:35:32”
Francesco:    Ma… soldi niente mà, non te ne hanno portati (incomprensibile)?
Angela:    Ciccio, io ora sono arrivata qua, venerdì sono arrivata.
Francesco:    (Incomprensibile) ti avevo detto … vi avevo io detto al colloquio di andare per i soldi.
Giuseppina:    Non glieli ha dati (incomprensibile) ancora. (Incomprensibile) di aspettare due giorni, tre giorni, non so perché eh, e…
Francesco:    Di aspettare cosa? Io me ne fotto di lui, lui la barca ce l’ha all’asciutto. Che non mi rompa i coglioni, che vada a prendermi i soldi.
Giuseppina:    (Incomprensibile).
Francesco:    Sull’onesto di mamma, che a questo qua gli scasso tutto.
Giuseppina:    (Incomprensibile) questa settimana ha detto che glieli dà.
Angela:    Ancora.
Francesco:    Quest’infame di merda che non è altro. A me deve dare i soldi ogni fine mese, non come dice lui.
Angela:    (Incomprensibile).
Giuseppina:    Questa settimana (incomprensibile) te ne dà 1000, non 6 o 8, te ne dà 1000. Però, questa settimana.
Francesco:    Questo pisciatore che non è altro, sull’onesto di mamma, se esco da qua dentro lo ammazzo.
Angela:    Ancora, ancora.
Francesco:    A questo merda.
Angela:    (Incomprensibile).
Giuseppina:    Gli ha detto che te ne deve dare 1000. Però, (incomprensibile) settimana te li dà.

Anche nel colloquio in carcere del 15.12.2006 la vicenda dei camion era tra gli argomenti trattati nelle conversazioni, ma questa volta per un aspetto che faceva emergere le modalità dell’accordo imposte all’Armeli da Pesce Francesco: l’Armeli doveva versare la somma di denaro impostagli a prescindere dall’utilizzo dei camion riconducibili ai Pesce. Quindi anche in caso di imprevisti, come nel caso di un guasto del mezzo, questi ultimi avevano comunque garantita un’entrata fissa mensile.

Colloquio detenuto PESCE Francesco del 15 dicembre 2006
Dalle ore 12:01:54” alle ore12:03:45”
Francesco:    I mezzi mi stanno lavorando?
Angela:    Eh?
Francesco:    I mezzi (incomprensibile).
Angela:    Allora: i mezzi (incomprensibile). Ieri (incomprensibile)…
Francesco:    Eh.
Angela:    … E… (incomprensibile) perché gli ha detto che… non… aspetta, non partire in quarta (incomprensibile) lo zio (incomprensibile) che ti manda 1000 € al mese…
Francesco:    Eh.
Angela:    … Però ha detto che ci sono stati danni per 3500 € che (incomprensibile) però, visto che siamo sotto natale, ti manda 500 €. Ciccio (incomprensibile).
Francesco:    Che per 2, 3 mesi non mi dà i soldi?
Angela:    E se il camion si è rotto?
Francesco:    E lui se l’è preso a danno suo, il camion?
Angela:    Io non so.
Francesco:    Il patto che ho fatto con lui era che tutto a danno suo , e mi dà 1000 € al mese? Sennò così, se è a danno mio (incomprensibile) 3000… che mi dia 2000 € al mese.
Angela:    Va beh, andiamo, che adesso esci, andiamo.
Francesco:    Ma guarda questo sbirro di merda, se esco lo attacco al muro lo attacco.
Angela:    Va beh, andiamo.
Francesco:    Una volta l’ho menato, stavolta lo ammazzo.
Angela:    Sì, va bene. Stai zitto, e non dire queste cose che ci sono (incomprensibile).
Francesco:    Lui, il camion se l’è impegnato a danno suo, quindi a me deve dare 1000 € al mese, se si rompe e se non si rompe. Sennò…sennò… se i danni me li devo pagare…
Maria:    (Incomprensibile) ieri mi ha detto… che ieri così (incomprensibile) ha detto Rocco.
Francesco:    (Rivolgendosi a Salvatore) spiegaglielo. (Rivolgendosi ad Angela) digli che se i danni sono a spese mie voglio 2000 € al mese.
Angela:    Non gridare, non gridare.
Maria:    Sì, Rocco questo ieri gli diceva, perché dice: “Ciccio era rimasto – dice – che se lavora, se non lavora, se è rotto, se non è rotto – dice – quelli là sono”.
Salvatore:    (Incomprensibile).
Francesco:    (Rivolgendosi a Salvatore) Trova a chi devi trovare, a “pecora” a chi vuoi, vai a trovarlo, digli che vadano là, che gli dicano che mi deve dare 1000 €.
Maria:    Glielo ha detto Enzo, glielo ha detto Enzo.
Francesco:    Ma guarda questo sbirro di merda, guarda questo cornuto e infame.
Maria:    Glielo ha detto Enzo ieri.
Francesco:        (Rivolgendosi a Salvatore) Andate e diteglielo. Digli che siamo rimasti che a danno suo (incomprensibile) mi deve dare 1000 € al mese. Digli che se i danni sono i miei mi porta 2000 € al mese, sennò gli prendo… gli squaglio tutti i…
Angela:    Uh. Non ci hanno sentiti. […]
Francesco:    Mannaggia la (incomprensibile).
Maria:    Sì, che ieri Rocco pure si è messo a gridare. Dice: “No, Ciccio era rimasto così, che se si rompe, se non si rompe, se ce l’ha fermo…”
Francesco:    Ma guarda questo infame di merda. Fino a che ci sono stato io… fino a che ci sono stato io, ha camminato sempre giusto.
Maria:    Ha detto: “Quella era la cifra che gli doveva dare”.

La vicenda dei camion, per ciò che concerne l’aspetto che riguarda le modalità dell’accordo imposto all’Armeli da Pesce Francesco, veniva affrontata un’ultima volta nel corso colloquio in carcere del 19.12.2006, quando Pesce Vincenzo cl. 86 riportava le giustificazioni, peraltro da lui condivise, addotte dall’Armeli per il mancato versamento delle cifre “concordate”.
Appare, altresì, opportuno focalizzare l’attenzione su un breve tratto del colloquio del 19.12.2006: Pesce Francesco chiedeva al cugino Pesce Vincenzo cl. 86 notizie riguardo altri suoi camion; quest’ultimo, dimostrando di sapere perfettamente a cosa il cugino detenuto si riferisse, rispondeva che i camion della SISA stavano lavorando, facendo così comprendere che Pesce Francesco, oltre ai camion utilizzati per suo conto da Armeli Signorino, aveva nella propria disponibilità altri camion impiegati per la distribuzione delle merci per conto della SISA.  

Colloquio detenuto PESCE Francesco del 19 dicembre 2006
Dalle ore 09:26:56” alle ore 09:29:03”
Vincenzo:    Oh, senti, senti il fatto di Rino lo sbirro. Allora…
Francesco:    Questo, come esco, è il primo.
Vincenzo:    No, ti spiego io, non gli puoi fare niente perché ti spiego io. Allora…
Francesco:    Perché non gli posso fare niente?
Vincenzo:    Il camion, il camion è stato un mese e mezzo fermo…
Francesco:    Allora, ora ti spiego io prima che ti sbilanci tu: digli a Rino lo sbirro di farmi il cazzo del favore, che quando gli ho portato il camion là, io il camion l’ho pagato 22.000 € il camion e l’ho pagato in contanti; quando gli ho portato il camion là, siamo rimasti che lui mi dà 1000 € al mese con i guasti a danno suo, con l’assicurazione a danno suo e con l’autista a danno suo…
Vincenzo:    Sì sì sì…
Francesco:    Se lui vuole che i danni me li aggiusto io di tasca mia, che mi dia 2000 € al mese, che il camion me lo aggiusto io, però mi deve dare 2000 € al mese…
Vincenzo:    No, non vuole questo.
Francesco:    Non che mi dà 1000…
Vincenzo:    Non vuole questo.
Francesco:    Non che mi dà 500 €, che io l’elemosina non la voglio e non l’ho voluta mai da nessuno. E digli che come esco, prendo lui con tutti i camion suoi e lo brucio; gli brucio prima i camion e poi butto a lui là dentro.
Vincenzo:    Non ha detto (incomprensibile).
Francesco:    A questo cornuto e infame. Fino a che ci sono stato io mi ha dato 1000 € al mese… 800 € al mese e me li dava tutti i mesi; da quando hanno cominciato ad arrestarmi mi dà 500 € al mese. Non pensi che io muoio in galera, che esco.
Vincenzo:    Ti spiego io una cosa…
Francesco:    ‘Sto sbirro di merda.
Vincenzo:    Ti spiego io: il camion è stato fermo da Ravalli (fonetico) ed è vero che…
Francesco:    E sono cazzi suoi se è fermo. A me deve dare i soldi.
Vincenzo:    Fammi spiegare, Ciccio, prima di parlare.
Francesco:    Lo aggiusta con quelli che si fotte al mese che si è fottuto nei mesi scor… nei mesi prima.
Vincenzo:    Fai che ti spiego?
Francesco:    Che ne ha presi 3000 € al mese.
Vincenzo:    Fai che ti spiego? Allora: il camion è stato un mese e mezzo, quasi 2 mesi fermo là da Ravalli, ed è vero, che lo vedevo io. ‘Sto camion non ha lavorato per 2 mesi; ha detto: “Io, per 2 mesi non è che non gli do i soldi; però, per 2 mesi vuole che gli do 500 € al mese, che il camion non ha lavorato 2 mesi, che è stato fermo? Il mese entrante…” fammi spiegare “… il mese entrante gli do 800 € come eravamo rimasti”.
Francesco:    Va beh, mettiamo da parte questo fatto. Ma i camion mi stanno lavorando?
Vincenzo:    “Gli do 800 € come eravamo rimasti”; aspetta (incomprensibile) questo discorso; dice: “Ora che è Natale… per giusto non dovrei darglieli, questo mese, per scontare il mese che è stato fermo il camion, perché non ha lavorato”. Giusto?
Francesco:    Se se n’è sfottuto.
Vincenzo:    Eh. Ha detto: “Gli do 500 € per questo mese, perché è Natale. Il mese entrante gli do 800 € come eravamo rimasti”.
Francesco:    Ma… gli altri camion mi stanno lavorando?
Vincenzo:    Sì, quelli della Sisa sì.
Francesco:    Tutti e due?
Vincenzo:    Sì… no, tutti e due no. Uno lo ha aggiustato, però non ha l’assicurazione. (Incomprensibile) il Mercedes là.
Francesco:    E il Mercedes me lo fermano?
Vincenzo:    Il Mercedes (incomprensibile).
Francesco88:     A me hanno detto che l’assicurazione l’hanno fatta.
Vincenzo:    No, del Mercedes non è fatta l’assicurazione.
Francesco88:     (Incomprensibile).
Francesco:    (Rivolgendosi a Vincenzo) Devono lavorare tutti e due.
Vincenzo:    Sì.

Il quadro complessivo appena descritto trova piena rispondenza nelle attività di riscontro riportate nell’informativa Div. II cat II/2007 depositata in data 11.07.2007 dalla Sezione Investigativa Operativa del Commissariato di P.S. di Gioia Tauro nell’ambito del proc. pen. 4302/06 DDA. Alle pagine 78 e 79 di detta informativa, infatti, la ricostruzione dei rapporti esistenti tra la famiglia Pesce ed imprenditori del settore della distribuzione riconducibile al gruppo SISA viene così raccontata: “[…] Si riesce ad avere contezza circa i rapporti esistenti con l’attività commerciale gestita da GARRUZZO titolare della catena di distribuzione riconducibile al gruppo “SISA”; mediante l’intermediazione dell’azienda di trasporti “Trivel Sud di ARMELI Signorino” con sede in Rosarno, la famiglia PESCE ha dato al GARRUZZO l’utilizzo di un certo numero di veicoli (Camion – autocarri) che svolgono la distribuzione delle merci per conto di questa società. Il GARRUZZO garantisce alla cosca, a prescindere dal lavoro realmente svolto, una retribuzione mensile giustificata formalmente dal fatto che gli autisti, assunti fittiziamente, percepiscono uno stipendio. Inoltre, mentre normalmente le attività di intermediazione nel settore degli autotrasporti, prevedono retribuzioni relative alle singole consegne, nel caso in esame, si assiste ad una forma di vincolo mensile relativo ai mezzi, riconducibili alla cosca PESCE, anche se fittiziamente intestati, per il quale le ditte, ed in specie la “SISA”, versano un compenso, in questo caso all’intermediario. […]”.
Alla pagina 80 della medesima informativa della Sezione Investigativa Operativa del Commissariato di P.S. di Gioia Tauro, viene anche descritto il ruolo di vertice ricoperto da Pesce Giuseppe detto “Pecora” all’interno del clan Pesce: “[…] A conferma che il gestore di tali situazioni e in ultimo proprio PESCE Giuseppe inteso “Pecora” si emargina parte del contenuto del colloquio del 28.02.2007, intercorso tra il detenuto PESCE Salvatore, PESCE Vincenzo di Savino cl’ 86 e PESCE Francesco di Rocco cl.’88 entrambi nipoti di Salvatore, allorquando proprio Vincenzo, conferma che dopo l’intervento dello zio “Pino” (Pecora), “Rino lo Sbirro” (ARMELI Signorino) sta versando 800/1000 € al mese al figlio di Salvatore […]”. La conferma dei contatti tra Pesce Giuseppe “Pecora” e l’Armeli si aveva durante un’attività di servizio effettuata in Rosarno da personale del Commissariato di Gioia Tauro (cfr. allegato 119 informativa Div. II cat II/2007 depositata in data 11.07.2007 dalla Sezione Investigativa Operativa del Commissariato di P.S. di Gioia Tauro) quando “nella stessa data del colloquio (del 28.02.2007), […] aveva modo di riscontrare la presenza dell’autovettura in uso ad ARMELI Signorino, in sosta proprio davanti l’abitazione di PESCE Giuseppe alias PECORA”.
Nell’ambito del quadro probatorio illustrato, va evidenziato il seguente passaggio della conversazione intercettata, riportata per ultima:

Francesco:    Allora, ora ti spiego io prima che ti sbilanci tu: digli a Rino lo sbirro di farmi il cazzo del favore, che quando gli ho portato il camion là, io il camion l’ho pagato 22.000 € il camion e l’ho pagato in contanti; quando gli ho portato il camion là, siamo rimasti che lui mi dà 1000 € al mese con i guasti a danno suo, con l’assicurazione a danno suo e con l’autista a danno suo…
Vincenzo:    Sì sì sì…
Francesco:    Se lui vuole che i danni me li aggiusto io di tasca mia, che mi dia 2000 € al mese, che il camion me lo aggiusto io, però mi deve dare 2000 € al mese…
Vincenzo:    No, non vuole questo.
Francesco:    Non che mi dà 1000…
Vincenzo:    Non vuole questo.
Francesco:    Non che mi dà 500 €, che io l’elemosina non la voglio e non l’ho voluta mai da nessuno. E digli che come esco, prendo lui con tutti i camion suoi e lo brucio; gli brucio prima i camion e poi butto a lui là dentro.

Il passaggio del dialogo fa emergere, all’evidenza, l’intestazione fittizia dell’automezzo: effettuata in capo all’Armeli, mentre, in realtà, il camion è di proprietà del Pesce (alla stregua, di quanto già accertato, per altro, in relazione ad analoghe vicende).
Corretta comunque la contestazione di estorsione, e non esercizio arbitrario, perché, per quanto il camion fosse di Pesce, l’intestazione fittizia gli precludeva l’azione giudiziaria per quanto con cordato.

Pesce Marina 19) e 20)
Attribuzione fittizia di attività commerciali

Riportano gli atti di indagine che a carico di Pesce Salvatore è stata applicata la sorveglianza speciale di P.S. e disposto il contestuale sequestro e la successiva confisca dei beni nella sua disponibilità, con decreto del Tribunale di Reggio Calabria n. 27/96 (nel proc. n. 160/94 RGMP), confermato nei successivi gradi di giudizio. A causa delle vicissitudini giudiziarie che hanno visto l’indagato più volte arrestato e sottoposto a custodia cautelare, l’esecuzione della misura di prevenzione personale (in ordine alla quale sono segnalate reiterate violazioni delle prescrizioni imposte, per cui pendono plurimi procedimenti penali) si è protratta sino 14.4.2005.
Il contenuto patrimoniale del citato decreto emesso dalla Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Reggio Calabria, imponeva il vincolo ablativo anche sull’attività commerciale denominata “Central Market” di Ferraro Angela & C. S.a.s., avente sede nella stessa unità locale ove oggi esercita l’analoga attività commerciale la ditta individuale Paterna Erminda, con l’insegna “Market Alimentare”. Ferraro Angela è la moglie convivente di Pesce Salvatore.
Tra gli atti allegati al n. 13 della informativa di reato predisposta dal GICO di Catanzaro, si può leggere il decreto della Corte d’Appello che ha confermato la confisca del bene suddetto disposta dal Tribunale. Dal provvedimento si apprende come la “Central Market” di Ferraro Angela & C. S.a.s., fosse stata dichiarata fallita in data 10.2.1994, in epoca, per ciò, immediatamente precedente l’esecuzione del sequestro preventivo.
La pericolosità sociale di Pesce Salvatore, già accertata dal Tribunale Misure di Prevenzione di Reggio Calabria, non è cessata in seguito all’applicazione della misura impostagli. Ed infatti, non solo durante l’esecuzione si sono ripetute una serie impressionante di violazioni delle prescrizioni (reiterate, poi, anche in esito alla successiva applicazione, senza soluzione di continuità, della libertà vigilata), ma l’odierno indagato ha proseguito nello sviluppare attività criminose nel settore del narcotraffico, dimostrando così come né il provvedimento preventivo, né le condanne subite si siano rivelate un efficace strumento di resipiscenza.
Va, infatti, rammentato come Pesce Salvatore sia stato già condannato per la partecipazione ad un’associazione dedita allo spaccio di stupefacenti e per singole condotte di cessione, con sentenza irrevocabile (in data 27.3.2000) della Corte d’Appello di Reggio Calabria, mentre proprio i fatti oggetto del riferito accertamento penale avevano costituito il fondamento giustificativo del giudizio di pericolosità in base al quale gli era stata applicata la sorveglianza speciale di P.S..
Emerge oggi come il Pesce sia stato rinviato a giudizio nell’ambito del procedimento n. 1793/2000 RGNR DDA Potenza per i delitti di cui agli artt. 73 e 74 DPR n. 309/90, consumati in Matera sino al 17.5.2001. Ma, soprattutto, vanno ricordati gli esiti della cd. operazione “Luna Blu”, avente ad oggetto l’accertamento delle condotte di narcotraffico poste in essere da oltre 70 persone, operative tra la Lombardia e Rosarno, al fine di commerciare ingenti quantitativi di sostanza stupefacente.
Orbene nella ordinanza di custodia cautelare emessa dal GIP presso il Tribunale di Milano del 17.12.2005, nel procedimento n. 53981/2000 RGNR DDA Milano (interamente leggibile nel CD Rom allegato al n. 18 della citata informativa del GICO) si descrive il ruolo di primo piano svolto dal Pesce Salvatore, indicato quale principale referente della “filiale” rosarnese, di cui si avvaleva il gruppo milanese per il rifornimento di droga. Le condotte oggetto di accertamento sono indicate come consumate tra Milano e Rosarno nel marzo del 2002.
Va pure segnalato come il Pesce si sia dato alla latitanza nel periodo temporale intercorrente tra l’emissione dell’ordinanza ed il suo arresto avvenuto il successivo 19.1.2006.
Inoltre, a carico del Pesce risultano pendenti i procedimenti n. 753/94 e 41117/94 RGNR iscritti per ricettazione, mentre nel procedimento n. 314/96 RGNR l’indagato deve rispondere di riciclaggio.
E’ ragionevole inferire come la precedente applicazione della misura di prevenzione e l’esecuzione dei provvedimenti ablativi sui beni nella sua disponibilità, abbiano indotto il Pesce a gestire con maggiore cura (rectius: con una migliore capacità di occultamento) i proventi derivantigli dal traffico di sostanze stupefacenti.
L’attività imprenditoriale oggetto della presente indagine è stata avviata il 3.1.2005, quando cioè l’indagato era ancora sottoposto a misura di prevenzione personale e sussisteva, perciò, il presupposto legislativo per potere, senza indugio, aggredire il patrimonio illecitamente formato (ed infatti, il Pesce ed i suoi familiari avevano prodotto redditi appena sufficienti per garantirsi le loro primarie necessità ordinarie).
Paterna Erminda è moglie di Giovinazzo Domenico, già sottoposto a numerosi procedimenti penali per reati contro il patrimonio, arrestato in flagranza per detenzione e traffico di sostanza stupefacente nell’agosto del 2004, oggetto di un tentato omicidio da parte di ignoti nel luglio del 2005 e sottoposto alla sorveglianza speciale di P.S., con decreto del Tribunale di Reggio Calabria del luglio del 2005.
Nel periodo intercorrente tra il 1996 ed il 2004, la Paterna ha percepito redditi solo nel primo anno ed in misura estremamente modesta (£. 1.180.000 da lavoro dipendente). Parimenti deve dirsi del marito il quale risulta avere percepito redditi da lavoro dipendente solo nel 2000 (pari a £. 560.000).
Le necessità economiche della famiglia Giovinazzo – Paterna sono amplificate dalla presenza di cinque figli.
Si segnala nella informativa del GICO (vedi pag. 14) come Paterna Erminda, nel corso del 2005, svolgesse l’attività di collaboratrice domestica.
Nonostante la sostanziale incapienza economica e l’insussistenza di pregresse esperienze imprenditoriali specifiche, l’apparenza documentale attesta come la Paterna, nel settembre del 2004, abbia avviato un’attività di commercio al dettaglio di articoli sportivi e confezioni per adulti, con insegna “Sport House”. I dati fiscali relativi a tale attività (poi cessata il 6.7.2005), per il 2004, attestano un totale dei costi di avviamento dichiarati pari ad € 62.283,00, a fronte di operazioni attive pari ad € 25.366,00.
Ma nonostante il sostanziale fallimento economico ed imprenditoriale dell’attività in questione, la collaboratrice domestica, priva di redditi, Paterna Erminda, il 3.1.2005, in apparenza, avviava l’attività commerciale “Market Alimentare”, con sede in Rosarno.
Si tratta di un esercizio commerciale sviluppato su un’area di mq. 230 circa, con attiguo deposito che occupa un’abitazione a due piani.
E’ evidente, perciò, come Paterna Erminda non avesse né le qualità personali, né le capacità economiche per avviare e gestire le citate attività imprenditoriali, che sono intestate solo fittiziamente a lei, mentre deve essere cercata altrove la reale titolarità dell’esercizio commerciale.

Si è già accennato che il Tribunale di Reggio Calabria, Sezione Misure di Prevenzione, avesse disposto la confisca (con provvedimento divenuto irrevocabile) della “Central Market” di Ferraro Angela & C. S.a.s.. Quest’ultima aveva sede negli stessi locali in cui esercita la propria attività la ditta intestata alla Paterna ed identica è pure la tipologia merceologica oggetto dell’esercizio commerciale.
Dalla informativa del GICO si apprende come l’immobile in questione sia di proprietà di tale Grillea Gaetano. Escusso a s.i.t., in data 16.2.2006, costui riferiva come il locale, unitamente ad un’attigua abitazione a due piani utilizzata come deposito, fosse stato locato alla sig.ra Ferraro, moglie di Pesce Salvatore, da oltre dieci anni. In realtà, l’immobile è stato locato alla famiglia Pesce da un tempo ancora precedente, atteso che il Grillea ha rammentato di avere ricevuto i pagamenti dei canoni anche dai Curatori nominati dal Tribunale Fallimentare (si rammenta che la sentenza dichiarativa del fallimento risale al febbraio 2004). E’ poi interessante notare come il Grillea, riferendosi all’attualità, abbia affermato che “…l’immobile è nella disponibilità della Ferraro Angela e nello stesso esercita l’attività di un supermercato…omissis…intestato ad altra persona che io non conosco…”.
Non si tratta solo di una percezione del Grillea, sebbene particolarmente qualificata, in quanto, proveniente dal titolare dell’immobile in cui si esercita l’attività in questione.
E’ infatti, certo e provato documentalmente (il contratto di locazione è stato registrato), come la conduttrice dell’immobile sia Ferraro Angela, ma potrebbe ipotizzarsi che costei l’abbia affittato alla Paterna.
Ma l’alternativa ipotizzata è risolta dallo stesso Grillea. Costui, infatti, ha riferito come dal 2003 in poi il canone gli fosse pagato in contanti direttamente dal Pesce Salvatore e, talvolta, dalle figlie Marina e Giusi, presso il supermercato dove egli stesso si recava a prendere i soldi. Ma “…ultimamente, da circa due mesi, avendo avuto delle difficoltà a riscuotere il canone di locazione, faccio la spesa nel supermercato e sconto il canone di locazione…”.
L’affermazione ha un carattere decisivo, al fine di ricondurre la reale titolarità dell’attività economica oggetto della presente richiesta al Pesce, anche per il tramite dei suoi familiari. Ed infatti, la compensazione del credito locatizio, attraverso il prezzo dovuto per la spesa quotidiana al supermercato consente di identificare in un unico soggetto il conduttore e l’esercente l’attività commerciale. Tale soggetto è proprio Pesce Salvatore – per il tramite della moglie Ferraro Angela (si ripete così lo stesso schema emerso in sede di confisca della precedente omologa attività imprenditoriale, disposta dal Tribunale di Reggzio Calabria, sezione Misure di Prevenzione) – che, per ciò, ha fatto intestare fittiziamente l’esercizio commerciale alla Paterna, per investire occultamente i profitti derivantigli dalle plurime attività di narcotraffico a cui è dedito, eludendo così i presidi legislativi posti in materia di misura di prevenzione patrimoniale. Peraltro, il controllo dell’esercizio commerciale agli interessi familiari era garantito dalle figlie Marina e Giusi, formalmente impiegate nel supermercato, ma in realtà cogestrici di fatto dello stesso, per conto del padre (ed infatti – si legge nella informativa del GICO – come, nel corso di un’ispezione fiscale svolta nel supermercato, era stata proprio Marina Pesce a rappresentare la ditta).

Si rinvia infine ai colloqui intercettati riportati al capo che segue per un’ulteriore conferma dei dati riferiti, nonché dal seguente passaggio della Informativa N.I.C. Polizia penitenziaria n. 1983 dell’11.06.2007 tratto da pagina 297 a pagina 298, laddove si legge che dall’informativa inviata all’A.G. dal Commissariato di Polizia di Stato di Polistena (RC) nell’ambito del procedimento penale nr. 7648/05 RGNR , laddove emerge che GIOVINAZZO Domenico e la moglie PATERNA Erminda spesso commentano le vicende che hanno visto coinvolta la famiglia facente capo a PESCE Salvatore in relazione ai fatti del presente procedimento penale. Ad esempio i due fanno riferimento al sequestro del market ubicato in via Zita nel Comune di Rosarno, che era intestato alla PATERNA ma di fatto di proprietà dei PESCE, ed in tale circostanza Erminda si lamentava del fatto che nessuno dei PESCE l’aveva erudita in ordine a quello che lei avrebbe dovuto dire nel caso in cui si fosse verificata una cosa del genere confermando tra l’altro di non avere nessuna documentazione in merito. Analogamente i due commentano, sempre facendo riferimento alle vicende dei PESCE, il sequestro del panetto di hashish effettuato a carico di PESCE Francesco così come il sequestro dell’oro, effettuato a carico di FERRARO Angela. In entrambi i casi i coniugi tendono a manifestare preoccupazione sulla sorte degli esponenti della famiglia PESCE.

20) Pesce Salvatore, Pesce Francesco cl. 84, Pesce Giuseppina, Pesce Marina
reato p. e p. dagli artt. 110 c.p.,  12 quinquies D. L. n. 306/92, 7 D.L. n. 152/91, perché, in concorso tra loro, Pesce Salvatore attribuiva fittiziamente a Pesce Francesco – Pesce Giuseppina – Pesce Marina la titolarità dell’attività commerciale, avente ad oggetto la vendita al dettaglio di abbigliamento, calzature e pelletterie, denominata “EXCLUSIVE” di PESCE Marina & C., S.n.c., operante in Rosarno (RC), via Empoli n. 1, che in realtà egli gestiva direttamente o per il tramite dei citati familiari.
Condotta posta in essere al fine eludere le disposizioni di legge che consentono il sequestro e la confisca dei beni, in materia di misura di prevenzione ovvero per agevolare il riciclaggio dei proventi dell’attività di narcotraffico, estorsione ed altri delitti contro il patrimonio a cui Pesce Salvatore e Pesce Francesco erano dediti, per come descritto nei restanti capi di imputazione.
Fatti aggravati, in quanto consumati avvalendosi delle condizioni di associati mafiosi di Pesce Salvatore e Pesce Francesco ed anche al fine di agevolare l’attività dell’associazione di appartenenza.
Commesso in Rosarno (RC) nel periodo marzo 2003/novembre 2004.

Al riguardo, si riportano le risultanze investigative della polizia giudiziaria operante:
a) stralcio dell’informativa di reato n. 18800 del 20.6.2007 della Guardia di Finanza – G.I.C.O. – di Catanzaro, da pagina 15 a pagina 19:

“Dalle dichiarazioni dei redditi presentate dai fratelli PESCE Marina, PESCE Francesco e PESCE Giuseppina, rilevate dalle banche dati dell’Anagrafe Tributaria per il periodo compreso tra il 1994 e il 2004, che di seguito si riportano, è risultato che relativamente all’anno 2003 hanno indicato redditi da partecipazione (allegato 22):
– PESCE Marina
Nel periodo sopra indicato, il soggetto ha presentato solo la dichiarazione dei redditi per l’anno 2003, indicando i seguenti dati:

Anno d’imposta    Natura redditi    Importo
2003    Partecipazione    Euro 6.238,00

– PESCE Francesco

Nel periodo specificato, il soggetto ha presentato le dichiarazione dei redditi per gli anni 2002 e 2003, indicando i seguenti dati:

Anno d’imposta    Natura redditi    Importo
2002    Partecipazione    Euro 388,00
2003    Partecipazione    Euro 6.238,00

– PESCE Giuseppina

Nel periodo considerato, il soggetto risulta aver presentato la dichiarazione dei redditi per l’anno 2003 e percepito redditi nell’anno 1997, come di seguito indicato:

Anno d’imposta    Natura redditi    Importo
1997    Lavoro autonomo    Lire 84.000
2003    Partecipazione    Euro 6.238,00

L’attività d’indagine volta a individuare l’origine dei redditi da partecipazione ha consentito di appurare che i menzionati fratelli PESCE sono stati soci, dal 2003, di una società in nome collettivo con ragione sociale “EXCLUSIVE” di PESCE Marina & C., con sede in Rosarno (RC), via Empoli n. 1, esercente l’attività di commercio al dettaglio di abbigliamento, calzature e pelletterie (allegato 23).
Appare opportuno evidenziare alcune vicende storiche relative alla suddetta società:
–    in data 4.10.2002, PESCE Francesco, unitamente a tale MEGNA Antonio, nato a  Polistena (RC) il 28.12.1982, ha costituito una S.a.s. con ragione sociale “M.P. di MEGNA Antonio & C., con sede in Rosarno (RC), via Empoli n. 1, con un capitale di euro 15.000,00, equamente diviso;
–    nella citata società, MEGNA Antonio ricopriva la carica di socio accomandatario e PESCE Francesco la carica di socio accomandante;
–    in data 3.3.2003, MEGNA Antonio ha ceduto le proprie quote di partecipazione nella società a PESCE Marina per euro 5.000,00 e a PESCE Giuseppina per euro 2.500,00. Inoltre, PESCE Francesco, ha ceduto parte della propria quota pari a euro 2.500,00 a PESCE Giuseppina. Pertanto a tale data il capitale sociale risultava equamente diviso tra i fratelli PESCE con una quota pari a euro 5.000,00 ciascuno;
–    nella medesima data la S.a.s. “M.P. di MEGNA Antonio & C.” ha mutato forma giuridica e ragione sociale, divenendo la S.n.c. “EXCLUSIVE di PESCE Marina & C.”, con capitale sociale di euro 15.000,00, equamente diviso fra i soci fratelli PESCE;
–    amministratore della costituenda S.n.c. è stata nominata PESCE Marina;
–    in data 22.11.2004, la citata S.n.c. “EXCLUSIVE di PESCE Marina & C.” è stata dichiarata fallita dal Tribunale di Palmi.

Dagli accertamenti effettuati presso la Sezione fallimentare del Tribunale di Palmi è stato appurato che con sentenza del 22.11.2004, lo stesso Tribunale aveva dichiarato il fallimento della S.n.c. “EXCLUSIVE di PESCE Marina & C.”, nonché dei soci illimitatamente responsabili PESCE Giuseppina, PESCE Marina e PESCE Francesco (allegato 24).
Con lo stesso decreto è stato nominato curatore fallimentare la d.ssa Francesca MILITANO la quale, in data 20.1.2005, recatasi presso la sede della società fallita per effettuare l’inventario ex art. 87 L.F., aveva evidenziato l’impossibilità di procedere allo stesso, in quanto, presso la sede di via Empoli n. 1, era esercitata un’altra attività commerciale relativa alla vendita di prodotti alimentari.
In tale circostanza PESCE Marina, amministratore della società fallita, dinanzi al  curatore aveva dichiarato che nei locali, come era evidente, non era più esistente la merce dell’attività di abbigliamento e che non sapeva dove si trovava in quanto realmente di tutti gli affari della società fallita si occupava il padre PESCE Salvatore che, al momento, si trovava fuori paese  (allegato 25).
Dalle intercettazioni dei colloqui effettuati dal detenuto PESCE Salvatore con i propri familiari, presso la Casa Circondariale di Palmi, sono emersi significativi elementi da far ritenere che la titolarità e la disponibilità reale dell’attività esercitata dalla “EXCLUSIVE SNC”, era in capo allo stesso PESCE Salvatore.
In particolare, nel colloquio del 24 giugno 2006 (allegato 19) PESCE Salvatore, rivolgendosi alla moglie, dice:” Comunque abbiamo parlato, poi mi ha detto se… Marina mi dice una cosa, Santambrogio me ne dice un’altra. Il reato c’è quando un sorvegliato fa un’attività commerciale a nome di altri, perché non la può fare, e il reato c’è e porta fino a 6 anni, la condanna. Omissis… Però, io volevo sostenere una cosa, Santambrogio me ne dice un’altra, e me la dice pure giusta, io volevo sostenere che ho fatto tutto io, invece io devo dire che non ho fatto io, che sia il Market, sia il negozio erano dei figli, che non erano miei, che io lavoravo là per conto dei figli, perché i figli non ne hanno reato, facendo così. Omissis… No, io quando sono uscito dal carcere, i figli miei (incompr) Marina (riferito alla figlia) aveva i soldi del matrimonio, Giu… (incompr), hanno deciso di fare…
All’affermazione di PESCE Salvatore, relativa ai soldi del matrimonio della figlia Marina, la moglie lo corregge dicendo:”Sì, i soldi del matrimonio, si è sposata dopo”.
E ancora nel colloquio del 1 luglio 2006 (allegato 26) tra PESCE Salvatore, la moglie FERRARO Angela e i figli Marina e Francesco, è avvenuta la seguente conversazione:

Legenda:
PESCE Salvatore: Salvatore;
FERRARO Angela: Angela;
PESCE Marina: Marina.
…omissis…
Angela     Come ti sei preparato per l’interrogatorio?
Salvatore    Dico che i negozi erano (riferendosi ai figli) suoi.
Angela     Ah!
Salvatore    Gli dico che i negozi erano suoi.
Angela     Di chi?
Marina    Certo, se rispondevano noi, la firma è mia, il mio era.
Angela     No perché lui era sorvegliato ed è reato, sennò prende 5 anni di carcere.
Salvatore    Io gli dico che il negozio, che quando sono uscito dal carcere, loro hanno deciso di fare un negozio di abbigliamento, omissis…

Dalle sopra riportate conversazioni emerge inequivocabilmente come di fatto, la EXCLUSIVE S.n.c. era una società gestita da PESCE Salvatore, tanto più che quest’ultimo confida ai suoi familiari, in un primo momento, l’intenzione di rivelare agli investigatori tale gestione, cosa poi non portata a compimento in relazione al consiglio del suo legale di fiducia, il quale lo informa che “si configura il reato quando un sorvegliato intesta un’attività commerciale ad altri”.
Tale assunto trova conforto anche nella mancanza di potenzialità finanziaria da parte dei figli che, come precedentemente riportato, non hanno mai dichiarato redditi ad eccezione del 2003, anno di subentro nella compagine societaria della EXCLUSIVE S.n.c., fatto ben noto anche all’indagato PESCE Salvatore che, al fine di trovare una giustificazione sulla provenienza dei capitali necessari, suggeriva ai propri familiari di legittimare l’investimento con i soldi ricevuti dal matrimonio della figlia Marina, cosa  tra l’altro non possibile in quanto, come fattogli notare dalla moglie nel corso della medesima conversazione, il matrimonio è avvenuto in data successiva all’investimento.
Ulteriore conferma della gestione di fatto della società da parte di PESCE Salvatore è data dalle già riportate dichiarazioni della figlia Marina, rilasciate al curatore fallimentare, con le quali aveva affermato che “ad occuparsi realmente degli affari della società fallita era il padre”.

b) stralcio dell’informativa di reato n. 1983 dell’11.6.2007 della Polizia Penitenziaria N.I.C. di Roma, da pagina 9 a pagina 11:
“In particolare, nei colloqui tenutisi in data 24/06/2006 e 01/07/2006, PESCE Salvatore riferisce ai suoi congiunti presenti quale strategia difensiva intende adottare, ovvero, lo stesso manifesta l’intenzione di dichiarare che le attività commerciali poste in sequestro non erano di sua proprietà, bensì, le stesse erano di proprietà dei propri figli, e, nell’occasione, descrive appunto i fatti da rappresentare all’Autorità Giudiziaria.
Tutto questo al solo fine di evitare l’imputazione ex art 12 quinquies D.L. 306/9, nonché mantenere il possesso dei beni.

Colloquio detenuto PESCE Salvatore del 24 giugno 2006
Dalle ore 12:14:05”
Salvatore:    Sai cosa mi ha mandato a dire il Giudice?
Angela:                  A te? Con chi?
Salvatore:    Con Marina?
Angela:                  Eh?
Salvatore:    […] Gli ha detto: “Avvocatessa, dica a Salvatore Pesce, anche se abbiamo giocato al pallone insieme…”, abbiamo giocato contro al pallone, parecchie volte…
Angela:                   Infatti questo bastardo mi ha detto: “Signora, ma Salvatore giocava al pallone?”.
Salvatore:    […] Gli ha detto: “Anche se abbiamo giocato al pallone insieme, se si vuole fare un patteggiamento, gli do 5 anni”.
Angela:                  E di cosa? Il patteggiamento di cosa?
Salvatore:    Per il reato che ho fatto.
Angela:                  Quale reato?
Salvatore:    Per il … allora, la legge prevede…
Angela:                  Per questo sequestro?
Salvatore:    Sì.
Angela:                  Mizzica, non vuole niente.
Salvatore:    Marina mi dice una cosa, e Santambrogio me ne ha detto un’altra. Secondo me Santambrogio ha pure ragione, però (incompr.) Santambrogio abbiamo parlato, non mi piace come …., gli ho detto io se ha telefonato all’avvocato di Roma e mi ha detto che per Roma “questo solo io te lo posso fare”, mi ha detto: “Solo io …”; gli ho detto: “Tu mi hai fatto mettere un altro avvocato”; Mi ha detto: “Io no, tu li hai voluti mettere”, gli ho detto io: “No, tu mi hai detto di mettere l’avvocato, non io”.
Angela:    A Gaito?
Salvatore:    Comunque abbiamo parlato, poi mi ha detto se… Marina mi dice una cosa, Santambrogio me ne dice un’altra. Il reato c’è quando un sorvegliato fa un’attività commerciale a nome di altri, perché non la può fare, e il reato c’è e porta fino a 6 anni, la condanna.
Angela:                  Mizzica!  
Salvatore:    Va beh, sono discorsi che facciamo (incompr.) facciamo processi (incompr.). Però, io volevo sostenere una cosa, Santambrogio me ne dice un’altra, e me la dice pure giusta, io volevo sostenere che ho fatto tutto io, invece io devo dire che non ho fatto io, che sia il Market, sia il negozio erano dei figli che non erano miei, che io lavoravo là per conto dei figli, perché i figli non ne hanno reato, facendo così.
Angela:                  Sì.
Salvatore:    Io, invece, ho il reato. E io… (incompr.)…
Angela:                  Tu gli hai dato una mano, li hai aiutati.
Salvatore:    No, io quando sono uscito dal carcere, i figli miei (incompr.) Marina (riferito alla figlia) aveva soldi del matrimonio, Giu… (incompr.), hanno deciso di fare…
Angela:                  Sì, i soldi del matrimonio, si è sposata dopo.
Salvatore:    No, va beh, adesso gli dico che si sono fatti un negozio loro, che loro si sono fatti un negozio, e gli davo una mano nel negozio, che conoscevo rappresentanti,  e lavoravo con i figli miei.
Angela:                  Si, ma se quello dice che vuole che i figli dimostrano come (incompr.) i soldi?
Salvatore:    Ah?
Angela:                  Dimostrano.
Salvatore:    (Riferendosi alla figlia minore presente al colloquio) Con i soldi suoi, con… e pare che devi dimostrare che hai comprato con soldi, infatti hai fatto fallimento perché non avevi soldi. Gli devo dire questo qua. Poi, che quando hanno chiuso il negozio, mi hanno detto: “Papà, vogliamo farci il market (incompr.)”; siccome si sono messi (incompr.) c’era quello di Laureana, pure (incompr.). Gli ha detto: “Glielo avevo venduto ad uno di Laureana. Poi, questo i soldi non glieli ha dati”, gli ho detto io: “Prendetevela, che faccio che se lo compri, faccio comprare (incompr.) tutte cose Ettore Tassi”, se le è comprate, con i soldi che ho recuperato, gli ho fatto comprare, io, l’arredamento; poi, si sono fatti il market. I figli miei… quando avevo i figli (incompr.), io gli davo una mano, non sapevo dove andare, cosa fare, e gli davo una mano là dentro, gli facevo conti, gli davo una mano, gli pulivo, gli gestivo i magazzini. Devo vedere come sistemare, e dirgli che sono le loro le attività non le mie. Che loro, così… il reato non c’è. Che io, così, il reato non l’ho fatto. Io lavoravo per conto loro, io lavoravo là dentro con loro, per aiutarli.
Angela:                  E Marina, che dice?
Salvatore:    Marina, invece, mi diceva di sostenere tutti questi discorsi che (incompr.). però, io devo dire: siccome c’erano un sacco di nomi di persone, a quel punto io devo dire che tutti questi nomi di persone, questi nomi che hanno trovato là dentro, siccome io mi occupavo di questioni di contabilità, e cose, era gente che aveva a che fare con me. I figli miei non sapevano che avevo a che fare con Tirintino, che avevo a che fare con assegni, o questo qua; però, è questa la realtà.

Colloquio detenuto PESCE Salvatore del 01 luglio 2006
Dalle ore 10:54:12”
Angela:    Come ti sei preparato per l’interrogatorio?
Salvatore:     Dico che i negozi erano (riferendosi ai figli) suoi.
Angela:    Ah?
Salvatore:     Gli dico che i negozi erano suoi.
Angela:     Di chi?
Marina:     Certo, se rispondevamo noi, la firma è mia, il mio era.
Angela:    No perché lui era sorvegliato ed è reato, sennò prende 5 anni di carcere.
Salvatore: Io gli dico che il negozio, che quando sono uscito dal carcere, loro hanno deciso di fare un negozio di abbigliamento, perché mio figlio e un altro ragazzo, (incompr.) distribuzione, volevano fare un’importazione di caffé di Torino, poi non hanno fatto niente e siccome hanno (incompr.) la società aperta, i figli miei hanno deciso di farsi… di cambiarla, e di farsi un negozio di abbigliamento. Poi gli spiego che io aiutavo i figli miei, che poi il negozio è andato male e hanno deciso che (incompr.) a uno di Laureana tramite uno di Rosarno, a uno di Laureana, di venderglielo o di affittarglielo, prime glielo affitta e poi glielo vende, sono passati 2-3 mesi e questo qua soldi non gliene dava, hanno deciso di prenderglielo. Sapete che faccio, ho chiamato a Ettore – gli dico – a Ettore Tassi , e gli ho detto se si compra l’arredamento e quello che è rimasto là dentro. Se lo ha comprato e gli ha dato 40.000 euro. Con i 40.000,00 euro (incompr.) e gli ho detto, fate meglio questo, tanto io ho pure una buona esperienza che è da 20 anni che avevo supermercati e cose, e hanno deciso, poi gli ho trovato di comprarsi l’arredamento e li aiutavo, io gli aprivo la Domenica, i figli miei, gli aprivo la mattina alle 06.00 perché i bambini andavano a scuola, tutte queste cose qua. Gli dico: “Per un attimo, mettiamo di lato che il market non era dei figli miei, ed era di Erminda”; gli dico: “Per un attimo (incompr.) che era mio, dite che io nascondevo i proventi, quali proventi?” gli dico: “Innanzitutto dovete dimostrarvi voi, quali erano i proventi della droga, quale reato io ….., in quale processo io ho un reato che è stato consumato. I. 2, gli dico: “Un’attività commerciale come quella, che quando andava bene incassava 1.000 euro, 800, 1.000 euro; dovevi pagare: operai, affitti di casa. I figli miei uscivano a stento. L’unica cosa, che ci prendevamo, in quel market, era la spesa per mangiare. Come si nascondevano questi proventi? Questi grandi proventi, come li nascondevo con il market? Quali sono… quanto è stato aperto? 1 anno è stato aperto, fatevi il totale, per 1 anno, quanti sono stati gli incassi, e vedete quello che si poteva nascondere”.

Appare palese che tale rappresentazione dei fatti non può che essere falsa, ed inscenata al solo fine di evitare l’incriminazione, altrimenti non ci sarebbe alcun motivo di descrivere con tale dovizia di particolari l’intera versione, se non quello di uniformare le rispettive dichiarazioni.

Concludendo, sussistono gravi indizi di colpevolezza con riferimento a quanto contestato ad Angela Ferraro e Marina Pesce”.

Sennonché, sorprendentemente, il Giudice non ha ritenuto dover applicare alcuna misura, per insussistenza delle esigenze cautelari.

Infatti, a pagina 35 così si esprime il Giudice:

“Quanto alle posizioni di Angela Ferraro, Marina Pesce e Mubarakshina Elvira, si deve dare atto che l’art. 275 c. III c.p.p. pone una presunzione di pericolosità, e di adeguatezza della sola misura custodiale in carcere, salvo valutare se sussista alcuno di quegli elementi, indicati nell’art 275 comma 3 c.p.p., e ritenuti dal legislatore idonei a superare la presunzione di persistenza delle predette esigenze in relazione ai delitti, tra gli altri, di cui all’art 416 bis c.p. o ai delitti commessi con modalità mafiose o per agevolare l’attività di associazioni mafiose.
Ritiene questo giudice di dover tenere conto della sostanziale incensuratezza delle indagate (la sola Ferraro ha precedenti lievi e non specifici), e della non documentata attualità delle esigenze, atteso che i fatti contestati risalgono a periodo intercorrente tra il 2003-2004 ed il marzo 2007, e nessun accertamento risulta eseguito in epoca più recente”.

Lo stesso Giudice prosegue enunciando i noti e cristallizzati principi giurisprudenziali sul punto:

“E’ noto che in caso di partecipazione ad associazione di tipo mafioso – premesso in linea di principio che l’esposizione nell’ordinanza impositiva di una misura cautelare personale dei motivi per i quali gli elementi di fatto “assumono rilevanza” non può non tenere “conto anche del tempo intercorso dalla commissione del reato”; ciò in quanto il fattore tempo viene in considerazione non solo relativamente alle esigenze cautelari, ove il parametro temporale assume rilievo prognostico per saggiare il “periculum libertatis”, ma anche con riferimento al quadro indiziario, rispetto al quale il suddetto parametro costituisce criterio per apprezzare le relative fonti in termini di credibilità – è stato puntualizzato per quanto concerne il reato di associazione per delinquere di stampo mafioso, che l’elemento “decorso del tempo” può essere utilmente valutato ai fini di superare la presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari solamente se e da quando risulti che l’indagato è receduto dall’associazione o che la stessa si è sciolta. Data la natura permanente del reato in questione, non è infatti determinante la circostanza che i gravi indizi risalgano nel tempo, perché la data di questi ultimi non equivale a quella della cessazione della consumazione del reato associativo. (Cass. Sez. 6, Sentenza n. 1330 del 10/4/1998, dep. 21/5/1998, Rv. 210537; id. Sez. 3, Sentenza n. 30306 del 10/7/2002, dep. 10/9/2002, Rv. 223361); in senso analogo, Cass. Sez. 2, Sentenza n. 21106 del 27/4/2006, dep. 16/6/2006, Rv. 234657), secondo la quale in tema di misure cautelari personali, il decorso del tempo dalla commissione del reato associativo di tipo mafioso, per il quale v’è un contesto di gravità indiziaria, assume rilievo al fine di superare la presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari solo se e quando risulti con certezza che la persona sottoposta alle indagini abbia irreversibilmente reciso i legami con l’organizzazione criminosa di appartenenza”.

In assoluto contrasto con i principi sopra esposti, il Giudice giunge però alle successive opinabili conclusioni:  

“Nel caso in esame si deve però anche valutare che Mubarakshina (come detto, al più concorrente esterno) e Pesce Marina rivestono ruolo decisamente subordinato ed esecutivo, del tutto privo di autonomia, e non risultano coinvolte in alcun processo decisionale; sono mere attuatrici di ordini dei congiunti detenuti, per le quali basterebbe negare i colloqui, e non saprebbero più come muoversi.
Ferraro Angela risultava, dalle risalenti conversazioni intercettate, certo più addentro nella conoscenza e nei processi decisionali della cosca, ma si deve rilevare come risulti  gravata dell’onere di occuparsi di una figlia minore affetta da grave disabililità, compito cui adempie coadiuvata dall’altra figlia, Marina.
Sono inoltre tutte e tre ormai avulse dal contesto delittuoso di provenienza dei rispettivi uomini e padre, notoriamente molto radicato in certi territori.
Deve quindi affermarsi che, per tutte e tre le posizioni, risultano acquisiti elementi dai quali risulta l’insussistenza di esigenze di cautela”.

Il PM presso il Tribunale di Milano ha proposto appello contro l’ordinanza reiettiva della misura cautelare in carcere nei confronti di FERRARO Angela e PESCE Marina.

Con provvedimento del 17 giugno 2010 (in atti) il Tribunale della Libertà di Milano, in accoglimento dell’appello proposto dal PM, ha applicato la custodia cautelare in carcere nei confronti delle due indagate, dichiarandosi contestualmente incompetente per territorio.

Con provvedimento del 22 dicembre 2010, la Corte di Cassazione ha annullato senza rinvio il provvedimento del Tribunale della Libertà di Milano, definitivamente concludendo la fase cautelare nei confronti delle due indagate.

In data 15 novembre 2010, il Gip presso il Tribunale di Reggio Calabria ha emesso provvedimento coercitivo (qui da intendersi integralmente riportato) nei confronti, tra gli altri, di PESCE Salvatore e del figlio PESCE Francesco cl. 84, per il reato di associazione di stampo mafioso, sostanzialmente confermando il pregnante ruolo svolto dal boss detenuto e dal figlio Francesco, nell’ambito della pericolosa consorteria criminale.  

Al quadro indiziario a carico delle indagate FERRARO Angela e PESCE Marina, come emerso dalla evoluzione della fase cautelare nei loro confronti, si aggiunge adesso un ulteriore e deflagrante elemento di indagine, caratterizzato dalla assoluta novità: le dichiarazioni auto ed etero accusatorie della collaboratrice di giustizia PESCE GIUSEPPINA, rispettivamente figlia e sorella delle indagate sopra citate.
§

LA COLLABORAZIONE CON LA A.G. DI PESCE GIUSEPPINA

In data 14.10.2010, l’indagata PESCE Giuseppina, all’epoca detenuta presso la Casa Circondariale di Milano – San Vittore, veniva sentita, su sua richiesta, da un magistrato appartenente a questo Ufficio e nella circostanza manifestava l’intenzione di collaborare con l’Autorità Giudiziaria, iniziando a rendere dichiarazioni concernenti il contesto mafioso di appartenenza.

PESCE Giuseppina, figlia del boss PESCE Salvatore cl. 64, è accusata di avere svolto, in qualità di partecipe, un delicato ruolo di collegamento e trasferimento di comunicazioni ed ordini tra il padre detenuto e gli altri associati; in particolare, per avere svolto il ruolo di intermediaria circa le specifiche disposizioni date da PESCE Salvatore sui i destinatari e le modalità delle attività estorsive poste in essere dalla cosca, nonché per avere partecipato all’attività di intestazione fittizia di beni e reimpiego dei capitali illeciti del gruppo criminale.  

Sin dal primo interrogatorio, PESCE Giuseppina ha innanzitutto riconosciuto le proprie responsabilità, ammettendo di aver effettivamente svolto il ruolo di intermediaria tra il padre detenuto e gli altri sodali, circa disposizioni e direttive relative alle attività criminali della cosca, oltre ad essersi prestata a intestare fittiziamente attività commerciali, per eludere provvedimenti ablativi della A.G.   

Più in particolare, PESCE Giuseppina:

– ha ammesso l’esistenza della potente cosca di ndrangheta, operante sul territorio della città di Rosarno e con ramificazioni nel nord del paese;    

– dalla posizione privilegiata di figlia del boss PESCE Salvatore (fratello di PESCE Antonino cl. 53, storico capo dell’omonima consorteria criminale), sorella di PESCE Francesco cl. 84, dedito alle attività estorsive gestite dalla famiglia; cugina di PESCE Francesco cl. 78, attualmente latitante, figlio di Antonino cl. 53 e temibile successore al vertice della cosca, ha ricostruito l’intero organigramma della potente famiglia mafiosa, descrivendo il ruolo di ciascun componente, compresi i suoi stretti congiunti;

– ha riferito circa le vicende relative alla successione al vertice della cosca, a causa della detenzione dello zio PESCE Antonino cl. 53, precedente capo indiscusso del gruppo;

– ha descritto l’ascesa al potere del pericoloso cugino PESCE Francesco cl. 78, sottrattosi al provvedimento coercitivo del 28.4.2010 e tuttora latitante;

– ha dettagliatamente indicato attività economiche riconducibili alla cosca mafiosa.

Il ruolo svolto da PESCE Giuseppina all’interno della potente cosca mafiosa e lo stretto legame di sangue che la lega ai sodali rendono il contributo da lei fornito estremamente significativo, nell’ambito di una realtà criminale difficilmente penetrabile e poco permeabile a fenomeni collaborativi.     

Le dichiarazioni fin qui rese dalla PESCE sono apparse analitiche e dettagliate, logicamente compatibili con le pregresse acquisizioni investigative ed hanno riguardato sia fatti nei quali la medesima è stata personalmente coinvolta, per avervi direttamente preso parte od assistito, sia fatti conosciuti in via indiretta, esplicitando sempre le proprie fonti di conoscenza e mettendo, quindi, in condizione questo Ufficio di poter avviare ogni utile verifica al riguardo.

Quanto sin qui riferito da PESCE Giuseppina, del resto, trova importantissime conferme negli esiti di attività di investigazione autonomamente svolte dalla polizia giudiziaria e nell’attività di riscontro prontamente avviata, che ha consentito tra l’altro il rinvenimento di ben 3 bunker, di cui uno all’interno dell’abitazione del latitante PESCE Francesco cl. 78, nella esatta allocazione indicata dalla PESCE, gli altri due rinvenuti all’interno delle abitazioni del latitante LEOTTA Domenico e del suocero di questi.

Sotto tale profilo – e tenuto conto del già delineato contesto di acquisizioni investigative nel quale ha trovato origine e sviluppo l’avviato rapporto di collaborazione – può senz’altro sin d’ora sottolinearsi la rilevanza, la novità e l’attendibilità di tale collaborazione.  

La collaboratrice, a conferma della genuinità della scelta collaborativa, ha effettuato precise e circostanziate chiamate di correo anche nei confronti dei suoi più stretti congiunti (il padre PESCE Salvatore, la madre FERRARO Angela, i fratelli Francesco cl. 84 e Marina), confermando il pesante quadro indiziario nei loro confronti.

Per quanto attiene la chiamata in correità, va necessariamente premesso che costituisce ormai dato giurisprudenziale acquisito, che la stessa abbia natura di prova e, precisamente, di prova rappresentativa, seppure abbisognevole di elementi estrinseci di conferma e, non già di mero indizio (Cfr., tra le tante: Sez. II, 19.2 – 26.4.1993, Fedele ed altri).

La qualificazione giuridica della chiamata in correità – quale elemento di prova, come è dato desumere dall’espressione “altri elementi di prova”- contenuta nel terzo comma dell’art. 192 c.p.p., pur con l’intrinseca limitazione contenutistica che attiene soprattutto alla credibilità concettualmente dubitativa, della necessità di riscontro e di rinforzo con ulteriori elementi di prova, ha restituito dignità  alla stessa rispetto alle acquisizioni giurisprudenziali anteriori, consentendo l’eliminazione di ogni dubbio sulla sua utilizzabilità e ne ha ridotto la distanza rispetto alla testimonianza, al cui livello di efficacia probatoria è in grado di porsi con l’ausilio del riscontro convalidante, che può ben essere omologo e, cioè, elemento di prova della stessa specie. (Cass., Sez. I, 30.1.1992, Abate ed altri; Cass., Sez. VI, Sent. n.2775 del 12.1-16.3.1995).

La Corte, infatti, ha più volte affermato che il valore da attribuire alle dichiarazioni del collaborante sia di piena prova (v. Cass. Sez. 4, Sentenza n. 5821 del 10/12/2004; Cass. 1.10.1996, Pagano), rimanendo condizionata la loro utilizzabilità al reperimento di riscontri tali da confortare l’attendibilità del dichiarante, non in senso generale, ma con riferimento particolare al singolo fatto oggetto della dichiarazione, riscontri sulla cui natura poi il giudice rimane libero di valutare. La funzione del riscontro, pertanto, sarebbe semplicemente quella di fornire il supporto ad un ragionevole convincimento che il dichiarante non abbia mentito (Cass. Pen., n. 3255 del 10/12/2009; Cass. 23.4.1992).
I riscontri, pertanto, non devono essere forniti di autonoma valenza indiziante, ma possono consistere in apporti di qualsiasi natura, atti a confortare un giudizio di attendibilità specifica delle dichiarazioni del collaborante (Cass. Pen., n. 3255 del 10/12/2009; Cass. 1.7.1994, n. 3263).
Ragionando diversamente, infatti, si sarebbe giunti ad una assoluta superfluità della chiamata di correo come autonomo elemento di prova (Cass., Sez. I, 21.9-9.11.1990, n. 14669, Fidenzia; Cass., Sez. II, 7.12.1993-17.1.1994, n. 4947, Alessandrino; Cass., Sez. IV, n. 9509, 11.5-20.10.1993, Ameglio) né, del resto, tale interpretazione sarebbe stata consentita dal secondo comma dell’art. 192 c.p.p. che, in tema di valenza probatoria indiziaria, ha ritenuto necessario esplicitare rigidi requisiti, volutamente tralasciati, invece, per le dichiarazioni dei collaboranti.
Tali riscontri, in caso di unica chiamata in correità, devono essere individualizzanti, come  affermato dalla Suprema Corte, secondo cui: “In  caso  di  unica chiamata di correità, le dichiarazioni rese a carico dell’imputato  debbono trovare riscontri probatori individualizzanti; questi, tuttavia,  possono  essere  dedotti  dagli elementi di causa e la valutazione del  giudice può basarsi anche su rilievi logici che in modo coerente e fondato  riconducano  all’imputato  riscontri singolarmente non univoci rispetto alla sua persona.” (Cass. Pen., n. 3255 del 10/12/2009; Cass pen. Sez. 1, Sentenza n.1263 del 20/10/2006; SEZ. 2 – SENT.  21621  DEL 28/05/2001).

Sempre sul tema dei riscontri si richiamano i principi affermati dalla S.C., secondo cui:  “La chiamata in reita’ fondata su dichiarazioni “de relato”, per poter assurgere  al  rango di prova pienamente valida a carico del chiamato ed essere posta  a  fondamento di una pronuncia di condanna, necessita del positivo apprezzamento  in ordine alla intrinseca attendibilità non solo del chiamante, ma  anche delle persone che hanno fornito le notizie, oltre che dei riscontri esterni  alla  chiamata  stessa, i quali devono avere carattere individualizzante,  cioè’  riferirsi ad ulteriori, specifiche circostanze, strettamente e concretamente  ricolleganti  in modo diretto il chiamato al fatto di cui deve rispondere,  essendo necessario, per la natura indiretta dell’accusa, un più rigoroso  e  approfondito  controllo  del  contenuto narrativo della stessa e della sua efficacia dimostrativa.” (Cass.  Sez. Un., SENT.  45276  DEL 24/11/2003  (UD. 30/10/2003) RV.  226090).

Per quanto attiene alle caratteristiche che la chiamata in correità deve presentare affinché il giudice  possa ritenerla intrinsecamente attendibile, la giurisprudenza le ha individuate nella: genuinità – non alterazione del suo contenuto da interventi di terzi – , spontaneità – non coartazione da parte di terzi -, disinteresse – assenza di motivi di astio tra il chiamante ed il chiamato in correità, tali da far ritenere che il primo abbia in tutto o in parte distorto i fatti riferiti a danno del secondo -, costanza – cioè reiterazione conforme ed in più sedi delle dichiarazioni accusatorie ed assenza di ritrattazioni attendibili -, logica interna del racconto – assenza di interne contraddizioni o di dichiarazioni di per se stesse scarsamente attendibili -, precisione, completezza e diffusione descrittiva.
Altro oggetto di valutazione è poi costituito dal grado di partecipazione del dichiarante agli eventi narrati, partecipazione che  può essere più o meno diretta, totale o parziale, sino a giungere alla chiamata in correità cosiddetta “de relato”(v. Cass., Sez. VI, 2.6 – 24.8.1993, n. 7997, Geido ed altri; Cass., Sez. Un., 21.10.1992 – 22.2.1993, Marino).
Con la sentenza delle Sezioni Unite del 1992, anzi, la Suprema Corte ha ampliato l’area di giudizio in ordine all’attendibilità intrinseca della chiamata in correità, alla “credibilità” della persona del dichiarante in relazione, fra l’altro, alla sua personalità, alle sue condizioni socio economiche e familiari, al suo passato, ai rapporti con i chiamati in correità ed alla genesi remota e prossima della sua risoluzione alla confessione e dell’accusa dei coautori e complici.

Quanto al rapporto tra attendibilità intrinseca da un lato e riscontri esterni dall’altro e, per altro verso, a quello degli effetti probatori della valutazione della chiamata stessa, è costante l’insegnamento secondo il quale la valutazione della medesima – dopo che se ne sono esaminati tutti i profili particolari – deve essere globale ed unitaria e che, qualora tale valutazione sfoci in un giudizio positivo di attendibilità sufficientemente riscontrata, le dichiarazioni del chiamante in correità possano fungere da prova piena del fatto.

Da tale valutazione globale derivano conseguenze in ordine al menzionato rapporto attendibilità intrinseca/riscontri esterni: “La norma è perciò tutta bilanciata sull’obbligo della considerazione unitaria degli elementi emersi, con la conseguenza che lo stesso pacifico criterio che distingue l’approfondimento accertativo, riguardante l’attendibilità estrinseca, non può sottrarsi al criterio della congiunta analisi, sicché sarebbe inesatto attribuire al primo esame, se di esito incerto e contraddittorio, valenza esclusiva, a priori, del confronto con ulteriori elementi, proprio perché dal coevo apprezzamento dell’attendibilità estrinseca potrebbero derivare elementi di conferma in grado di bilanciare le risultanze del primo approccio. In tale senso spinge, del resto, anche il rilievo che l’articolazione del terzo comma in esame mostra di indirizzarsi nella direzione di una limitazione della rilevanza dell’esame di credibilità intrinseca, mettendo in evidenza la sola necessità della valutazione unitaria degli elementi di prova, ai fini dell’accertamento di attendibilità” (Cass., sez. I, Abate, cit.).

Ovviamente l’art. 192 c.p.p. pone limiti ineludibili di esistenza di entrambi i requisiti: anche posta la massima  credibilità del chiamante in correità, non per questo il requisito della concorrenza di convergenti elementi di prova potrà essere annullato e, viceversa, un fatto non potrà dirsi provato, quali che siano i riscontri acquisiti, qualora il chiamante in correità sia privo di qualsiasi attendibilità. E’ stato, infatti, affermato che: “L’esistenza di eventuali imprecisioni della chiamata in correità non è di per sé sufficiente ad escludere l’attendibilità del collaborante allorché, alla luce di altri obiettivi riscontri, il giudice di merito valuti globalmente, con prudente apprezzamento, il materiale indiziario e ritenga, con congrua motivazione, la prevalenza degli elementi che sostengono la credibilità dell’accusa” (Cass. Sez. 1, Sentenza n.46954 del 04/11/2004; Cass., Sez. I, 17.1-11.3.1994, n. 242, Pistillo).
Del resto, il complessivo effetto probatorio derivante da una chiamata in correità che sia valutabile positivamente sotto il profilo intrinseco, potrebbe essere inficiato qualora siano acquisiti elementi probatori estrinseci, anche di natura logica, che contrastino con le dichiarazioni rese dal collaborante.

Contemporaneamente, è stato affermato che l’eventuale smentita che il dichiarante riceva per una parte delle sue dichiarazioni non comporti automaticamente l’inattendibilità delle dichiarazioni nel loro complesso: “E’ perfettamente legittima la valutazione frazionata delle dichiarazioni accusatorie provenienti da taluno dei soggetti indicati ai commi terzo e quarto dell’art. 192 c.p.p., con attribuzione, quindi, di piena attendibilità e valenza probatoria a tutte e solo quelle parti di esse che risultino suffragate da idonei elementi di riscontro”  (Cass., Sez. I, Sent. n. 6992 del 30.1-16.6.1992, Altadonna); ed ancora: “L’attendibilità di un chiamante in reità, ancorché denegata per una parte delle sue dichiarazioni, non coinvolge necessariamente anche le altre parti, essendo compito del giudice verificare e motivare in ordine alle diversità delle valutazioni eseguite a proposito delle plurime parti di dichiarazioni rese da uno stesso soggetto” (Cass., sez. I, Sent. n. 1429 del 1.4-12.5.92, Genovese ed altri).

Tali principi giurisprudenziali sono stati ribaditi dalla Suprema Corte Sezione VI con la sentenza 10.3.1995 n. 4162 e, più recentemente da Cassazione Sez. 6, Sentenza n .6425 del 18/12/2009 Sezione I, secondo cui: “In tema di chiamata di correo, è legittima la valutazione frazionata delle dichiarazioni accusatorie relative ad una parte del racconto, soprattutto quando i fatti narrati siano per lo più lontani nel tempo e si riferiscano ad una serie di episodi talora appresi non direttamente, ma solo in conseguenza delle rivelazioni degli autori materiali dei singoli reati”; ed ancora Cass. Pen.  SENT.  02884  DEL 09/03/2000  (UD.20/01/2000) –   RV.  215505,  secondo cui:  “In  virtù del principio della cosiddetta “frazionabilità” delle dichiarazioni  rese da chiamanti in correità, l’attendibilità della dichiarazione accusatoria,  anche  se  negata  per una parte del racconto, non ne coinvolge necessariamente quelle che reggano alla verifica del riscontro.”

In tema di valutazione della chiamata in correità proveniente da soggetti che abbiano reso dichiarazioni complesse, oggetto della valutazione, inoltre, è la dichiarazione complessiva del chiamante, relativamente ad un determinato episodio criminoso nelle sue componenti oggettive e soggettive, e non ciascuno dei punti riferiti dal chiamante, sicché, per stabilire l’attendibilità di una dichiarazione complessa di un coimputato, concernente più chiamate strettamente collegate, si può tenere conto anche solo di alcuni aspetti significativi di esse, in guisa che, una volta effettuata l’operazione con esito positivo, legittimamente il giudice di merito può, previa adeguata valutazione, riconoscere valore probatorio a tutta la dichiarazione e non solo a quella specificamente riscontrata. Inoltre “i riscontri richiesti dalla legge non debbono riguardare ogni aspetto oggettivo e soggettivo della vicenda, ma piuttosto apparire idonei a sorreggere la ragionevole convinzione che il chiamante non abbia mentito” (Cass. Sez. VI Sent. N. 7845 del 8.8.1997).

In merito alla natura dei riscontri esterni, ancora, la S.C. ha precisato che – qualora il dichiarante abbia percepito direttamente i fatti riferiti e non abbia solo riferito circostanze “de relato” – è sufficiente che  tali riscontri  rendano verosimile il contenuto delle dichiarazioni del correo:
“La  dichiarazione  accusatoria  “de  relato”, resa da un collaboratore di Giustizia,  puo’ integrare la prova della colpevolezza solo se e’ sorretta da adeguati  riscontri  estrinseci che – a differenza di quanto e’ richiesto per la  chiamata  in  correità – devono riguardare specificatamente il fatto che forma  oggetto  dell’accusa  e la persona dell’incolpato, in quanto il minore tasso  di affidabilità di una dichiarazione resa su accadimenti non direttamente  percepiti  dal  dichiarante rende necessaria l’individualizzazione del riscontro.”
(Cass. 10.5.2002 n. 17804 – RV. 221695).

Va, infine, precisato che non può desumersi l’inaffidabilità delle complessive affermazioni del dichiarante nell’ipotesi in cui queste, pur trovando positive conferme nei confronti di taluni soggetti, non abbiano trovato riscontri oggettivi e individualizzati su altri, non potendosi ritenere che la impossibilità di utilizzare in termini di prova, ai sensi dell’art. 192 c.p.p., tali dichiarazioni, si traduca automaticamente nella non veridicità delle stesse.

Le dichiarazioni accusatorie rese da PESCE presentano tutte le caratteristiche richieste dalla giurisprudenza ai fini del relativo vaglio di attendibilità.  

Giova ribadire che, dalla posizione privilegiata di figlia del boss PESCE Salvatore (fratello di PESCE Antonino cl. 53, storico capo dell’omonima consorteria criminale), sorella di PESCE Francesco cl. 84, dedito alle attività estorsive gestite dalla famiglia; cugina di PESCE Francesco cl. 78, attualmente latitante, figlio di Antonino cl. 53 e temibile successore al vertice della cosca, PESCE Giuseppina risulta essere a conoscenza dell’organigramma della potente famiglia di ndrangheta, di cui ha già individuato componenti e rispettivi ruoli.

Le dichiarazioni della collaboratrice risultano, allo stato, ampiamente riscontrate dalle acquisizioni investigative pregresse, di per sé dotate di autonoma valenza probatoria.

Le dichiarazioni di PESCE Giuseppina hanno, altresì, trovato ulteriori pregnanti riscontri su vari fronti investigativi: nelle date del 16 e 22 ottobre, all’esito di perquisizioni mirate, sono stati rinvenuti ben 3 bunker, di cui uno nella esatta allocazione indicata dalla collaboratrice, sotto l’abitazione del cugino latitante PESCE Francesco cl. 78; altri due rispettivamente all’interno dell’abitazione del latitante LEOTTA Domenico e del suocero di questi.
Sempre su indicazione della PESCE, è stata rinvenuta, all’interno della casa coniugale della donna,  e posto sotto sequestro, una pubblicazione su gradi e gerarchie della ndrangheta.     

Quanto fin qui riferito dalla PESCE rappresenta granitico riscontro e naturale completamento del compendio investigativo raccolto nel provvedimento di fermo del 26.4.2010, in larga parte confermato dalle ordinanze di custodia cautelare emesse dai Gip competenti e consacrate dalle varie pronunce del Tribunale della Libertà di Reggio Calabria.

Le dichiarazioni rese dalla collaboratrice hanno, altresì, consentito di aggravare e definitivamente  cristallizzare il quadro indiziario anche nei confronti di quei coindagati, per i quali in sede di convalida dei fermi ed emissione di ordinanza ex art. 27 c.p.p.., non vi era stato accoglimento della richiesta di misura cautelare da parte dei Gip di Palmi e Reggio Calabria.
Tali dichiarazioni sono, infatti, confluite nel provvedimento di fermo del 23 novembre 2010, nei confronti di nove indagati.

L’attendibilità della collaboratrice di giustizia PESCE Giuseppina è stata confermata dalla ordinanza del Gip presso il Tribunale di Palmi in sede di convalida dei fermi del 23 novembre 2010; dal Gip presso il Tribunale di Reggio Calabria adito ex art. 27 c.p.p. e dalle varie pronunce del Tribunale della Libertà di Reggio Calabria (tutte confermative del provvedimento coercitivo) che ne sono seguite.     
***

Le dichiarazioni accusatorie rese della collaboratrice PESCE Giuseppina nei confronti della madre FERRARO Angela e della sorella PESCE Marina, pertanto, rappresentano un sopravvenuto elemento indiziario, a carico delle chiamate in correità.

L’assoluta novità dell’elemento indiziario costituito dalle dichiarazioni della PESCE consente la riapertura della fase cautelare nei confronti delle due coindagate.  

Già nel corso del primo interrogatorio del 14 ottobre 2010, PESCE Giuseppina ha ammesso la partecipazione all’associazione mafiosa del padre PESCE Salvatore, della madre, FERRARO Angela, del fratello PESCE Francesco cl. 84 e della sorella PESCE Marina.

Di ciascun componente il proprio nucleo familiare PESCE Giuseppina ha descritto, con dovizia di particolari, il ruolo ricoperto all’interno del gruppo criminale.

Per quanto attiene alla posizione della madre, FERRARO Angela, la collaboratrice ha riferito che la donna svolge il compito di intermediaria tra il marito detenuto ed il fratello FERRARO Giuseppe, oltre che nei confronti del figlio Francesco cl. 84 e degli altri sodali ancora in regime di libertà.

Sempre nel corso dell’interrogatorio del 14 ottobre 2010,  la collaboratrice ha confermato il ruolo di PESCE Marina all’interno dell’associazione mafiosa, così come emerso dagli atti di indagine.  

PESCE Giuseppina ha, altresì, aggiunto che le due donne avevano il compito di ritirare il denaro provento delle estorsioni presso l’abitazione della nonna BONARRIGO Giuseppa, per consegnarlo al fratello detenuto Francesco cl. 84.
La collaboratrice ha, infatti, in più occasioni, precisato che il denaro provento delle estorsioni era depositato dai cugini (figli di PESCE Giuseppe cl. 54 e PESCE Vincenzo cl. 56) presso l’abitazione della nonna paterna  e poi distribuito tra coloro che ne avevano bisogno, tra cui FERRARO Angela, PESCE Marina e la stessa PESCE Giuseppina, per il fratello detenuto PESCE Francesco cl. 84.
Tale specifica circostanza non era emersa nei precedenti atti di indagine e ha consentito di delineare al meglio le condotte imputabili a FERRARO Angela e PESCE Marina.

Tali dichiarazioni sono state confermate dalla collaboratrice nel corso degli interrogatori del 19 e 20 ottobre 2010.

Il grave quadro indiziario a carico delle indagate consente di dimostrare, pertanto, che l’apporto reso all’associazione criminale da FERRARO Angela e PESCE Marina è poliedrico, stabile, continuativo ed assolutamente consapevole.

Le pregresse risultanze investigative a carico delle due indagate forniscono fortissimo riscontro alla chiamata in correità effettuata da PESCE Giuseppina nei loro confronti.

Il quadro indiziario a carico di FERRARO Angela e PESCE Marina, pertanto, alla luce delle sopravvenute dichiarazioni della collaboratrice, risulta aggravato e definitivamente cristallizzato.

Le due indagate, infine, sono state interrogate in data 28 gennaio 2010 da questo PM:
FERRARO Angela si è avvalsa della facoltà di non rispondere;
PESCE Marina – alla quale sono state contestate le dichiarazioni accusatorie rese da PESCE Giuseppina – ha negato ogni responsabilità, non fornendo alcuna logica giustificazione alla chiamata di correo effettuata dalla sorella.    

§
VALUTAZIONE DEL G.I.P.
La vicenda processuale oggetto della richiesta cautelare, che attiene alle imputate Ferraro Angela e Pesce Marina, merita di essere, anche se succintamente, ripercorsa.
Va rammentato, infatti, che il G.i.p. presso il Tribunale di Milano, in sede di convalida del disposto fermo da parte del P.m. presso la Procura Distrettuale di Reggio Calabria, pur in presenza di un quadro probatorio di particolare gravità, poiché rispondente ai requisiti previsti dall’art. 273 c.p.p., con riferimento al reato di partecipazione ad associazione mafiosa, indicato al capo A), ed ai reati satelliti di cui ai capi 12), 13), 19) e 20) della provvisoria imputazione, non ritenne di emettere il richiesto titolo custodiale di massimo rigore, sebbene l’imputazione ascritta alle allora indagate rientrava nello spettro normativo di cui al comma 3 dell’art. 275 c.p.p., in quanto a suo avviso difettavano le esigenze cautelari.
Detta decisione, emessa in data 30 aprile 2010, venne censurata dal Tribunale per il riesame di Milano che, ai sensi dell’art. 310 c.p.p., accolse il gravame proposto dal P.m. e, con ordinanza in data 17 giugno 2010, dichiarata l’incompetenza dell’autorità giudiziaria milanese in favore di quella reggina, dispose l’applicazione della misura cautelare in carcere nei riguardi della Ferraro e della Pesce, ritenendo fondata l’ipotesi accusatoria secondo cui le predette indagate erano partecipi dell’associazione mafiosa denominata ‘ndrangheta e, segnatamente, della cosca Pesce operante in Rosarno e zone limitrofe, nonché a Milano, città in cui le due indagate si erano trasferite stabilmente, ricoprendo un ruolo di collegamento tra il detenuto Pesce Salvatore, rispettivamente marito e padre, e gli altri membri del sodalizio, sia detenuti (Ferraro Giuseppe) che in libertà.
La Suprema Corte di Cassazione, su ricorso del difensore della Ferraro e della Pesce, cassò senza rinvio l’ordinanza del Tribunale per il riesame di Milano, con sentenza n. 3147/10, pronunciata in data 22 luglio 2010.
Pur essendosi definita in tal guisa la fase cautelare, è necessario riportare in questa sede il percorso argomentativo seguito dai giudici di legittimità i quali, nel rilevare l’inammissibilità dell’appello proposto dal P.m. milanese avverso la decisione del G.i.p. di rigettare la richiesta di applicazione di una misura cautelare per mancanza di esigenze cautelari (ovvero per mancanza di urgenza), osservavano che, secondo un autorevole e consolidato orientamento giurisprudenziale , “la decisone del giudice incompetente non è mai preclusiva di una diversa valutazione da parte di quello territorialmente competente”, atteso che “non si forma alcun giudicato cautelare”: ipotesi che nel caso di specie si è verificata, avendo i Pubblici ministeri distrettuali presso questo Tribunale avanzato, in data 5 febbraio 2011, nuova richiesta cautelare, sulla scorta delle allegazioni probatorie indicate in precedenza, arricchite dalla successive propalazioni della collaborante Pesce Giuseppina poste al di fuori del compendio probatorio apprezzato a suo tempo dal G.i.p. di Milano.
È quindi di tutta evidenza che la Corte regolatrice, con la suddetta decisione, non ha affatto sindacato, censurandolo, il merito della vicenda cautelare, e, in particolare, la ritenuta sussistenza del ravvisato quadro indiziario nei confronti delle indagate, limitandosi ad annullare senza rinvio la suddetta ordinanza del T.d.L. in quanto il gravame proposto dal P.m. milanese, avverso il provvedimento di rigetto della misura custodiale da parte del G.i.p., incompetente ex art. 27 c.p.p., era da ritenersi inammissibile per carenza d’interesse.
Tanto premesso, osserva il decidente che, essendo stata avanzata in data 23 marzo 2011 dalla pubblica accusa richiesta di rinvio a giudizio nei confronti degli imputati, ivi comprese Ferraro Angela e Pesce Marina, la competenza  funzionale a decidere sulla richiesta cautelare si è, medio tempore, traslata a favore del giudice dell’udienza preliminare, in quanto giudice che procede ai sensi dell’art. 279 c.p.p..
Nel merito, avuto riguardo alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza a carico delle imputate, appare assolutamente condivisibile l’iter logico-valutativo seguito dal G.i.p. presso il Tribunale di Milano le cui conclusioni, in tema di esigenze cautelari, vanno invece disattese per le condivisibili ragioni rappresentate dai requirenti ed alle quali sin d’ora si fa espresso rinvio.
Peraltro il quadro indiziario, apprezzato a suo tempo dall’autorità giudiziaria milanese, si è ulteriormente arricchito alla stregua delle dichiarazioni accusatorie provenienti dalla propalante Pesce Giuseppina, in relazione alla quale va condiviso il positivo scrutinio di attendibilità intrinseca ed estrinseca per le analitiche valutazioni, conformi ai criteri ermeneuti indicati dalla Corte regolatrice, formulate dai requirenti e che qui giova richiamare per ragioni di sintesi espositiva.
A tal proposito va in questa sede ribadito che le accuse provenienti dalla predetta collaboratrice convalidano e corroborano le emergenze probatorie che gravano sulle predette imputate il cui ruolo di tramiti tra il rispettivo marito e padre, Pesce Salvatore, e gli altri sodali liberi e/o detenuti emerge prepotentemente dalle conversazioni captate: conversazioni che sono sintomatiche della loro fattiva partecipazione, ovviamente col ruolo che si conviene alla componente femminile di uno storico sodalizio criminale, a base familiare, ancorato alle radicate tradizioni della ‘ndrangeta della provincia reggina.
Quanto al ruolo associativo, delineato in precedenza dalla pubblica accusa ed al quale si fa espresso rinvio, in questa sede è sufficiente ribadire che, allorquando il compito svolto da un soggetto presupponga un sicuro rapporto fiduciario con gli altri compartecipi ed, al tempo stesso, rappresenti un tassello indispensabile nell’organigramma criminoso, tutto ciò può ritenersi sufficiente a provare l’appartenenza alla societas scelerum, dal momento che quel contributo, secondo i comuni criteri della logica, non può certamente dirsi frutto di un comportamento occasionale o fortuito.
In tale ottica, la Ferraro e la Pesce, recandosi ai colloqui con i congiunti detenuti in carcere (Pesce Salvatore, Pesce Francesco e Ferraro Giuseppe) hanno svolto un ruolo strategico comunicando agli altri sodali gli ordini che arrivavano dal carcere o, in alcuni casi, dandovi direttamente esecuzione, occupandosi siadella gestione del patrimonio familiare, mediante l’intestazione fittizia di attività economiche e commerciali, che l’illecita riscossione del “pizzo”.
Le condotte in questione sono indubbiamente evidenziatrici della “partecipazione” al reato associativo loro ascritto, atteso che costituiscono espressione del “contributo consapevole e volontario”, con effettiva rilevanza causale, posto in essere ai fini del rafforzamento e/o della conservazione dell’associazione. Difatti, secondo la Suprema Corte integra “la condotta di associazione per delinquere di tipo mafioso…l’attività di trasmissione di messaggi scritti tra membri influenti della medesima, in quanto essa inerisce al funzionamento dell’organismo criminale,…sotto il profilo del mantenimento dei canali informativi tra i suoi membri, che è l’incombenza di primaria importanza per il funzionamento dell’associazione a delinquere” (Sez. 1, 25.06.96, Trupiano; Sez. 1, 22.11.06, Alfano).
Ed invero, sia la Ferraro che la Pesce sono attinte dagli esiti della proficua attività di intercettazione nel cui ambito sono state captate conversazioni di natura auto ed eteroaccussatoria.
Quanto alle prime, poiché, sono gli stessi conversanti che esplicitamente e/o implicitamente accusano sé stessi di aver commesso un dato reato, va ribadito che le affermazioni “contra sé” equivalgono ad una sorta di confessione extragiudiziale e, pertanto, “hanno integrale valenza probatoria” (Sez. 6, n. 27656 del 9.07.2001, CORSO G. ed altri). Con riferimento alle seconde, vertendosi in ipotesi di intercettazioni parzialmente auto-accusatorie, va ribadito che tali conversazioni possono, in linea di principio, costituire prova diretta della responsabilità senza bisogno di ulteriori elementi di conferma, ma, essendo coinvolto pur sempre un terzo estraneo alla conversazione, la loro valutazione deve avvenire con particolare rigore. Tuttavia, deve escludersi che le conversazioni captate – del tutto chiare e credibili a cagione della loro spontaneità, essendo avvenute tra soggetti ignari di essere intercettati – siano mendaci ovvero frutto di millanteria, atteso che risultano provenire proprio dagli stessi familiari, cioè da fonti conoscitive dirette delle vicende delittuose in esame perché intranee all’organizzazione mafiosa dei Pesce, per le puntuali ragioni espresse, di volta in volta, con riferimento alle singole imputazioni loro contestate.
A ciò si aggiunga che, in tema di associazione per delinquere, integra la condotta di partecipazione, specie in mancanza di un’affiliazione rituale, l’esplicazione di attività omogenee agli scopi del sodalizio, apprezzabili come concreto e causale contributo all’esistenza e al rafforzamento dello stesso, da parte del soggetto che ne sia stato accettato e in esso sia stabilmente incardinato con l’assunzione di determinati e continui compiti, anche per settori di competenza (Sez. 2, n. 45691 del 15/10/2004, P.G. in proc. Andreotti ed altro).
Peraltro, in tema di associazione per delinquere di tipo mafioso, le relazioni di parentela e di affinità dell’imputato assumono valore indiziante aggiuntivo circa la partecipazione al sodalizio, nulla impedendo che una volta accertata, da un lato, l’esistenza di un’organizzazione delinquenziale a base familiare e, d’altro canto, una non occasionale attività criminosa di singoli esponenti della famiglia nel medesimo campo in cui questa opera, venga considerato non privo di valore indiziante, in ordine alla partecipazione dei suindicati soggetti al sodalizio criminoso, anche il fatto che vi siano legami di parentela o di affinità tra essi e coloro che nel sodalizio familiare criminale occupano posizioni di vertice o, comunque, di rilievo (Sez. 6, n. 3089 del 21/05/1998, Caruana). Ne consegue che nulla impedisce di apprezzare siffatto contesto probatorio ai fini dell’adozione di misure (Sez. 1, n. 3263 del 01/07/1994, Agostino ed altri).
Orbene, alla stregua della valutazione delle suddette emergenze probatorie, corroborate dalla puntuale ed individualizzate chiomata in correità operata da Pesce Giuseppina, sussistano, ad avviso di questo giudice, a carico di Ferraro Angela e Pesce Marina gravi indizi di colpevolezza legittimanti, a mente dell’art. 273 c.p.p., l’emissione del richiesto titolo custodiale di massimo rigore, sia in relazione al delitto associativo loro contestato al capo A) della rubrica, che ai reati fine, aggravati ex art. 7 D.L. n. 152/91, ascritti alle medesime, ai capi 12), 13), 19) e 20).
Invero, è stato di fondamentale importanza, per la vita del sodalizio, il ruolo svolto dalle medesime sia attraverso la strumentale attività di intestazione fittizia di attività imprenditoriali e commerciali, al fine di eludere eventuali provvedimenti di sequestro e confisca, che mediante l’attività estorsiva nei confronti di Armeli Signorino, in concorso con gli altri affiliati all’omonima cosca mafiosa dei Pesce, atteso che “in tema di applicazione di misure coercitive in relazione al delitto di cui all’art. 416 bis cod. pen., la partecipazione dell’indagato ad episodi di estorsione compiuti nell’ambito di un contesto mafioso costituisce per sé solo elemento gravemente indiziante di partecipazione al gruppo criminale, senza che siano necessarie ulteriori rappresentazioni di frequentazione con altri associati” (Sez. 6, n. 47048 del 10/11/2009, Plastino).
È, peraltro, pacifico che la prova degli elementi caratterizzanti l’ipotesi criminosa di cui all’art. 416 bis c.p. può essere desunta, con metodo logico-induttivo, in base al rilievo che il sodalizio presenti tutti gli indici rivelatori del fenomeno mafioso, quali la segretezza del vincolo, i vincoli di comparaggio o di comparatico tra gli adepti, il rispetto assoluto del vincolo gerarchico, l’accollo delle spese di giustizia da parte della cosca, il diffuso clima di omertà come conseguenza e indice rivelatore dell’assoggettamento alla consorteria. Gli indizi del reato associativo possono essere legittimamente tratti, altresì, dalla commissione dei reati fine, interpretati alla luce dei moventi che li hanno ispirati, quando questi valgano ad inquadrarli nella finalità dell’associazione (Sez. 6, 10.2.2000, n. 01612, ric. Ferone ed altri, riv. 216632-216636; Sez. 5, 20.4.2000, n. 04893, ric. P.G. in proc. Frasca, riv. 215965).
Sussiste altresì l’aggravante di cui all’art. 416 bis, commi 4 e 5, c.p., essendo notoriamente la cosca Pesce un’associazione mafiosa armata, posto che aveva la disponibilità di armi da impiegare per il conseguimento delle finalità del sodalizio. In proposito, vale la pena rammentare che, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, “per l’applicazione dell’aggravante di cui al comma 4 dell’art. 416 bis c.p., nei confronti di tutti i partecipanti dell’associazione per delinquere di tipo mafioso è sufficiente che solo alcuni di essi siano stati armati, in quanto la circostanza in parola ha natura soggettiva e perciò aggrava la pena anche se non conosciuta da tutti coloro che concorrono nel reato” (Sez. 1, 12/02/1988, n. 1896, Abbate).
§
LE ESIGENZE CAUTELARI
Per quanto attiene alle esigenze cautelari, deve convenirsi con i requirenti che vanno disattese le conclusioni a suo tempo formulate dal G.i.p. presso il Tribunale di Milano, il quale, in sede di rigetto della misura coercitiva custodiale, nonostante l’esistenza dei gravi indizi di colpevolezza nei confronti di Ferraro Angela e Pesce Marina, ebbe ad affermare che le allora indagate erano da ritenersi: “mere attuatrici di ordini dei congiunti detenuti, per le quali basterebbe negare i colloqui, e non saprebbero più come muoversi”.
Orbene, tale opinione appare priva di pregio, alla stregua delle espresse valutazioni in tema di tema di gravità indiziaria che impongono nei confronti delle predette imputate l’adozione della misura custodiale di massimo rigore.
Ed invero, secondo il costante orientamento della Suprema Corte, “in tema di custodia cautelare in carcere applicata nei confronti dell’indagato del delitto d’associazione di tipo mafioso, l’art. 275, comma terzo, c.p.p. pone una presunzione di pericolosità sociale che può essere superata solo quando sia dimostrato che l’associato ha stabilmente rescisso i suoi legami con l’organizzazione criminosa, con la conseguenza che al giudice di merito incombe l’esclusivo onere di dare atto dell’inesistenza d’elementi idonei a vincere tale presunzione. Ne deriva che la prova contraria, costituita dall’acquisizione di elementi dai quali risulti l’insussistenza delle esigenze cautelari, si risolve nella ricerca di quei fatti che rendono impossibile (e perciò stesso in assoluto e in astratto oggettivamente dimostrabile) che il soggetto possa continuare a fornire il suo contributo all’organizzazione per conto della quale ha operato, con la conseguenza che, ove non sia dimostrato che detti eventi risolutivi si sono verificati, persiste la presunzione di pericolosità” (ex multis, Sez. 6, n. 46060 del 14/11/2008, Rv. 242041).
Ed ancora: “in presenza di gravi indizi di colpevolezza per uno dei reati indicati dall’art. 275, comma terzo, c.p.p., deve applicarsi la misura della custodia cautelare in carcere senza la necessità di accertare le esigenze cautelari, la cui sussistenza è presunta per legge, incombendo al giudice di merito solo l’obbligo di constatare l’inesistenza di elementi che ictu oculi lascino ritenere superata tale presunzione.” (Sez. 6, n. 10318 del 22/01/2008, Rv. 239211). Ne deriva pertanto che la presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari con riferimento ai reati indicati dall’art. 275, comma terzo, c.p.p., può essere vinta solo da elementi specifici, che spetta all’interessato dedurre, non essendo sufficiente lo stato d’incensuratezza o la circostanza che l’indagato non si sia dato alla fuga. (Sez. 3, n. 25633 del 08/06/2010, Rv. 247698). In altri termini la prova contraria, costituita dall’acquisizione di elementi dai quali risulti l’insussistenza delle esigenze cautelari, si risolve nella ricerca di quei fatti che rendono impossibile (e perciò stesso in assoluto e in astratto oggettivamente dimostrabile) che il soggetto possa continuare a fornire il suo contributo all’organizzazione per conto della quale ha operato, con la conseguenza che, ove non sia dimostrato che detti eventi risolutivi si sono verificati, persiste la presunzione di pericolosità (Sez. 6, n. 46060 del 14/11/2008, Verolla).
Pertanto, l’unica eccezione, esplicitamente prevista l’art. 275, comma terzo, c.p.p., alla presunzione normativa dell’adeguatezza della misura della custodia cautelare in carcere nei casi in cui sussistano, come nella fattispecie in esame, gravi indizi di colpevolezza per un delitto di criminalità mafiosa si ha nell’ipotesi in cui “siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari”.
Ciò appare ancor più chiaro a seguito dell’intervenuta modifica dell’art. 275 c.p.p. che ha esteso anche ad altri reati (nella specie i delitti di cui all’art. 51 comma 3 bis, 3 quater e 3quinquies) la presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari e la detenzione in carcere come unica misura idonea a garantire le esigenze di tutela della collettività.
La ratio legislativa appare chiarissima: in presenza di gravi indizi di colpevolezza per taluno dei predetti reati la cautela processuale deve (e può) essere assicurata solo con la custodia in carcere.
Tanto premesso si rileva che Ferraro Angela e Pesce Marina, innanzi al G.i.p. di Milano si sono avvalse della facoltà di non rispondere; mentre innanzi al P.m. distrettuale, in data 28 gennaio 2011, la prima si è avvalsa della facoltà di non rispondere, mentre la seconda ha negato ogni addebito, in palese contrasto con le dichiarazioni auto ed etero accusatorie rese dalla sorella Giuseppina.
Né può valere quale prova di rescissione dal pactum sceleris la presenza di figli minori o disabili, elementi valorizzati dal G.i.p. di Milano a base del suo percorso argomentativo.
Deve infatti convenirsi con i requirenti che, nel caso di specie, lo status di associato implica un’intima condivisione aprioristica dei programmi dell’associazione medesima, ferma restando, di volta in volta, l’esplicitazione (del tutto eventuale) di singole condotte, anche con natura in sé illecita.
Tanto è vero che – attesa la piena e totale autonomia del reato contestato – risponde del delitto de quo anche colui il quale non ha commesso singoli reati-fine.
E tale status viene meno, di regola, o con la morte o con la dissociazione da parte del soggetto.
Dissociazione che – evidentemente – non può solo appalesarsi come mera dichiarazione o enunciazione di volontà, ma deve necessariamente estrinsecarsi tramite comportamenti tali da evidenziare con chiarezza l’intervenuta dissociazione: ecco perché, in tal senso, l’esempio tipico di dissociazione è la collaborazione con la Giustizia.
In altri termini, il sodale è un “uomo a disposizione” della cosca: un “militare” su cui contare alla bisogna, eventualmente (ma solo eventualmente) con specifiche propensioni o “specializzazioni”.
Fatta tale premessa, deve convenirsi che se le due donne – rispettivamente moglie e figlia del boss detenuto Pesce Salvatore – sono associate, per come lo stesso G.i.p. di Milano (e, successivamente, anche il Tribunale della Libertà di quella città) hanno già ritenuto, esse lo sono in maniera permanente ed attuale: sono compagna e figlia di boss, intranee alla cosca mafiosa, che hanno sposato l’associazione in quanto tale, condividendone (e, dunque, facendo proprie) gerarchie, programmi e finalità e rispetto alla quale non hanno mai manifestato alcun proposito dissociativo.
L’atteggiamento processuale delle indagate, del resto, non ha consentito una diversa ricostruzione degli accadimenti.
La circostanza, dunque, che nell’ambito della presente indagine (che fotografa un arco temporale chiaramente limitato entro i termini di legge) svolgano ruoli ben precisi e circoscritti all’esecuzione di direttive da parte dei boss detenuti o che siano madri di figli minori o disabili, non ne svilisce il ruolo di associate tout court – come ampiamente dimostrato dall’eloquente contenuto delle conversazioni intercettate in carcere e dalle dichiarazioni auto ed etero accusatorie di Pesce Giuseppina – né implica minimamente che non possano reiterare condotte di fattiva partecipazione alla potente ndrina Pesce di Rosarno, soprattutto nell’attualità, tenuto conto che la maggior parte dei sodali sono ristretti in carcere, ma il boss emergente Pesce Francesco, cl. 78, e i suoi più fidati collaboratori risultano latitanti dall’aprile 2010.   
In ogni caso, tale circostanza non ne fa venir meno l’attualità delle esigenze cautelari.
*
Alla stregua delle considerazioni che precedono si impone, in relazione ai reati ascritti capi A), 12), 13), 19, ed 20) della rubrica imputativa contestati alle imputate, l’applicazione della richiesta misura coercitiva degli custodia in carcere, giacché:
– i reati in questione, sono puniti con pena non inferiore nel massimo a quattro anni di reclusione;
– sussistono le condizioni di cui agli artt. 273, 274, lett. c), 275 comma 3,  e 280 c.p.p.;
– non risulta che i fatti-reato siano stati compiuti in presenza di una causa di giustificazione o di non punibilità;
– non sussiste, allo stato, una causa di estinzione del reato o di estinzione della pena che si ritiene possa essere irrogata;
– l’applicanda misura coercitiva della custodia cautelare in carcere appare non solo adeguata alla gravità delle condotte poste in essere – oltre che ad essere proporzionata all’irroganda pena che, in caso di condanna, non appare di certo contenibile nei limiti della sospensione condizionale – ma l’unica idonea a salvaguardare le ravvisate e pressanti esigenze cautelari di natura socialpreventiva.
P.Q.M-
Visti gli artt. 273, 274, 275, 280, 285 e segg. c.p.p.,
APPLICA
la misura coercitiva della CUSTODIA CAUTELARE IN CARCERE nei confronti dei seguenti indagati, per le ipotesi di reato agli stessi rispettivamente ascritti in rubrica: di FERRARO ANGELA e PESCE MARINA, sopra generalizzate
Ordina agli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria che gli indagati siano catturati ed immediatamente condotti in un istituto di custodia per ivi rimanere a disposizione di questa Autorità giudiziaria:
Visti gli artt. 92 e 104 disp. att. c.p.p., dispone la trasmissione della presente ordinanza al Pubblico Ministero richiedente,.
Manda alla Cancelleria per le notificazioni e comunicazioni alle parti interessate e per gli altri adempimenti di competenza.
Reggio Calabria, 15 Aprile 2011
IL G.I.P. VINCENZO PEDONE

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