Il commiato Un lontano ricordo del giurista blogger Giovanni Cardona su chi dalla lingua parlata ascese alla parola ideale
Hic situs, luce finita. Così sta scritto sulla lapide.
Personalità complessa, uomo dai mille dubbi.
Era un orafo della lingua italiana, un cesellatore della parola: scriveva poesie in forma di prosa; maestro del linguaggio e degli ossimori: vita e morte, verità e menzogna, furono per lui le facce della stessa medaglia.
Le sue pagine sono talora altrettante pugnalate al fianco ed al petto, talune mirate dritto al cuore, perché ci spogliano delle ipocrisie, degli abiti di circostanza, per metterci nudi di fronte al mondo, e soprattutto nudi davanti allo specchio, quindi di fronte all’altra metà di noi stessi.
E’ anche la ricerca difficile della identità dell’uomo in quanto tale, di questo strano inquilino del mondo coi suoi problemi di ieri, di oggi, di domani, di sempre.
Ma è anche l’invito alla riflessione, alla meditazione, al ricordo.
Anche Rilke oggi vive solo nella pagina scritta.
Del resto fu Seneca a scrivere che “moriamo ogni giorno”, e Ungaretti a ricordarci che “la morte si sconta vivendo”.
Perché dare importanza ai grandi eventi e chiamarli storia, e non avvedersi invece che, in fondo, la vera storia è fatta dai piccoli momenti del quotidiano: Admeto chiedeva “…una notte soltanto: questa”.
In lui era sempre costante il tema del ricordo, per tentare il “riessere”, il recupero del tempo in cui ciascuno di noi, poteva illudersi ancora d’essere innocente.
Ma era anche un maestro: schema classico questo del rapporto maestro allievo, ben rappresentato da Cesare Musatti in uno scritto di commento alla sentenza di condanna per il reato di plagio a carico di Braibanti, riferita a un noto processo che provocò un vasto dibattito culturale negli anni Sessanta.
Musatti con grande lucidità dimostra come in tale schema non v’è allievo che prima o poi non si ribelli al maestro, come ad un padre, talora irreversibilmente, talaltra per poi ritornare all’ovile o a rimettere la testa sopra l’incudine…
Era l’uomo che nella conversazione, diventava man mano amabile.
Qualcuno disse che rinunciò a vivere; io credo che egli leggendo e scrivendo abbia vissuto la più intensa delle vite (“letteratura come vita”, asserisce Carlo Bo), da grande voyer del gran teatro che è il mondo.
L’ultima volta che mi congedai da lui, gli chiesi sull’uscio della porta, un messaggio per la vita: …”Fa’ che ogni tua azione sia degna di trasformarsi in ricordo”, rispose.
Lo ringraziai di cuore, e mentre mi allontanavo gli dissi “In fondo basta rileggere La morte di Ivan Illìc di Tolstoj: sta chiusa lì la chiave del mistero”.
Sapevo bene che quello era uno degli argomenti da lui preferiti.
“Si…, si…, si…” gli sentii dire per l’ultima volta.