I Promessi Sposi I personaggi de “I Promessi Sposi” visti dal giurista blogger Giovanni Cardona, nella sua pubblicazione intitolata “I Promessi Sposi - Con modello attanziale schemi ed epitome”
Un uomo sano e robusto è Renzo Tramaglino e per conseguenza normale.
Anche quando la prepotenza di Don Rodrigo lo incollerisce fino a fargli premeditare un delitto, rimane un delinquente dell’immaginazione.
Lucia Mondella è un’umile contadina, non passionale, ma sempre esageratamente pronta al sacrificio, alla rinunzia, alla rassegnazione.
Prega, piange, arrossisce, sospira tanto da poter sembrare psicastenica.
L’arte del Manzoni la ritrae, ne fa un tipo di bontà tranquilla e passiva.
Agnese Mondella è molto meno assediata da scrupoli – non come Perpetua, un po’ inacidita dallo stato di zitella – ma è una madre.
In complesso personifica la buona comare di villaggio.
Don Abbondio – che Manzoni perseguita dal principio alla fine dei romanzo – è pavido fino al delirio, egoista, e rivela una ottusità morale che lo rende inetto a vibrare al rintocco di qualsiasi richiamo sintonico; circostanza che appare in modo chiarissimo nel famoso colloquio col Cardinale Federico.
Don Abbondio è conscio della propria viltà: “il coraggio uno non se lo può dare”: è infatti la virtù meno simulabile, perché si ha paura delle conseguenze della simulazione del coraggio; ma non gliene rimorde la coscienza, e, per differire il matrimonio di Renzo, addossa alle regole canoniche la colpa delle sue paure.
Tutte le situazioni consecutive lo tramandano alla posterità come il tipo dell’egoista tremebondo, capolavoro di verità psicologica, rinvenendone financo in Don Abbondio una pallida tinta di criminalità; non fosse per altro, a causa della paura che lo rende complice d’un crimine.
Il Padre Cristoforo – che infiammerà nel bene quello stesso sangue bollente che lo aveva portato all’omicidio – è l’uomo in cui il saio del cappuccino non ha soffocato l’ardimento istintivo e costituzionale; ma lo sublima nella carità per il prossimo, nella protezione degli oppressi.
Del Cardinale Federico risplende, con l’ardente spirito di carità evangelica, la virtù dell’apostolo che vuol adeguare tutto l’essere al dover essere.
Se isoliamo nella nostra rassegna le figure ad impronta degenerativa, incontriamo il Griso, che è un delinquente volgare.
Manzoni, col descriverlo reo di pubblico omicidio, capo dei bravi, a cui si affidavano i mandati più rischiosi, ha voluto classificarlo fra gli uomini nati per il delitto.
Il brutale capriccio di Don Rodrigo esige di rapire Lucia: il Griso non solo non trova nulla di strano in ciò, anzi: “Non sarà mai che il Griso si sia ritirato da un comando dell’illustrissimo signor padrone”; egli soggiunge.
Per lui il delitto è un dovere; e noi sappiamo che questo trasformare il delitto in dovere è una delle note salienti nella psicologia del criminale ed è insieme un carattere atavico quel parlare di sé in terza persona.
Altra conferma: quando il Griso ritorna dall’impresa fallita, umiliato, non di averla tentata, ma di non aver potuto compierla, agli aspri rimbrotti del padrone risponde: “L’è dura di riscuotere dei rimproveri dopo aver lavorato fedelmente, e cercato di far il proprio dovere e arrischiata la pelle”.
Questo chiamare il delitto «lavoro, faccenda», è una espressione comune ai criminali ed ai popoli primitivi.
Il Griso, affermava non dover mai accadere che si ritirasse da un comando dell’illustrissimo signor padrone.
Stimava doveroso obbedire ad ogni cenno di lui, almeno per la gratitudine di averlo messo al sicuro dalle taglie e dalle condanne, dalle quali era inseguito.
Ciò nonostante, quando si accorge che il padrone è ammalato di peste, gli nega un bicchier d’acqua e non obbedisce all’ordine di chiamare il medico.
Chiama invece i monatti, i quali si sbrigano, insieme al servo infedele, a vuotare i forzieri e poi trasportano Don Rodrigo al lazzaretto.
(continua)