Il delitto di Sarah Scazzi: processo ai Misseri, processo all’Italia
redazione | Il 21, Apr 2013
Inchiesta esclusiva. Italia, Taranto, Avetrana: il cortocircuito giustizia-informazione. Tutto quello che non si osa dire
di Antonio Giangrande
Il delitto di Sarah Scazzi: processo ai Misseri, processo all’Italia
Italia, Taranto, Avetrana: il cortocircuito giustizia-informazione. Tutto quello che non si osa dire
«Giusto processo in Italia. E’ solo una stronzata. E l’intercalare rende
bene l’idea sull’indignazione dei giuristi con un po’ di dignità. A Taranto
ci hanno messo 6 giorni per accogliere pari pari le richieste dell’accusa.
Ufficio della Procura di cui la presidente Trunfio ne faceva parte. Tutti
abbiamo diritto al Giusto Processo, ma a Taranto tale diritto è negato.
Sabrina Misseri e Cosima Serrano colpevoli del delitto? Forse sì e forse no.
Ma anche loro meritano un giusto processo. Per la morte di Sarah Scazzi una
sentenza di condanna per tutti gli imputati accolta da un’Italia plaudente.
E’ una vergogna. E’ disumano ed incivile rallegrarsi per le disgrazie
altrui. Una sentenza di condanna così come da me ampiamente prevista anche
per l’appello. Previsione pubblicata sui giornali in tempi non sospetti. E
non poteva essere altrimenti. Una trappola strategica ordita dall’accusa. I
Giudici sono stati obbligati ad emettere sentenza di condanna. Al contrario
ci sarebbe stato il paradosso di non aver avuto nessun colpevole per quel
delitto, essendo stato estromesso Michele Misseri dall’accusa di omicidio.
Con un’assoluzione e senza responsabili del delitto la Procura di Taranto in
Italia avrebbe fatto ridere pure i polli. Una sentenza emessa dal popolo
italiano e non “in nome del popolo italiano”. Un popolo che ha giudicato non
solo i protagonisti, ma tutta una comunità. Un popolo plasmato da media
morbosi e gossippari. Nei film la trama ed il regista ci fanno sapere chi è
l’assassino, che la polizia ed il giudice non conosce. Se il colpevole viene
assolto o non indagato perché non ci sono prove, lo spettatore ci rimane
male. Eppure, attraverso i comportamenti ritenuti corretti da parte dei
protagonisti del film, la morale è chiara. Niente prove, niente condanna. La
morte di Sarah Scazzi è realtà. Come in un film i media morbosi ci hanno
indotto a credere, convincendoci, che Sabrina Misseri e Cosima Serrano
fossero le colpevoli. Potrebbero esserlo, nulla è escluso, ma dobbiamo
farcene una ragione: non ci sono prove. Indizi contestabili, sì, ma prove
niente. Addirittura per Cosima meno di nulla. L’art. 533, primo comma,
c.p.p. impone il principio di Diritto per cui si condanna “al di là di ogni
ragionevole dubbio”. Questo perché in un paese civile meglio un reo in
libertà, che un innocente in galera. E, a quanto pare, l’Italia pur essendo
la culla del diritto, non figura tra i paesi civili.»
Intervista esclusiva al dr Antonio Giangrande, avetranese doc. Egli, avendo
vissuto la storia del delitto di Sarah Scazzi sin dall’inizio, conosce bene
fatti e persone, protagonisti della vicenda. Corso degli eventi seguiti e
documentati sin dal principio in un libro e con video. Un punto di vista
interessante ed alternativo, sicuramente non omologato. Un personaggio che
non si fa certo intimorire dalla magistratura e dall’avvocatura e che
bistratta quell’informazione corrotta culturalmente. Per conoscerlo meglio
basta andare su www.controtuttelemafie.it.
Dr Antonio Giangrande sembra sicuro di quello che dice.
«Via Poma, Garlasco, Perugia, il caso Yara Gambirasio. I casi più celebri.
Orrori senza fine e quando, per caso, il colpevole salta fuori, si scopre
che la soluzione era a portata di mano, quasi banale, e perfino ovvia: come
nella vicenda dell’Olgiata con il maggiordomo filippino. E invece la nostra
giustizia e i nostri apparati investigativi continuano, spesso e volentieri,
a perdersi dietro congetture dietrologiche e teoremi labirintici, ma
soprattutto le troppe inchieste finite in nulla e i troppi processi
impantanati. Gli esperti arrivano tardi, quando le prove sono già state
compromesse, contaminate, sprecate. Polizia e carabinieri sono spesso in
disaccordo fra di loro, secondo una trita consuetudine centenaria, e la
polizia giudiziaria esplora le piste possibili con il guinzaglio corto
impostole dalla legge che le ha messo addosso il collare della dipendenza
dalla magistratura. Per restare sulla cronaca: da una parte c’è Michele
Misseri, difeso dagli avvocati Luca Latanza da Taranto e Fabrizio Gallo da
Roma. Quest’ultimo che accusa a Quarto Grado del 19 aprile 2013 il primo
avvocato di Misseri, Daniele Galoppa, di essere stato ripreso dal GIP perché
suggeriva a Michele Misseri le risposte che accusavano la figlia Sabrina in
sede di Incidente Probatorio. Il contadino di Avetrana che si dichiara
colpevole del delitto e della soppressione del corpo della nipote, non
risparmia dichiarazioni e interviste ai vari corrispondenti delle testate
televisive nazionali che presidiano costantemente la villa di via Deledda.
In una di queste, al Graffio di Telenorba, prima ha spiegato per l’ennesima
volta le modalità del delitto e poi ha mostrato la valigia già pronta per
quando sarà trasferito in carcere al posto – così lui spera fino in
Cassazione – della figlia e di sua moglie. Dall’altra parte, dopo aver
rispedito alla Corte d’Appello il processo sul delitto di Meredith Kercher,
la ragazza inglese assassinata a Perugia nella notte tra il primo e il due
novembre 2007, la Cassazione ha annullato anche la sentenza di assoluzione
di Alberto Stasi per l’omicidio di Chiara Poggi, avvenuto il 13 agosto 2007
a Garlasco (in provincia di Pavia). Da quando Chiara Poggi venne uccisa e
ritrovata senza vita il 13 agosto del 2007 nella sua casa di Garlasco,
errori soprattutto nelle prime 24 ore ci sono stati. Così come a Perugia;
così come ad Avetrana. Innanzitutto troppe persone sono entrate nella casa,
inquinando la scena del crimine. Poi il primo interrogatorio di Alberto, che
poteva essere determinante, è stato condotto prima da un maresciallo dei CC,
poi interrotto, e continuato da un Capitano arrivato più tardi. Non è stata
cercata immediatamente l’arma del delitto. E’ stato acceso e spento troppe
volte il pc di Alberto, che, per la Procura, doveva essere la prova regina.
Non sono state sequestrate subito le famose scarpe di Alberto, né la
bicicletta. Non è stato fatto un sopralluogo a casa sua o nell’officina del
padre dove poteva nascondersi l’arma del delitto. I cellulari di alcune
persone legate ai due sono stati messi sotto controllo solo dopo mesi e non
immediatamente. Tutto questo davanti ad una Procura che è parsa inadeguata
fin dal principio come gli investigatori. Perché solo con la parola
“inadeguatezza” si può spiegare il fatto che nella casa sotto sequestro e
con la “scena del crimine” ancora da analizzare (lo ricordiamo era quasi
ferragosto e persino la scientifica era in ferie) venne lasciato libero di
circolare il gatto di casa e qualcuno si è pure permesso di fumare, lasciare
cenere sul pavimento, calpestare tracce ematiche. Il 18 aprile 2013 la
Cassazione ha conferma questi dubbi ed ha deciso che il procedimento va
rifatto per questioni di “metodo”. L’accusa chiede la condanna a 30 di
reclusione. Diversi gli indizi raccolti contro l’ex fidanzato: le scarpe
“candide”, i pedali della sua bicicletta con tracce ematiche della vittima,
le sue impronte miste al Dna di Chiara trovate sull’erogatore del sapone nel
bagno dove l’assassino si è lavato. Nessun alibi, secondo l’accusa, per l’ex
fidanzato: non era al computer mentre Chiara veniva uccisa. Innocente al di
là di ogni ragionevole dubbio in primo grado ed in Appello. A questo punto
mi si deve spiegare una cosa: a chi dare ragione? Ai giudici che assolvono
od a quelli che condannano? Perugia, Garlasco, Avetrana: il ragionevole
dubbio per motivare l’assoluzione se non sovviene in questi casi, allora
quando?»
Ma chi è Antonio Giangrande. Nessuno da Avetrana ha mai parlato di lui, né,
tantomeno, tv e giornali hanno richiesto i suoi commenti.
«Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la
realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro.
Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce.
Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel
mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco,
l’Italia che siamo” pubblicata su
www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu
in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che
nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele
Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e
carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo
orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare,
tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma,
siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso! Il fatto
che nessuno mi ha mai interpellato sul delitto di Sarah Scazzi, nonostante
che tutti ad Avetrana abbiano avuto l’occasione per farsi intervistare (alla
faccia dell’omertà), non me ne cruccio, probabilmente i giornalisti non
ritengono interessante il personaggio e le sue opinioni. D’altronde mi vanto
proprio di essere diverso per i miei convincimenti e per il mio spirito
libero e responsabile. Di parere diverso dai miei detrattori sono i miei
sostenitori, che, in centinaia di migliaia, invece, seguono i miei video e
leggono i miei testi, ritenendoli importanti, alternativi e fondamentali
per farsi un’opinione corretta sui fatti. Oltretutto su internet seguono più
me e le mie inchieste che il lavoro di tante redazioni stereotipate e
finanziate da una certa politica, che, pur pensando di essere unici,
navigano nel mare dell’informazione insieme a migliaia di simili. Mi da
fastidio solo una cosa: snobbare me può essere giustificato dalla codardia,
ma ignorare l’associazione antimafia che rappresento, a tutto vantaggio di
altri sodalizi ben sponsorizzati politicamente, descrive bene la
professionalità di certi giornalisti».
Che coincidenza: nascere ad Avetrana, il paese dei Misseri, e vivere di luce
riflessa!
«Ognuno di noi è nato in qualche posto che sicuramente non era voluto dal
nascituro. Poi sta a noi rendere quel posto dove siamo nati degno di essere
vissuto, né quel posto può essere l’alibi dei nostri fallimenti. Per dire:
Chi nasce a Roma non diventa automaticamente Presidente della Repubblica. Io
vivo in questa vita con dei compagni di viaggio. Qualcuno scenderà dal
treno prima, qualcun altro dopo di me. Scenderanno comunque tutti dal treno
della vita, anche coloro che saliranno dopo, così come hanno fatto quelli
che son saliti prima. E non osta il fatto di avere nobili natali. Sono le
fasi della vita. Io faccio di tutto per tutelare e onorare il posto dove
sono nato. Località né peggio, né meglio di altre. Non vivo sotto i
lampioni, per cui non rifletto né la mia, né l’altrui luce. Anche perché
ognuno di noi vive il suo spazio e con il web questo mio spazio è il mondo.
Solo gli ignoranti sminuiscono la forza che la mente ha nel superare lo
spazio ed il tempo. Il miglior riconoscimento ricevuto è il ringraziamento
da parte del Commissario Governativo per le iniziative contro la lotta alla
mafia e all’usura, il quale mi ha invitato, anche, a partecipare
all’incontro tenuto a Napoli con i Prefetti del Sud Italia per parlare di
Sicurezza, mafia ed usura. Ciò significa considerarmi degno interlocutore,
mentre le Autorità locali mi ignorano, mi emarginano, mi perseguitano.
Appunto. L’avv. Santo De Prezzo, di Avetrana, conferma in una sua denuncia
(in seguito alla quale per me è scaturita assoluzione più ampia perché il
fatto non sussiste e di cui si è chiesto conto a lui ed anche nei confronti
dei magistrati che l’hanno agevolata), che il Presidente dell’Associazione
Contro Tutte Le Mafie, Dr Antonio Giangrande, è considerato dalle Forze
dell’Ordine di Avetrana un mitomane calunniatore. Tale affermazione spiega
bene il perché degli insabbiamenti e le archiviazioni che seguivano le mie
denunce, sol perché si denunciavano i reati degli intoccabili. Spiega bene
altresì, l’ostracismo dei media. Fa niente se i dotti emancipati e non
omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth:
semplici figli di falegnami, perchè “non c’è nessun posto dove un profeta
abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa”. Non c’è
bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi
natali, ma per il suo insegnamento e, cosa più importante, per il suo
esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sè,
allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.»
Dr Antonio Giangrande, con le sue opere letterarie, la sua web tv ed i suoi
canali youtube ha voluto documentare in testi ed in video pregi e difetti
della società italiana. Ma chi sono gli italiani?
«Chi siamo noi?
Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.
Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo
scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti.
Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che
abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima
dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.
Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa
secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di
pedofili o terroristi.
Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci
ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese
democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di
fame o detenuti in canili umani.
Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto,
fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni.
Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo
diventare.
E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci
riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da
amici e parenti “coglioni”.»
A scrivere delle malefatte dei poteri forti a lei cosa ne consegue?
«Per prima cosa le sto a segnalare il fatto, già segnalato ai precedenti
Parlamenti, che è impossibile in Italia svolgere l’attività di assistenza e
consulenza antimafia se non si è di sinistra e se non si santificano i
magistrati. In Italia l’antimafia è una liturgia finanziata dallo Stato in
cui vi è l’assoluto monopolio in mano a “Libera” di Don Ciotti e di fatto in
mano alla CGIL, presso cui molte sedi di “Libera” sono ospitate. La
sinistra, i media, gli insegnanti ed i magistrati artatamente han fatto di
Don Luigi Ciotti e di Roberto Saviano le icone a cui fare riferimento quando
ci si deve riempir la bocca con il termine “legalità”. “Libera”, con le sue
associate locali, è l’esclusiva destinataria degli ingenti finanziamenti
pubblici e spesso assegnataria dei beni confiscati. Di fatto le associazioni
non allineate e schierate (e sono tante) hanno difficoltà oltre che
finanziaria, anche mediatica e, cosa peggiore, di rapporti istituzionali. Si
pensi che la Prefettura di Taranto e la Regione Puglia di Vendola a “Libera”
hanno concesso il finanziamento di progetti e l’assegnazione dei beni
confiscati a Manduria. A “Libera” e non alla “Associazione Contro Tutte le
Mafie”, con sede legale a 17 km. A “Libera” che non può essere iscritta
presso la Prefettura di Taranto, perchè ha sede legale a Roma, e non
dovrebbe essere iscritta a Bari, perché a me è stato impedita l’iscrizione
per mancata costituzione dell’albo. Altra segnalazione di una mia battaglia
ventennale riguarda l’esame truccato dei concorsi pubblici ed in specialmodo
quello di abilitazione forense, che poi è uguale a quello del notariato e
della magistratura. Ho anche cercato di denunciare l’evasione fiscale e
contributiva degli studi legali presso i quali i praticanti avvocato sono
obbligati a fare pratica. I “Dominus” non pagano o pagano poco e male ed in
nero i praticanti avvocati e per coloro che non hanno partita iva non gli
versano i contributi previdenziali presso la gestione separata INPS. Agli
inizi, facendo notare tale anomalia al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati
di Taranto, mi si disse: “fatti i cazzi tuoi anche perché vedremo se diventi
avvocato. Appunto. Da anni mi impediscono di diventarlo, dandomi dei voti
sempre uguali ai miei elaborati all’esame forense. Elaborati mai corretti.
Mi hanno condannato all’indigenza. Tenuto conto che i miei libri si leggono
gratuitamente, da scrittore non ho nessun introito. A dover scrivere la
verità, purtroppo, non posso essere amico di magistrati, avvocati e
giornalisti. Essere amico su chi avrei da scrivere, inficerebbe la mia
imparzialità di giudizio. Avendo avuto l’occasione di svolgere l’attività
forense per 6 anni senza abilitazione ma con il patrocinio legale, ho sì
vinto tutte le cause, ma si sono imbattuto in tutto quello che è più malsano
del mondo della giustizia: la corruzione morale e materiale delle toghe,
siano essi magistrati od avvocati. E nessuno ne parla. Io ne parlo e ne
subisco le ritorsioni. Non mi abilitano e sono investito da processi per
diffamazione. Sempre assolto, ma per esserlo sono stato costretto a
denunciare e ricusare il giudice naturale. Il giudice Rita Romano di
Taranto, tra le altre cose, ha assolto chi mi aveva aggredito in casa mia
con l’intento di far male a me, a mia moglie ed ai miei figli, affinchè non
presenziassi ad un’udienza in cui difendevo la moglie dell’aggressore,
vittima di stalking. Le prove dell’aggressione non sono state prodotte dalla
procura, né ammesse dal giudice. A questo punto l’assoluzione
dell’aggressore fu così motivata: “la testimonianza di Antonio Giangrande
non possa ritenersi pienamente attendibile”. La Procura di Taranto chiede ed
ottiene l’archiviazione delle denunce contro loro stessi. La Procura di
Potenza archivia tutte le mie denunce contro i magistrati di Taranto ed
accoglie tutte le denunce dei loro colleghi tarantini contro di me per
quanto scrivo su quello che succede a Taranto. Un modo di tacitarmi per
quanto scrivo anche su quello che succede Potenza. In virtù della mia
esperienza il mio assunto è: la mafia vien dall’alto!»
Perché parla di cortocircuito Giustizia-Informazione?
«I giornalisti ci hanno inculcato la convinzione della santità, della
infallibilità e della intoccabilità della magistratura. Il mondo della
comunicazione e dell’informazione fa passare il principio per il quale i
magistrati, preparati, competenti ed equilibrati, non sbagliano quasi mai e
per di più, quando lo fanno, non devono essere criticati, in quanto le colpe
delle disfunzioni giudiziarie vanno ricondotte sempre e comunque al sistema,
quindi alla politica. Insomma: i magistrati sono di un’altra razza. Gli
avvocati, anche per colpa della propria viltà, anziché imprimere l’assioma
della indispensabilità e della parità della loro funzione, sono fatti
passare per comprimari. Agli occhi della gente incarnano coloro che con
sotterfugi e raggiri fanno uscire i rei dalla galera. Il dogma che dovrebbe
valere per tutti i Magistrati e tutti i Giornalisti è: non avere ideologia,
né amici. Questo per dare un’apparenza di imparzialità. Invece l’ideologia
non gli manca, né tantomeno gli amici. Ed ottimi amici, spesso, sono proprio
tra di loro, i Magistrati con i Magistrati ed i Magistrati con i
Giornalisti, in un rapporto di reciproca mutualità. Amici ed ideologia, a
iosa, spesso in un rapporto vicendevole: eccome! I magistrati ed i
giornalisti hanno un ego smisurato che li rende autoreferenziali,
presuntuosi ed arroganti, dimenticando che il potere, che gli uni e gli
altri hanno, è stato assunto in virtù di un concorso pubblico, come può
essere quello italiano. I Magistrati ed i Giornalisti non vengono da Marte,
pertanto senza natali e casato e con un DNA differente dal resto dei
cittadini. I primi, quindi, non sono la voce della Giustizia, i secondi non
sono la voce della Verità. Tutto questo crea un vulnus all’esistenza di
tutti noi. Prova ne è la sorte di Pietro D’Amico. Si è tolto la vita
assistito dal personale di una clinica Svizzera. Pietro D’Amico era un
magistrato per bene, una «toga buona» e fuori dai giochi di potere. Messo in
croce sui giornali per un sospetto suffragato da indizi labili. Pietro
D’Amico, autore di saggi di Filosofia del Diritto e Diritto romano adottati
come libri di testo da alcune università, era stato indagato, insieme ad
altri magistrati dalla Procura di Salerno, per una fuga di notizia per la
perquisizione di un parlamentare nell’ambito dell’inchiesta Poseidone sui
presunti illeciti nella gestione dei fondi per la depurazione. Ne era uscito
indenne, ma totalmente disgustato. Aveva deciso di abbandonare la toga
commentando: “Questa magistratura non mi merita”. Tutto ciò fa pensare una
cosa: se è successo a lui, figuriamoci cosa succede ai poveri cristi. Non
esiste un solo Paese democratico e moderno nel quale uno dei poteri che
regge l’architettura dello Stato è sottratto a qualsiasi controllo e sul
quale vige una sorta di impunità che si è trasformata, negli anni, in un
delirio di onnipotenza senza strumenti di comparazione nell’intero mondo
occidentale; uno Stato nello Stato, regolato da leggi autonome, sottratto ai
più elementari controlli democratici e autoimmunizzato contro ogni critica.
Guai a chi si permette di criticare un magistrato, l’operato di un giudice o
la conduzione di un’indagine: il rischio automatico è quello di attirare gli
strali dei “pasdaran” del giustizialismo con ondate di fango mediatico; gli
stessi per i quali un magistrato in esercizio della sua funzione, e magari
nel tempo libero, può criticare liberamente lo Stato suo datore di lavoro,
dare giudizi estremi sul Parlamento che vota le leggi (che un magistrato
dovrebbe applicare e che invece vorrebbe lui dettare) e ridurre il tutto ad
un mero esercizio di presunta democrazia, mentre se è lo Stato o il
Parlamento, o anche un semplice cittadino, a criticare un magistrato si
grida al complotto, o, addirittura, si è condannati per diffamazione dagli
stessi magistrati criticati. Ma si sa. La coerenza è il segno distintivo dei
limitati encefalici.»
Perché tra le sue opere a carattere generale ha scritto il libro su una
vicenda particolare “SARAH SCAZZI, QUELLO CHE NON SI OSA DIRE. IL RESOCONTO
DI UN AVETRANESE”?
«Avetrana, e per questo non si ha alcuna spiegazione logica, stranamente ed
a differenza di altre sparizioni di persone, sin dal primo giorno della
scomparsa di Sarah Scazzi è stata oggetto di attenzione mediatica morbosa.
Sin dal primo momento è stata invasa dai camion con le paraboliche tv, come
se una regia occulta avesse predisposto l’evento ed avesse previsto
l’imponderabile, misterioso e drammatico seguito. Sin da subito sono
arrivati i migliori consulenti forensi e gli eccelsi avvocati dai fori più
importanti con la conseguente domanda logica: chi li paga? Per propaganda e
pubblicità: chissà? Sono calati avvocati propostisi (vietato dalla
deontologia; divieto che pare valga solo per l’avv. Vito Russo di Taranto),
o avvocati consigliati da parenti od amici interessati. Solo per gli
imputati minori si son visti avvocati riconducibili a conoscenza personale.
Si son visti, addirittura, avvocati che si sono arrogati la funzione di
pubblici ministeri: la ricerca della verità. In questo coinvolgendo i
consulenti salottieri che alla tv, in programmi che dovevano trasparire
imparzialità, invece, propinavano la loro convinzione personale ospiti di
conduttrici compiacenti. Poi alle accuse di Michele di essere stato plagiato
rispondevano: io non c’ero! Si son visti giornalisti vagare per Avetrana
intenti ad intervistare appositamente ignoranti nullafacenti nei bar, con
l’intento di estorcere delle considerazioni dotte. Si son visti giornalisti
aspiranti scrittori, con il sogno di scrivere sul delitto di Avetrana un
esclusivo Best Sellers, arrogandosi la elitaria genitura della verità.
Generalmente da tutta Italia mi si chiede aiuto, essendo riconosciuta la mia
competenza per aver seguito tutti i casi giudiziari analoghi. Ad Avetrana,
da avetranese, sono stato tra i primi ad offrire la mia consulenza gratuita,
dopo aver segnalato alle autorità alcuni personaggi che gironzolavano
intorno alla famiglia Scazzi. Personaggi che hanno conosciuto i fatti
dall’interno della famiglia nell’imminenza dell’evento, ma che non sono
stati mai chiamati a testimoniare. Con Concetta e Giacomo Scazzi vi è stato
un’incontro, qualche consiglio. Presente era Cosima e Valentina. Le ho viste
affiatate con Concetta. Successivamente, con l’arrivo degli avvocati di
Perugia (in quella fase non vi era alcun assoluto bisogno di assistenza
legale) si era sottoposti al loro vaglio per parlare con la Famiglia Scazzi.
Si è erto un muro. Da allora nessun incontro vi è più stato, né nessun
grazie si è dato alle associazioni avetranesi che si sono attivate per la
ricerca di Sarah e per la fiaccolata in suo onore. Le luci della ribalta
sono un’illusione anche nel dolore, in special modo se c’è qualcuno che
illude. In quei frangenti caotici si veniva a formare la trama intrigante,
oscura, imperscrutabile e misteriosa di un film più che “giallo”. “Giallo” è
la definizione italiana, poiché negli Stati Uniti non esiste questa parola
per definire lo specifico genere cinematografico che va sotto i nominativi
di “crime story”, “noir”, “mistery” e “thriller”. Avetrana è diventata, suo
malgrado, l’ombelico del mondo. E’ conosciuta ormai in tutto il pianeta.
Tutti parlano di Avetrana, degli avetranesi, degli Scazzi, dei Serrano e dei
Misseri. E tutte le altre località se ne dovranno fare una ragione. Eppure
tanta notorietà (subita) provoca immenso rancore. La sventura altrui
rappresenta per l’invidioso ciò che la cioccolata è per il goloso e il sesso
per il lussurioso. Il nostro cervello, infatti, tratta le esperienze sociali
e quelle fisiche in modo più simile di quanto si pensi. Chi ha sete chiede
acqua. Chi ha freddo, un riparo. Chi non è soddisfatto di se stesso anela a
sentirsi migliore attraverso la svalutazione degli altri. Studi scientifici
dimostrano come spesso l’invidioso ha la sensazione di non poter raggiungere
con le proprie forze ciò che vorrebbe per sé e per riportare l’equilibrio
nel confronto sociale deve passare per la distruzione materiale o simbolica
dell’altro. Le ingiustizie sono ovunque anche nella nostra vita: c’è chi
nasce ricco e ha la strada spianata, chi lo diventa con la spregiudicatezza,
chi detiene il potere o posti di responsabilità pubblica senza averne le
capacità, chi non paga le tasse, chi lavora meno di noi e ottiene di più,
chi non ha arte ne parte, ma ha le luci della ribalta (come i personaggi del
gossip o, come nel nostro caso, i protagonisti delle cronache giudiziarie).
Infastidirsi è normale, soprattutto se il fortunato ci assomiglia: magari
abita nell’appartamento vicino, ha fatto la nostra stessa scuola, ha scelto
la nostra stessa carriera. Insomma ci ricorda quello che avremmo potuto
essere e non siamo. Ma giornali e tv hanno allargato la nostra comunità di
riferimento, aumentando esponenzialmente anche il numero di confronti
sociali con persone di cui spesso non conosciamo né gli sforzi né le pene.
Per questo si odia tanto Avetrana e Sabrina Misseri. Loro malgrado hanno un
successo planetario che altri (gli invidiosi) vorrebbero per sé, finanche
per le stesse ragioni, ma non lo possono mai avere. Allora scatta il
meccanismo di delegittimazione e di denigrazione, fino ad arrivare al
vilipendio di una comunità. Quando si parla del delitto di Sarah Scazzi, non
si parla del danno che il sistema banale, superficiale e poco professionale
dell’informazione e della comunicazione ha arrecato alla comunità colpita.
State sicuri: nessuno vuol parlarne e nemmeno può. Bisogna essere Avetranesi
con dignità ed orgoglio per sentire sopra la propria pelle il disprezzo di
gente stupida ed ignorante che quando sa che tu sei di Avetrana nella
migliore delle ipotesi sghignazza: “ahhaaaa…., ahhaaaa…”. Oppure di gente
cattiva che lancia epiteti e che ti apostrofa: “ahhaa…, siete quelli che
hanno ucciso Sarah”; “ahhaaa…, il paese omertoso e mafioso che ha ucciso la
bambina”. Come al solito, poi, in questa Italia dove il migliore c’ha la
rogna, te lo dice gente che a parlar di loro o della loro comunità
dovrebbero mettersi la maschera in faccia per coprirsi per la vergogna.
Certo che ad Avetrana vi è un inspiegabile accanimento mediatico. Finanche
lo sport ha parlato di Sarah Scazzi. Un servizio della “Domenica Sportiva”
della Rai il 7 aprile 2013 parla, sì, di calcio ad Avetrana, ma (pure qui
con retro pensiero) evidenzia anche il malessere che comporta l’essere di
Avetrana in trasferta. Ma noi avetranesi ad aver grande intelletto e ad
insegnare cultura adottiamo il celebre verso della Divina Commedia del sommo
poeta Dante Alighieri “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa”. E proprio
per passare oltre, il mio compito è quello di svelare il corto circuito
informazione-giustizia. In questa Italia pregna di banalità e pregiudizi,
frutto di ignoranza e disinformazione, e a volte di malafede, ognuno di noi
dovrebbe chiedersi. La mafia cos’è? La risposta in un aneddoto di Paolo
Borsellino: “Sapete che cos’è la Mafia… faccia conto che ci sia un posto
libero in tribunale….. e che si presentino 3 magistrati… il primo è
bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili
dalla politica… e il terzo è un fesso… sapete chi vincerà??? Il fesso.
Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!” «Da noi – ha dichiarato Silvio
Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 – la
magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico
sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una “magistocrazia”.
Nella magistratura c’è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha
detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl
a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all’attacco ai magistrati:
«L’Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento
dell’ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura
Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
«Dovete sapere – dice a un certo punto Salvatore Borsellino al convegno a
Bari per la presentazione del libro di Giuseppe Ayala – che mio fratello
Paolo dopo il 1° luglio 1992 chiese varie volte al Procuratore della
Repubblica di Caltanisetta di essere ascoltato come testimone per riferire
circostanze decisive per l’accertamento della verità della strage di Capaci,
in cui perirono Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti
di scorta, ma questi, il Procuratore della Repubblica di Caltanisetta, si
rifiutò di ascoltarlo.» Al che Giuseppe Ayala, sorridendo, ha commentato:
“Eh si! In effetti c’è anche questa!”. Sono piene le aule dei Tribunali di
tesi accusatorie, spesso strampalate dei PM, imbastite in modo a dir poco
criticabile, poi accolte dai loro colleghi giudici. Il caso di Salvatore
Gallo è di quelli destinati a passare alla storia degli errori giudiziari
più clamorosi. Fu condannato all’ergastolo per l’omicidio del fratello Paolo
che in realtà, sette anni dopo, si ripresenta vivo e vegeto. Ed ancora la
Iena Mauro Casciari, che ha preso a cuore la vicenda della morte di Giuseppe
Uva, ha ricevuto una querela per diffamazione per un servizio andato in onda
ad ottobre nel 2011, che conteneva un’intervista a Lucia Uva, la sorella di
Giuseppe Uva anch’essa querelata per diffamazione. Giuseppe Uva il 43enne
morto a Varese, nel giugno del 2008, dopo essere stato fermato e trattenuto
in caserma a Varese per alcune ore. Un’altra “vittima di Stato”, come si
denuncia da anni, come Stefano Cucchi e Federico Aldrovandi. Lucia Uva
chiede solo giustizia e si ribella contro gli insabbiamenti delle denunce.
Stessa sorte, querela per diffamazione, è toccata alla mamma di Aldrovandi,
come stessa sorte è toccata ad Alfonso Frassanito, padre adottivo di
Carmela, la ragazzina di Taranto morta perché stuprata e non creduta dai
magistrati. In Italia devi subire e devi tacere. Da sempre, inascoltato,
combatto per istituire il “Difensore Civico Giudiziario” con i poteri dei
magistrati, ma senza essere uno di loro. Solo nel 2012 l’Italia ha aggiunto
un nuovo record alla lista di primati negativi collezionati nel tempo a
Strasburgo sul fronte della giustizia. Dopo essersi aggiudicata per anni la
maglia nera come Paese, tra i 47 del Consiglio d’Europa, con il più alto
numero di sentenze della Corte per i diritti dell’uomo non eseguite
(arrivato ora a quota 2569, dietro di noi ci sono la Turchia con 1780
sentenze non eseguite e la Russia con 1087), l’Italia è diventata anche lo
Stato che spende di più per indennizzare i propri cittadini per le
violazioni dei diritti umani subite: ben 120 milioni di euro. Una cifra pari
a circa cinque volte il contributo annuo versato al Consiglio d’Europa e più
del doppio di quanto nel 2012 hanno pagato complessivamente, come
indennizzi, tutti gli altri Stati membri dell’organizzazione. Senza parlare
poi di quegli errori giudiziari che costano come una manovra. Indagini
approssimative. Magistrati ed avvocati che sbagliano. Innocenti in cella.
Enormi risarcimenti da pagare. Uno spreco umano ed economico insostenibile,
che arriva a costare allo Stato diverse decine di milioni di euro ogni anno.
L’ultimo, in arrivo, l’indennizzo per gli accusati della strage di via
d’Amelio, ingiustamente condannati all’ergastolo e ora liberi dopo 18 anni
di carcere in regime di 41bis. C’è già un altro cittadino italiano pronto a
entrare in una classifica “poco onorevole” per il nostro Stato: si chiama
Raniero Busco e ha 46 anni, assolto dalla condanna a 24 anni per l’omicidio
della sua ex fidanzata, Simonetta Cesaroni, la ragazza del “delitto di via
Poma” avvenuto nella capitale il 7 agosto 1990. Il caso di Busco, difeso
proprio da Franco Coppi difensore anche di Sabrina Misseri nel processo sul
delitto di Sara Scazzi, rientrerebbe nel nutrito elenco degli errori
giudiziari. Una realtà che pesa, anche sotto il profilo economico,
sull’amministrazione della giustizia nel nostro Paese. Solo nel 2011, lo
Stato ha pagato 46 milioni di euro per ingiuste detenzioni o errori
giudiziari. L’ultima vicenda di questo tipo, forse la più eclatante nella
storia della Repubblica, è quella dei sette uomini che erano stati
condannati come autori dell’attentato che costò la vita al giudice Paolo
Borsellino e alle cinque persone della scorta, il 19 luglio 1992.
Nell’autunno 2012, sono stati liberati: dopo periodi di carcerazione durati
tra i 15 e i 18 anni, trascorsi tra l’altro in regime di 41 bis. La strage
non era cosa loro. Il risarcimento? È ancora da quantificare. Il 13 febbraio
2011, invece, la Corte d’appello di Reggio Calabria ha riconosciuto un altro
grave sbaglio: è innocente anche Giuseppe Gulotta, che ha trascorso 21 anni,
2 mesi e 15 giorni in carcere per l’omicidio di due carabinieri nella
caserma di Alcamo Marina (Trapani), nel 1976. Trent’anni dopo, un ex
brigadiere che aveva assistito alle torture cui Gulotta era stato sottoposto
per indurlo a confessare, ha raccontato com’era andata davvero. La cosa
sconcertante è che, nel 1977, fu ucciso a Ficuzza (Palermo) anche
l’ufficiale che aveva condotto quell’inchiesta con modi tutt’altro che
ortodossi, il colonnello Giuseppe Russo: l’indagine sul suo omicidio ha
prodotto un altro errore. Per la sua morte, infatti, sono stati condannati
tre pastori e, solo vent’anni dopo, si è scoperto che esecutori e mandanti
erano stati invece i Corleonesi. Ma il caso forse più paradossale di
abbaglio giudiziario risale al 2005. Ne fu vittima Maria Columbu, 40 anni,
sarda, invalida, madre di quattro bambini: condannata a quattro anni con
l’accusa di eversione per dei messaggi goliardici diffusi in rete, nei quali
insegnava anche a costruire “un’atomica fatta in casa”. Nel 2010 fu assolta
con formula piena. Per l’ultimo giudice, quelle istruzioni terroristiche
erano “risibili” e “ridicole”. Ma quanti sono, in Italia, gli errori
giudiziari? Quante persone hanno scontato, da innocenti, anni e anni di
carcere? Quante vite e quante famiglie sono state distrutte? “Una statistica
ufficiale, ministeriale, ci dice che tra il 2003 e il 2007 ci sono stati
circa ventimila errori giudiziari, un numero enorme del quale non si parla
mai, se non nei casi che fanno notizia. Ci sono poi vicende famose, e
sconcertanti, rilanciate ogni volta che si scoprono nuovi episodi: dal caso
Tortora al caso Barillà. Ottomila richieste di risarcimento negli ultimi 10
anni. Le ingiuste detenzioni e l’enorme costo economico che comportano sono
ormai al centro di una battaglia politico-legale avviata dalle associazioni
contro gli errori giudiziari. Analizzando sentenze e scarcerazioni degli
ultimi 50 anni, Eurispes e Unione delle Camere penali italiane hanno
rilevato che sarebbero cinque milioni gli italiani dichiarati colpevoli,
arrestati e rilasciati dopo tempi più o meno lunghi, perché innocenti.
Errori non in malafede nella stragrande maggioranza dei casi, che però non
accennano a diminuire, anzi sono in costante aumento. Bisogna che qualcuno
dica alla gente che quello che succede ad Avetrana succede in tutta Italia.
Tante le similitudini con i fatti di cronaca riportati dai media.
Informazione e giustizia. Simbiosi cinica e bara, sadismo allo stato puro.
Parliamo di Franco Califano. È stato arrestato due volte per cocaina, una
volta nell’ambito del caso Chiari-Luttazzi (una serie di personaggi dello
spettacolo messi in cella per droga nel 1970 e poi tutti assolti), un’altra
all’interno del caso Tortora (l’inchiesta della magistratura napoletana che
accusò falsamente il popolare presentatore di essere un boss della Camorra,
uno dei più grandi scandali giudiziari degli anni Ottanta). In tutto s’è
fatto per questo tre anni e mezzo di carcere. Suo commento: «Negli anni
Settanta sono finito nel processo di Walter Chiari, negli anni Ottanta in
quello con Tortora: possibile che alla mia età, con la mia carriera non me
ne sono meritato uno tutto per me?». Stranamente, o forse no – scrive Valter
Vecellio su “L’Opinione” – sarebbe stato strano il contrario, quasi tutti i
giornali (non più di un paio le eccezioni), ricordando Franco Califano,
hanno fatto cenno alle disavventure giudiziarie del “Califfo” limitandole
alla vicenda che portò in carcere Walter Chiari e Lelio Luttazzi, per uso e
spaccio di droga. E anche su questo si potrebbe dire: che ogni volta che
richiama in causa Luttazzi si dovrebbe aver cura di ricordare che “el can de
Trieste” era assolutamente estraneo ai fatti contestati, solo tardivamente
venne riconosciuto innocente, patì una lunga e ingiusta carcerazione, e da
quell’esperienza ne uscì schiantato. Luttazzi a parte, Califano venne
coinvolto, ficcato a forza è il caso di dire, nella vicenda che in
precedenza aveva portato in carcere Enzo Tortora, nell’ambito di
quell’inchiesta che doveva essere il “venerdì nero della camorra” e fu
invece un venerdì (e non solo un venerdì) nerissimo per la giustizia
italiana. Califano ci raccontò che ad accusarlo erano due “pentiti”:
Pasquale D’ Amico e Gianni Melluso, “cha-cha”. Ma D’ Amico poi aveva
ritrattato le sue accuse. Melluso, invece le aveva reiterate, raccontando di
aver consegnato droga a Califano in un paio di occasioni: nel sottoscala del
“Club 84”, vicino a via Veneto, a Roma; e successivamente nell’abitazione
del cantante a corso Francia, sempre a Roma. Solo che nel “Club 84” il
sottoscala non c’era; e Califano in vita sua non ha mai abitato a corso
Francia. Infine Califano, in compagnia di camorristi, avrebbe effettuato un
viaggio da Castellammare fino al casello di Napoli, a bordo di una Citroen o
di una Maserati di sua proprietà; automobili che Califano non ha mai
posseduto. Califano ci raccontò che le accuse nei suoi confronti erano solo
quelle di cui s’è fatto cenno; e che non si siano svolte indagini e
accertamenti per verificare come stavano le cose non sorprende col senno di
poi, e a ricordare come l’inchiesta in generale venne condotta. E sulle
modalità investigative, può risultare illuminante un episodio in cui sono
stato coinvolto. Anni fa, chi scrive venne convocato a palazzo di Giustizia
di Roma, per chiarire – così si chiedeva da Napoli – come e perché in un
servizio per il “Tg2”, “in concorso con pubblici ufficiali da identificare”,
avevo rivelato «atti d’indagine secretati consistenti in stralci della
deposizione resa in una caserma dei carabinieri dal pentito Gianni Melluso
sulla vicenda Tortora». Ed ero effettivamente colpevole: avevo infatti
raccontato che Melluso aveva ritrattato tutte le sue accuse; e che assieme a
Giovanni Panico e Pasquale Barra aveva concordato tutto il castello di
menzogne e calunnie; un segreto di Pulcinella, tutto era già stato
pubblicato dal settimanale “Visto”; e il contenuto degli articoli anticipati
e diffusi da “Ansa”, “Agenzia Italia” e “AdN Kronos”. Dunque, sotto
inchiesta per aver ripreso notizie (vere) pubblicate da un settimanale e da
agenzie di stampa. Evidentemente dava fastidio la diffusione in tv… Queste
le indagini; e dato il modo di condurle, non poteva che finire in una
assoluzione piena: per Tortora, per Califano, e per tantissimi di coloro che
in quel blitz vennero coinvolti. Ma a prezzo di sofferenze indicibili e
irrisarcibili. Indagini che la maggior parte dei cronisti spediti a Napoli,
presero per buone, e furono pochi a vedere quello che poteva essere visto da
tutti. È magra consolazione aver fatto parte di quei pochi; e non sorprende
che questa vicenda la si preferisca occultare e ignorare. Ed ancora. Per i
pubblici ministeri Vincenzo Barba e Francesca Loy, Stefano Cucchi «è morto
di fame e di sete». “Tutti volevano farsi grandi con la morte di Cucchi”, ha
accusato il pubblico ministero Vincenzo Barba. Che ha ricordato le
difficoltà affrontate nel corso delle indagini a causa ”del clamore
mediatico insopportabile” e in particolare per proteggere quello che
ritiene essere il testimone ”credibile”, l’immigrato Samura Yaya. “Abbiamo
avuto l’esigenza di tutelarlo come fonte di prova – ha continuato Barba – A
un giorno dall’incidente probatorio tutti hanno tentato di raggiungerlo,
anche il senatore Stefano Pedica. Noi abbiamo dovuto fare una lotta impari
per difendere la nostra fonte di prova da un attacco politico e
giornalistico, tutti volevano farsi grandi con la morte di Cucchi. Il
processo è stato difficile – ha detto il pm Barba – anche a causa di varie
rappresentazioni dei fatti che sono state portate fuori dal processo. I mass
media hanno influito sull’opinione pubblica. C’è chi ha voluto dare una
rappresentazione della realtà diversa da quella emersa dal processo”.
«Riteniamo inaccettabile e gravemente offensive le dichiarazioni del pm
Barba sul conto di Stefano e di tutti noi – commenta la sorella Ilaria
Cucchi – Continuo a chiedermi chi sono gli imputati nel processo per la
morte di mio fratello. Non posso accettare che non venga riconosciuta la
verità su quello che è successo a Stefano tutto il resto non mi interessa –
ha aggiunto con gli occhi lucidi – La verità la sanno tutti. Io, speravo che
entrasse anche nell’aula di giustizia e continuo ad avere fiducia nella
Corte: ripongo in loro tutta la mia fiducia, perché ogni risposta che non
sia coerente con quanto accaduto a Stefano, ogni risposta ipocrita noi non
la possiamo accettare. L’atteggiamento che abbiamo notato oggi in aula è
perfettamente coerente con quello che e stato l’atteggiamento della procura
per tutta la durata del processo, tanto che spesso viene da chiedersi chi
sono gli imputati nel processo per la morte di mio fratello. La
responsabilità dei medici è assolutamente gravissima e innegabile, loro non
sono più degni di indossare un camice, questo lo abbiamo sempre detto e
continueremo a sostenerlo fino alla morte. Loro avrebbero potuto salvare mio
fratello e non lo hanno fatto, si sono voltati dall’altra arte e non si può
far finta di niente, come non si può far finta che Stefano sarebbe finito in
quell’ospedale per cause che non c’entrano con il pestaggio. Non si può
negare che Stefano fino a prima del suo arresto conduceva una vita
assolutamente normale. Abbiamo discusso per anni con la procura della
frattura di l3. Ora apprendo che si è concordemente riconosciuto che gli
accertamenti ed i prelievi sono stati fatti sulla maggior parte della
vertebra lasciando fuori proprio quella in discussione. In particolare i
consulenti del Pm hanno prelevato tessuto osseo della vertebra nella parte
opposta ed interna dove, guarda caso , vi era una vecchia frattura . Non
solo, ma poi è emersa evidente un’altra frattura ad l4, cioè così vicina e
sotto ad l3 da non poter non far pensare che entrambe siano state procurate
a Stefano con un calcio od un colpo diretto proprio in quella zona. Tutti i
medici che lo visitarono notarono segni evidenti e particolare dolore
lamentato da mio fratello proprio lì. Gli stessi consulenti del Pm hanno
fotografato abbondante sangue sui muscoli della stessa zona, che, visti al
microscopio, risultano anche lacerati. Insomma la schiena di Stefano è
massacrata di fratture e la procura procede per lesioni lievi. Ora, dopo
aver detto che la frattura di l3 su cui i miei consulenti discutevano, era
in realtà vecchia, mi aspetto che su quella di l4 si dica che se l’è
procurata da morto. Siamo veramente stanchi di questo teatrino tragicomico».
Ed ancora. La madre di Yara Gambirasio, Maura Panarese, ha scritto al
presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a più di due anni dalla morte
della figlia. Il testo della lettera parla di “Scarsa collaborazione degli
investigatori con la parte lesa”. E’ quanto rivela la puntata “Quarto Grado”
andata in onda venerdì 25 gennaio 2013. Secondo quanto riferito dalla
trasmissione, nella lettera inviata al Capo dello Stato, la madre di Yara
esprime le proprie critiche nei confronti di chi ha eseguito l’inchiesta.
Un’indagine che si è concentrata, prima sul cantiere di Mapello, poi
sull’ipotetico figlio illegittimo di un autista bergamasco morto da anni,
basandosi sul Dna. La donna manifesta dunque al Presidente Napolitano tutto
il dolore e lo sconforto perchè, dopo anni d’indagini, la figlia non ha
ancora avuto giustizia. A proposito del delitto di Sarah Scazzi e di Yara
Gambirasio e gli autogol della giustizia e del giornalismo italiano. Vi
ricordate il caso di Giusy Potenza, antesignano del delitto di Avetrana?
Giusy Potenza viene uccisa a Manfredonia con una grossa pietra. Il suo corpo
è ritrovato il pomeriggio successivo all’omicidio sulla scogliera, vicino
allo stabilimento ex Enichem. In un bar del centro di Manfredonia Carlo
Potenza, padre di Giusy, accoltella per vendetta Pasquale Magnini, padre di
una delle ragazze arrestate con l’accusa di aver indotto Giusy alla
prostituzione. Il suicidio di Grazia Rignanese madre di Giusy Potenza è
l’ultimo episodio di un caso che ha sconvolto l’esistenza della famiglia
Potenza e scosso la cittadina di Manfredonia, in provincia di Foggia. Il
caso scuote la città del Gargano che viene assediata nei giorni successivi
dalle tv nazionali e locali in cerca di risoluzioni per quello che diviene
un caso di cronaca nazionale. È stato un periodo di tensione e terrore,
quello che si è consumato a Manfredonia, sessantamila abitanti, una
quarantina di chilometri da Foggia. Per mesi questa fetta del Gargano è
stata sotto shock per la tragica fine di Giusy, uccisa a colpi di pietra da
Giovanni Potenza, un pescatore di 27 anni, che 40 giorni dopo (il 23
dicembre 2004) venne arrestato dalla polizia e che confessò l’omicidio:
l’uomo, un cugino del padre della ragazza, ha ammesso di aver colpito la
vittima con una pietra perché tra loro c’era una relazione e lei minacciava
di raccontare tutto a sua moglie se l’avesse lasciata. Il ricordo della
povera Giusy è ancora vivo in tutta la comunità accusata a suo tempo di
omertà come tutte le comunità che subiscono vicende analoghe. Una vicenda
drammatica con molti colpi di scena seguitissima da stampa e tv. Speciali tv
sono stati dedicati al caso dalla solita Rai Tre con il programma “Ombre sul
giallo”, ideato, scritto e condotto da Franca Leosini. Entrano
nell’inchiesta altre due ragazze: si tratta di Sabrina Santoro e Filomena
Rita (Floriana) Magnini, che vengono arrestate con l’accusa di
favoreggiamento e false dichiarazioni, oltre che di induzione e sfruttamento
della prostituzione. Intanto l’8 ottobre 2011 per quel delitto il pianto
liberatorio delle due amiche accompagna la lettura della sentenza del
presidente della sezione “famiglia” della corte d’appello di Bari, che
ribalta il verdetto di primo grado di condanna a 4 anni di carcere a testa
per favoreggiamento della prostituzione emessa dal Tribunale di Foggia l’11
ottobre del 2007. Sabrina Santoro, 30 anni, e Filomena Rita (Floriana)
Mangini di 25 anni, non hanno favorito la prostituzione di Giusy Potenza, la
quattordicenne sipontina ammazzata a pietrate il 13 novembre del 2004 da un
procugino con il quale aveva una relazione clandestina, che lei minacciava
di rivelare se lui non avesse lasciato la moglie. Le due imputate sono state
assolte per non aver commesso il fatto, dopo due ore di camera di consiglio;
pg e parte civile chiedevano la conferma della condanna a 4 anni, la difesa
l’assoluzione. Le ragazze accusate malamente in vario modo si rammaricano
del fatto che i giornali e le tv pronti ad infierire con accanimento
mediatico su di loro, nel momento in cui vi è stata per loro stesse una
sentenza di assoluzione, omertosamente i medesimi giornalisti hanno
censurato la notizia, tacitando gli errori dei magistrati. Sono loro a
gridare con una testimonianza esclusiva al dr Antonio Giangrande, scrittore
(autore anche del libro su Sarah Scazzi, già pubblicato sul web) e
presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. In sintesi il loro
pensiero conferma un tema ricorrente identico a sé stesso: povero territorio
e poveri protagonisti della vicenda, vittime sacrificali di un sistema
mediatico che nell’orrore e nella persecuzione ha la sua linfa. Si inizia
con uno strillio del citofono, con le forze dell’ordine che ti cercano. In
quel momento ti casca il mondo addosso. E’ un uragano che ti investe. Ti
scontri con procuratori della repubblica innamoratissimi della loro tesi di
accusa, assecondati dal Tribunale della loro città e sostenuti da
giornalisti che pendono dalla loro bocca o che si improvvisano
investigatori. E l’opinione pubblica, influenzata dalla stampa, ti odia fino
ad augurarti la morte. «Dalla sentenza che ha acclamato la nostra estraneità
ai fatti, nessuno ci ha cercato per ristabilire la verità e per renderci la
nostra dignità e la nostra reputazione. Chi è schiacciato dal tritasassi
della giustizia, anche se innocente, è frantumato per sempre». E’ il
pensiero di Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Magnini, ma possono
essere le affermazioni di migliaia di innocenti che da queste vicende ne
sono usciti distrutti. Certo Giusy Potenza merita la nostra attenzione, ma
non meritano forse analoga compassione le altre vittime di questa vicenda?
Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Mangini additate da tutti come
“puttane” che hanno indotto Giusy alla prostituzione e accusate di essere
state responsabili indirettamente della sua morte. Bene se nessuno lo fa,
sarò io a ristabilire la verità e a dar voce a quelle vittime silenti, che
oltraggiate dalla gogna mediatica, non sono mai oggetto di riabilitazione da
parte di chi ha infangato il loro onore. Quei media approssimativi e cattivi
che si nutrono delle disgrazie altrui. La verità si afferma dall’alto di un
fatto: una sentenza definitiva di assoluzione. La verità tratta da un fatto
e non dedotta da un opinione di un giornalista gossipparo. Il fenomeno
Vallettopoli era appena cominciato: un tormentone mediatico che aveva
trasformato la tranquilla e sonnecchiante città di Potenza in un vero e
proprio “ombelico del mondo”, scriveva Stella Montano sul “Quotidiano della
Basilicata”. Giornalisti, reporter, fotoreporter, cameraman di testate
giornalistiche e agenzie di stampa di tutt’Italia, tutti a Potenza, per
studiare da vicino quella che sarebbe stata una delle inchieste più discusse
degli ultimi anni; ma anche autisti, avvocati, segretari, agenti di
spettacolo al servizio di veline e soubrette, di attori e calciatori,
chiamati a rispondere alle difficili domande del pm che aveva aperto le
indagini sulle presunte estorsioni ai danni di vip, attività che aveva fatto
la fortuna dell’agenzia “Corona’s”, il cui logo, in quel periodo era
diventato uno status symbol, consolidato persino dinanzi al carcere di
Potenza, il 29 marzo del 2007, giorno del suo 33esimo compleanno,
festeggiato dai suoi collaboratori più fedeli con una grande torta e con
tanto di candeline. Albergatori e ristoratori felici del tutto esaurito;
trovare un posto libero in un pub o in una pizzeria era diventata
un’impresa. Esaurite sin dalle prime ore del mattino le copie di quotidiani,
settimanali e periodici: la voglia di leggere era diventata dilagante,
dirompente. Per i 3 tassisti in servizio in città, spola ininterrotta dalla
stazione al tribunale, dagli alberghi al carcere: un lavoro così estenuante
a Potenza non si era mai visto. Come non si era mai visto che qualcuno
prendesse addirittura dei giorni di ferie dal lavoro per non perdersi uno
spettacolo “live” senza eguali, tra le inferriate del Tribunale. Tra flash e
microfoni buttati letteralmente in aria, il passaggio super scortato di
Raoul Bova, Loredana Lecciso, Diego Della Valle, Fernanda Lessa, Nina Moric,
aveva mandato in visibilio anche studenti, adolescenti e ragazzine, pronte
ad immortalare con un flash quel passaggio dorato di vittime/carnefici del
“sistema Corona”. Girandola di starlette e paillettes che in quei giorni
avevano di fatto trasformato la visione del capoluogo lucano agli occhi del
mondo mediatico. Merito di quel “pm biondo che faceva impazzire il mondo”
che aveva scoperchiato le malefatte di un “ragazzo insolente” di nome
Fabrizio Corona. Qualcuno aveva persino proposto di far diventare Henry John
Woodcock «assessore al turismo del comune di Potenza». Starlette, gossip ed
inchieste giudiziarie. Le tante Ruby dell’informazione e della giustizia
italiana. Guerra, Berardi, Polanco, Faggioli… Che fine hanno fatto le
“olgettine”? Qualche anno fa non si parlava che di loro, oggi sono quasi
dimenticate. Da Barbara Guerra a Iris Berardi, da Marysthell Polanco a
Barbara Faggioli. Che fine hanno fatto le cosiddette ragazze del
bunga-bunga? E quelle che abitavano nell’ormai famigerato appartamento di
via Olgettina, a Milano? Non si parlava d’altro, i quotidiani erano ricchi
tutti i giorni di notizie e segnalazioni sulle loro imprese e i rotocalchi
si contendevano le loro immagini «rubate» durante costosissime incursioni
nel quadrilatero della moda, in centro a Milano, per l’immancabile shopping
quotidiano. Erano tante le ragazze in qualche modo entrate nell’elenco delle
donne attribuite a Silvio Berlusconi. “Oggi” le aveva contate una a una: da
Nicole Minetti a Maryshtell Garcia Polanco, da Roberta Bonasia a Barbara
Faggioli, da Alessandra Sorcinelli a Iris Berardi, per non parlare di Ruby
Rubacuori. L’elenco, alla fine, ne conteneva ben 131. È passato, come
dicevamo, solo qualche anno. Per qualcuno il ricordo di quelle ragazze è già
sbiadito. Per altri sono rimaste nella memoria collettiva. «Subisco dai
giudici violenza psicologica, una vera e propria tortura, una pressione
insostenibile». Lo ha detto Ruby, all’anagrafe Karima El Mahroug, la giovane
marocchina al centro del processo sui festini hard nella residenza di Silvio
Berlusconi ad Arcore, che il 4 aprile 2013 ha inscenato una protesta contro
i magistrati davanti al Palazzo di Giustizia di Milano. La giovane ha letto
un comunicato stampa lungo sei pagine sulle scale del tribunale e si è
presentata con un cartello che recitava ‘Caso Ruby: La verità non interessa
più?’. Protesta anche contro la stampa, che a suo parere strumentalizza la
sua storia: «Per colpire Berlusconi la stampa ha fatto male a me. Oggi ho
capito che è in corso una guerra contro Berlusconi e io ne sono rimasta
coinvolta, ma non voglio che la mia vita venga distrutta». Ruby ha letto un
comunicato che ha consegnato ai giornalisti presenti. «La colpa della mia
sofferenza è anche di quei magistrati che, mossi da intenti che non
corrispondono a valori di giustizia, mi hanno attribuito la qualifica di
prostituta, nonostante abbia sempre negato di aver avuto rapporti sessuali a
pagamento e soprattutto di averne avuti con Silvio Berlusconi. Non sono una
prostituta. Nessuno ha voluto ascoltare la mia verità, l’unica possibile.
Voglio essere ascoltata dai magistrati per dire la verità, sono la parte
lesa in questa vicenda. Voglio protestare per non essere stata sentita. Non
ne capisco la ragione e intendo dirlo pubblicamente. La violenza che più mi
ha segnato è stata quella del sistema investigativo. Dei ripetuti
interrogatori che ho subìto, soltanto alcuni sono stati messi a verbale.
Trovo sconcertante e ingiusto che nessuno voglia ascoltarmi, soprattutto
perché secondo l’ipotesi accusatoria io sarei la parte lesa, secondo la
ricostruzione dei pm sarei la vittima. Oggi dopo aver sopportato tante
cattiverie sono qui a chiedere di essere sentita. Sono vittima di uno stile
investigativo e di un metodo fatto di domande incessanti sulla mia intimità,
le propensioni sessuali, le frequentazioni amorose, senza mai tenere conto
del pudore e del disagio che tutto ciò provoca in una ragazza di 17 anni. A
17 anni non sapevo nemmeno chi fossero i pm, non leggevo i giornali, a
malapena sapevo chi fosse Berlusconi. Oggi ho capito che è in corso una
guerra nei suoi confronti che non mi appartiene, ma mi coinvolge, mi
ferisce. Non voglio essere vittima di questa situazione non è giusto. Chiedo
che qualcuno ascolti quello che ho da dire, voglio raccontare l’unica verità
possibile e lo voglio fare in sede istituzionale. La violenza che più mi ha
segnato è stata quella di essere vittima di uno stile investigativo fatto di
promesse mai mantenute di aiutarmi a trovare una famiglia e di proseguire
gli studi. Alla pressione incessante dei magistrati ho ceduto: era più
facile dire sì e raccontare storie inverosimili, piuttosto che farmi
angosciare o peggio far accettare la verità che avrei voluto raccontare. Ho
deciso di parlare per rispondere a chi, magistrati e giornalisti inclusi, mi
ritiene una poco di buono. Sono spiaciuta di aver fatto una cavolata dicendo
che ero parente di Mubarak». E contro i magistrati: «Non c’è la prova che mi
prostituissi, l’atteggiamento degli investigatori fu amichevole poi cambiò
quando capirono che non avrei accusato Silvio Berlusconi. A quel punto sono
iniziate le intimidazioni subliminali, gli insulti nei confronti delle
persone che mi avevano aiutato…una vera e propria tortura psicologica. Una
volta – ha raccontato ancora Ruby – non potendone più sono addirittura
scappata dalla comunità di Genova in cui mi trovavo per non dover subire
ancora quella pressione e l’unico che si preoccupò e mi convinse a rientrare
è stato un amico al quale sono tuttora affezionata. Sono rientrata e di
fronte alla pressione incessante dei magistrati ho ceduto: era più facile
dire sì e raccontare storie inverosimili piuttosto che farmi angosciare o
peggio far accettare la verità che avrei voluto raccontare. Mi sono resa
conto – ha continuato – che a loro non interessava nulla di me. Ho
raccontato di aver incontrato persone che conoscevo solo grazie ai
rotocalchi, come Cristiano Ronaldo o Brad Pitt e dentro di me mi domandavo
come fosse possibile che non si accorgessero che erano frottole. Questa è
stata la peggiore delle violenze che ho subito, oltre alle costanti
diffamazioni riportate dalla stampa alle quali mi pento di non aver reagito
prima. Ho raccontato tante bugie, anche ai magistrati, perché mi vergognavo
di me, del posto in cui sono nata, della mia famiglia, dei piccoli lavori di
fortuna che sono stata costretta a fare per racimolare qualche spicciolo.
Per questo ho raccontato bugie per sentirmi diversa e per convincere anche
gli altri che lo fossi davvero, diversa come avrei voluto essere sempre. Mi
spiace aver raccontato queste bugie anche a Silvio Berlusconi, il quale,
oggi, sono sicura, si sarebbe dimostrato rispettoso e disposto ad aiutarmi
anche se avessi detto la verità. La verità è che vengo da una paesino che si
chiama Letojanni e che la mia famiglia vive in condizioni di grande
precarietà. La verità è che per tanto tempo volevo essere un’altra persona e
adesso pago il conto: il rischio di vivere il resto della mia vita con
appiccicato il marchio infamante della prostituta che qualcuno ha voluto
affibbiarmi a tutti i costi. Quanto alla finta parentela, «mi spiace di aver
detto altre bugie sulle mie origini, ho giocato di fantasia perché il
vecchio passaporto me lo ha permesso». E, per essere ancor più credibile, la
giovane marocchina ha mostrato ai giornalisti un falso passaporto nel quale
compariva il nome di Mubarak. «Presentarmi come la nipote di Mubarak – ha
aggiunto Ruby – mi serviva a costruire una vita parallela, diversa dalla
mia. Mi serviva a mostrare un’origine diversa, lontana dalla povertà in cui
sono nata e cresciuta e dalla sofferenza che ho patito prima e dopo aver
lasciato la mia famiglia in Sicilia. Ho subito un ennesimo episodio di
intolleranza, quando la domenica di Pasqua una persona guardando mia figlia
ha detto “spero che non diventi come sua madre”. Voglio che si sappia che la
colpa è di quella stampa che per colpire Silvio Berlusconi ha fatto del male
a me. Parlo di quei giornalisti che mi hanno violentato pubblicando le
intercettazioni telefoniche che mi riguardavano». La ragazza ha spiegato di
essere stata «umiliata per troppo tempo» e, ha aggiunto, «se questo è il
Palazzo di Giustizia voglio che giustizia sia fatta». «Non voglio – ha
concluso Ruby – essere distrutta, non voglio che venga distrutto il futuro
di mia figlia a causa di un gioco pericolosissimo molto più grande di me nel
quale sono stata trascinata con violenza quando avevo solo 17 anni. Voglio
che mia figlia sia fiera di me». Intanto la «strega» diventa oggi l’ultima
fatica letteraria di Mario Spezi in “L’angelo dagli occhi di ghiaccio” che
sarà in libreria a fine marzo 2013 ma solo in Germania, perché gli editori
italiani e quelli americani non lo hanno voluto stampare. Questa volta non è
una ragazza chiamata Sabrina, ma una ragazza chiamata Amanda. Lasciatasi
alle spalle la drammatica esperienza del Mostro, Spezi con il suo amico
Douglas Preston, scrittore americano impegnato anche lui nella
controinchiesta sui delitti di Firenze, in questo libro non raccontano solo
la lunga vicenda giudiziaria di Amanda e Raffaele ma stabiliscono un
inquietante collegamento fra l’inchiesta sul Mostro di Firenze e l’omicidio
di Meredith. Due inchieste condotte dallo stesso Pm, Giuliano Mignini: «Con
gli stessi argomenti», scrivono Spezi e Preston. «Rituali osceni, riti
satanici, orge di sesso e sangue, omaggi a Satana, come aveva predetto una
“santona” che, con le sue rivelazioni, aveva dato un contributo importante
al magistrato nelle indagini sul Mostro». Amanda sembra non avere dubbi.
«Contro di lei uno stillicidio che ha influito sulle persone». «L’aveva
intuito anche Raffaele Sollecito che pochi giorni dopo la sua assoluzione mi
confidò: “Ho capito benissimo che la mia storia è stata solo l’apice di
quella di Mignini e dell’indagine perugina sul Mostro di Firenze”», rivela
Spezi. Che aggiunge: «Senza l’antefatto del Mostro non si capisce fino in
fondo cosa sarebbe avvenuto a Perugia nei quattro anni successivi. Un
antefatto che aprì le porte dei tribunali a una nuova versione dell’antica
caccia alle streghe». Ma come è stata costruita la «strega Amanda»? Spiega
Spezi: «Con uno scientifico stillicidio di notizie a senso unico iniziato
poche ore dopo il suo arresto. Non dimentichiamoci che quattro giorni dopo
gli inquirenti annunciarono: “Il caso è chiuso”. Oggi sappiamo che nessuno
di loro è colpevole. Ma in primo grado Raffaele e Amanda furono condannati.
E l’opinione pubblica era colpevolista. Per loro fortuna i giudici
dell’Appello fecero fare una nuova perizia scientifica e il risultato per
l’Accusa fu uno tsunami: “Tutti gli accertamenti tecnici svolti prima non
sono attendibili”, stabilirono i nuovi periti. Malgrado ciò fuori dal
Tribunale la sera dell’assoluzione centinaia di persone accolsero la
sentenza urlando: “Vergogna”. Evidentemente erano manipolati da una falsa
informazione. Per loro la strega doveva finire al rogo. Tutti i mezzi di
informazione diedero il massimo risalto all’assoluzione ma ben pochi
indagarono sul perché era avvenuta una storia tanto grave. E ancora oggi in
America chi osa difendere Amanda rischia addirittura l’incolumità. Ne sa
qualcosa il mio amico Preston che sul suo blog riceve spesso pesanti
minacce». Sul delitto di Sarah Scazzi sono stati scritti fiumi di parole e
mandati in onda migliaia di ore di disquisizioni giornaliere sull’argomento,
in salotti con gente che si improvvisava esperta di sociologia e di diritto.
Avetrana è stata invasa da orde di giornalisti, ognuno portatore di
pregiudizi e luoghi comuni. Sentimenti che hanno trasbordato ai loro
lettori. Io conoscitore attento delle vicende umane in Italia in tema di
violazione dei diritti umani in ambito della giustizia e dell’informazione,
ho voluto riportare un punto di vista oggettivo che nessuno mai ha ed
avrebbe avuto il coraggio di riportare. La storia di Sarah da me riportata è
intrisa di storie analoghe alla sua. Ho rapportato il comportamento di media
e magistratura per poter fare un parallelismo tra le varie vicende. Chi
legge i miei libri, e quello su Sarah Scazzi in particolare, non rimarrà
deluso, ma si arricchirà di informazioni mai da alcuno riportate. Per
esempio nessuno ha mai parlato di Valentino Castriota, il portavoce della
famiglia Scazzi, che nelle prime settimane viveva in quella casa. Il
Castriota non è stato mai chiamato a riferire quanto lui avesse saputo in
quei giorni. Come strano è – così come ha sottolineato Franco De Jaco,
difensore di Cosima Serrano, criticando l’operato della Procura – il perché,
quando si è accertato che Sarah, uscita da casa, era arrivata in quella dei
Misseri, non è stata sequestrata l’abitazione dei Misseri?»
Tutto sbagliato, tutto da rifare: la disastrata malagiustizia all’italiana
funziona così. E’ d’accordo con me Luca che scrive su “Menti Informatiche”.
Processi che durano una vita e non concludono nulla; indagini che non
finiscono mai; sentenze parziali e pasticciate che non reggono l’urto
dell’analisi logica e costringono spesso a ricominciare tutto daccapo. Non a
caso, nella speciale classifica redatta dalla Banca mondiale sul
funzionamento della giustizia, l’Italia si piazza al 155° posto su 185
Paesi: siamo meglio dell’Afghanistan, ma peggio della Sierra Leone, del
Malawi, dell’Iraq e della Bolivia. Per celebrare il più clamoroso processo
penale di tutti i tempi, quello che nel 1946, a Norimberga, giudicò e
condannò i crimini del Terzo Reich e dei gerarchi e militari nazisti, cioè
12 anni di storia, bastarono 11 mesi. Al 4 aprile 2013, dopo cinque anni e
quattro mesi, noi ancora non sappiamo cosa successe veramente nella villetta
di Perugia dove fu uccisa Meredith Kercher; dopo cinque anni e sette mesi,
ignoriamo chi sia l’assassino di Chiara Poggi a Garlasco; dopo due anni e
sette mesi dall’uccisione di Sarah Scazzi ad Avetrana si è ancora al primo
grado; dopo due anni e quattro mesi, brancoliamo nel buio per l’omicidio di
Yara Gambirasio a Brembate. Ci sono voluti 22 anni per ritrovarsi al punto
di partenza sul mai risolto assassinio di Simonetta Cesaroni, in via Poma, a
Roma; 20 anni per scoprire finalmente che l’omicida della contessa Alberica
Filo Della Torre, all’Olgiata, è, nel la più classica tradizione
giallistica, il maggiordomo filippino Manuel Winston, peraltro in chiodato
da una intercettazione disponibile tre giorni dopo il delitto che però non
fu mai ascoltata; 20 anni per avere la certezza che se le indagini sulla
scomparsa di Elisa Claps a Potenza nel 1993 fossero state svolte con un
minimo di competenza, il caso si sarebbe risolto in poche ore e forse Danilo
Restivo non avrebbe ucciso nel 2002 in Inghilterra la sartina Heather
Barnett. A proposito, qualcuno dovrà pur spiegare ai genitori della
studentessa inglese Meredith Kercher, come mai un tribunale di Sua Maestà ha
impiegato un anno e l i giorni per arrestare e condannare Restivo
all’ergastolo, mentre noi siamo ancora in alto mare nel delitto di Perugia.
Secondo le statistiche europee, i processi penali in Italia durano in media
otto anni; negli altri Paesi dell’Unione, al massimo tre; negli Stati Uniti,
invece, si va da un minimo di un giorno a un massimo di una settimana per la
stragrande maggioranza dei casi. In Norvegia, sono bastate 10 settimane per
processare e condannare Anders Breivik, autore della strage di Utoya (77
persone uccise a fucilate). Da noi ci sono processi, quelli privilegiati,
accelerati perché illuminati dal faro mediatico, che avanzano faticosamente
al ritmo di un’udienza a settimana e processi che si inceppano per fatti
incredibili: a gennaio 2013 la Corte di Cassazione ha annullato per vizio di
forma il deposito delle motivazioni del processo «Crimine infinito» sulle
infiltrazioni della ‘ndrangheta in Lombardia (110 persone condannate) perché
la stampante si era rotta e mancavano 120 delle 900 pagine.
Da queste sue parole si evince che lei non ha remore a parlare degli errori,
veri o presunti, commessi dai magistrati di Taranto.
«I magistrati di Taranto ed il loro operato. Il solo che si è ribellato allo
strapotere dei magistrati tarantini in ambito locale è stato il dr. Antonio
Giangrande, me medesimo. Io ho presentato svariate denunce a Potenza e
presso altre procure competenti, quando Potenza non è intervenuta per abuso
ed omissione commessi presso gli uffici giudiziari Tarantini. Naturalmente,
lasciato solo, non potevo che subire l’onta del linciaggio, dell’accusa di
mitomania o pazzia e dell’accanimento giudiziario, che nei miei confronti
non ha prodotto alcuna condanna penale per reati d’opinione. Oggi non sono
più solo. Anche l’Ilva con un esposto a Potenza denuncia i magistrati
tarantini: “Accanimento contro di noi. Verificate se hanno commesso reati”.
La denuncia è stata depositata negli ultimi giorni di marzo 2013 da parte
dell’avvocato Leonardo Pace per conto dello studio De Luca di Milano che
segue l’azienda. Non dall’avvocato tarantino che segue gli interessi
dell’azienda. Egidio Albanese, avvocato già presidente del Consiglio
dell’Ordine degli avvocati di Taranto ed in buoni rapporti istituzionali con
quei magistrati. D’altronde un ex prefetto e i magistrati erano fatti
appositamente per lavorare a braccetto. Invece sono finiti in tribunale: il
presidente dell’Ilva Bruno Ferrante, noto per la sua moderazione e la stima
che ha nella magistratura, ex Prefetto di Milano già candidato a Milano
proprio per il centrosinistra, ha denunciato in procura a Potenza i
magistrati tarantini che si stanno occupando del siderurgico e i custodi
incaricati di vigilare il sequestro. A Taranto i magistrati non applicano la
legge: loro SONO LA LEGGE. Questo atteggiamento li ha portati a disapplicare
le leggi dello Stato, ma per la Corte Costituzionale la legge salva-Ilva è
legittima. E dunque il colosso dell’acciaio può continuare a produrre.
Perché quelle norme varate per permette all’azienda di restare in vita “non
hanno alcuna incidenza sull’accertamento delle responsabilità nell’ambito
del procedimento penale in corso davanti all’autorità giudiziaria di
Taranto”. Un’interpretazione che fa a pugni con quella dei giudici tarantini
per il quali autorizzare la produzione equivale a una autorizzazione a
inquinare. Anzi, a continuare a inquinare. Questa la decisione presa dalla
Consulta sulla legge 231/2012 varata a dicembre a stragrande maggioranza dal
Parlamento, che ha convertito il decreto del governo Monti, intervenuto dopo
il sequestro dell’area a caldo dello stabilimento e l’apertura della
querelle giudiziaria che ha visto contrapporsi magistratura e politica nella
ricerca di una soluzione per Taranto e per la salute dei suoi cittadini.
L’azienda che ha anche minacciato di chiedere i danni per i mancati
introiti, appellandosi proprio al via libera concesso con la salva-Ilva. Il
lungo conflitto sulla legge è partito lo scorso luglio 2012: da un lato i
magistrati di Taranto che indagano per disastro ambientale, dall’altro il
governo e il parlamento che con la legge hanno di fatto superato quel
provvedimento per evitare il blocco dell’attività del siderurgico. Per la
Corte Costituzionale sono in parte inammissibili, in parte infondate le
questioni di legittimità sollevate. Secondo il Tribunale, la norma con i
suoi tre articoli ne viola cinque della Costituzione. Il gip Todisco,
invece, ha rilevato elementi per sostenere la violazione di ben diciassette
articoli della carta costituzionale. Profili di incostituzionalità – tra cui
quello sul diritto alla salute e quello sull’indipendenza della Magistratura
– che però non hanno retto al vaglio della Consulta, per la quale lo
stabilimento tarantino può proseguire l’attività produttiva e la
commercializzazione dei prodotti nonostante i provvedimenti di sequestro
disposti dall’autorità giudiziaria. Una puntualizzazione di diritto al fine
di spiegare l’eventuale scontato esito della denuncia a Potenza. Il diritto
non prevede l’istituto dell’insabbiamento: o rinvio a giudizio per i
denunciati o procedimento per calunnia contro Ferrante e Buffo. Chiaro no?!?
Sono passati giorni da quando (11 novembre 2010) un magistrato della Procura
della Repubblica di Taranto Matteo Di Giorgio è stato rinchiuso in casa agli
arresti domiciliari dai Magistrati del Tribunale di Potenza. Magistrati
denunciati proprio da Di Giorgio. Premettiamo che a marzo 2010 il Magistrato
Matteo Di Giorgio aveva denunciato sia il Magistrato della Procura della
Repubblica di Potenza Laura Triassi (M.D.) sia l’ex maresciallo Leonardo
D’Artizio alla Procura della Repubblica di Catanzaro per abusi nelle
indagini contro di lui. In pratica la dott.sa Laura Triassi si serviva per
le indagini contro il collega Matteo Di Giorgio del Maresciallo Leonardo
D’Artizio, sottoufficiale dell’arma non più in servizio in quanto espulso
dall’Arma perché imputato di maltrattamenti e di altri gravi reati, dai
quali era scaturito anche un suicidio di un carabiniere, suo subalterno. La
denuncia di Di Giorgio contro la dott.sa Laura Triassi e il maresciallo
Leonardo D’Artizio provocò la reazione irata dei magistrati di Magistratura
democratica, i quali intimarono a Di Giorgio di chiedere lui stesso il
trasferimento presso la Procura della Repubblica di Pescara, dove c’era un
posto libero, pena spiacevoli conseguenze per lui. Conseguenze che poi si
sono puntualmente verificate. C’è una cittadina in provincia di Taranto di
17.000 anime che si chiama Castellaneta, in cui risiedono un parlamentare
del P.D Rocco Loreto ed un magistrato della locale Procura della Repubblica
di Taranto Matteo Di Giorgio, i cui parenti militano politicamente nell’area
di centro-destra. Nell’anno 2000 infatti il parlamentare del P.D. dopo aver
perso le elezioni comunali a Castellaneta, inoltra contro il Magistrato
Matteo Di Giorgio ben tre denunce penali una di fila all’altra: 6 aprile
2000, 31 maggio 2000 e 2 giugno 2000. Le denunce però vengono dirottate a
Potenza (sede competente a giudicare dei reati in cui è parte lesa un
Magistrato che esercita le sue funzioni nel distretto di Taranto) e – fatto
imprevisto – pervengono nelle mani di John Woodkock. Woodckock non è un
Magistrato condizionabile, indaga da par suo e scopre che nel 2001 il
parlamentare aveva contattato un imprenditore tal Francesco Maiorino,
testimone nel processo affinché calcasse la mano su Di Giorgio e lo
accusasse di fatti non veri per ipotizzare una sua possibile corruzione
giudiziaria. Di fronte a fatti di questa gravità Woodckock arresta il
parlamentare. Però, nonostante Woodckock, il processo per calunnia va avanti
molto a rilento. Ancora nell’anno di grazia 2010 per fatti che risalgono
nientedimeno che al 2001, non si è ancora concluso nemmeno il giudizio di
primo grado. L’11 settembre 2009 interviene una novità. Woodckock si
trasferisce a Napoli e nel Tribunale di Potenza si rafforza la presenza di
M.D. Per Di Giorgio inizia presso il Tribunale di Potenza un autentico
calvario. Altre denunce partano dalla penna del senatore del P.D. e l’11
novembre 2010 le parti si invertono. Di Giorgio rimane parte lesa di delitto
di calunnia, ma diventa imputato di concussione in un altro processo che ha
origine dalle denunce di cittadini di Castellaneta chiaramente di sinistra e
viene posto lui questa volta agli arresti domiciliari. Si arriva così
all’assurdo che nel processo per calunnia ancora in corso Di Giorgio
magistrato e parte lesa dovrebbe comparire in catene e il parlamentare
imputato di calunnia contro di lui, potrebbe irriderlo dal banco degli
imputati. Uno scarno comunicato dei magistrati del Tribunale di Taranto
colleghi di Matteo Di Giorgio all’indomani dell’emissione del mandato di
cattura contro Di Giorgio (12 novembre 2010) esprime fiducia nell’operato
dei giudici di Potenza e auspica però che la vicenda si chiarisca al più
presto (ergo che in pochi giorni il collega Di Giorgio sia liberato). In un
paese in cui i magistrati fanno interviste e pubblicano libri parlando delle
loro inchieste ancora aperte, può sembrare surreale: eppure mercoledì 20
febbraio 2013 il Consiglio Superiore della Magistratura ha punito Clementina
Forleo, giudice a Milano, negandole gli avanzamenti di carriera cui avrebbe
avuto diritto non solo per anzianità ma anche per le valutazioni sulla sua
professionalità («eccellente») fornite dal consiglio giudiziario di Milano e
acquisite nel suo fascicolo. La colpa della Forleo è essere andata anni fa
in televisione, ad Annozero, denunciando le pressioni dei «poteri forti»
sull’inchiesta Bnl-Unipol, ovvero sulla scalata della assicurazione «rossa»
alla Banca Nazionale del Lavoro. E l’inizio dei guai della Forleo iniziò
quando chiese al Parlamento di poter trascrivere le intercettazioni delle
telefonate di Massimo D’Alema e del suo compagno di partito Nicola La Torre,
definendoli «complici consapevoli del disegno criminoso». La storia – si
diceva una volta – è fatta di corsi e ricorsi storici. Con ciò si voleva
dire che la storia è composta di vicende analoghe che di volta in volta nel
tempo si ripetono. Quindi è presumibile che Clementina Forleo sia stata
massacrata da una azione congiunta che ha visto convergere magistrati
dalemiani di M.D. e magistrati finiani di M.I. Tra questi ultimi c’è anche
quell’Alberto Santacaterina all’epoca Sostituto Procuratore presso il
Tribunale di Brindisi, affiliato a M.I., la corrente di destra delle toghe
che fa capo a Gianfranco Fini, il quale in pratica si è clamorosamente e
apertamente rifiutato di espletare indagini sulle minacce e sugli attentati
subiti dalla famiglia della Forleo, non ultimo la morte dei genitori
preannunciata da una lettera anonima (“i tuoi genitori moriranno e poi
morirai anche tu”;) e puntualmente verificatasi venti giorni dopo a seguito
di uno “strano” incidente stradale. Alberto Santacaterina finì sotto
processo per questo motivo, fu a un passo dall’essere sottoposto a mandato
di cattura da parte di un valoroso magistrato della Procura della Repubblica
di Potenza Ferdinando Esposito per associazione a delinquere, falso,
omissioni di atti d’ufficio, abuso in atti d’ufficio e altri reati. Poi, a
seguito di un altro strano incidente stradale il giudice Ferdinando Esposito
precipitò in una scarpata. Stette lì lì per morire, dovette abbandonare
l’inchiesta che passò – provvidenzialmente per Santacaterina – nelle mani di
un Magistarto di M.D. Cristina Correlae e tutto si sistemò. In seguito
Alberto Santacaterina si troverà in premio a fare il Sostituto Procuratore
distrettuale anti-mafia presso la Procura della Repubblica di Lecce. Alcuni
Magistrati della stessa Procura della Repubblica di Lecce vorrebbero
incriminare i valorosi magistrati della Procura della Repubblica di Bari
Antonio Laudati, Ciro Angelillis e Eugenia Pentassuglia sulla base di una
denuncia del magistrato sempre di Bari e di M.D. Giuseppe Scelsi. I
Magistrati Antonio Laudati, Ciro Angelillis e Eugenia Pentassuglia sono i
magistrati i quali, meritoriamente, hanno scoperchiato il pentolone
puteolento della malasanità pugliese. Anche i magistrati del Tribunale di
Taranto si son visti recapitare un messaggio inquietante attraverso
l’arresto disposto dal magistrato di MD della Procura della Repubblica di
Potenza Laura Triassi del loro valoroso collega Matteo Di Giorgio già
delegato su Taranto per le indagini anti-mafia dalla Direzione Distrettuale
Antimafia di Lecce diretta dal valoroso magistrato Cataldo Motta. Il mandato
di cattura è stato poi in gran parte annullato dalla Cassazione ma al dott.
Matteo di Giorgio continua a essere imposta la misura del soggiorno
obbligato e la sospensione dal servizio e dallo stipendio che dura ormai da
anni. Per aver pubblicato sul mio sito web le vicende attinenti il caso di
Clementina Forleo, la Procura, il GIP ed il Tribunale di Brindisi, prima, e
la Procura, il GIP ed il Tribunale di Taranto, poi, hanno pensato di
incriminarmi per violazione della Privacy e di oscurare l’intero sito di
centinaia di pagine, con vicende estranee a quelle oggetto di processo. Ma
“un giudice a Berlino” ha rimesso le cose a posto, pronunciando
l’assoluzione perché il fatto non sussiste. In questo processo, ossia nel
processo per il delitto di Sarah Scazzi, quel che salta agli occhi di chi ha
anche poca dimestichezza con le cose di giustizia e che palesemente si
evidenzia è la incoerenza assoluta del pensiero dei magistrati. I moventi
del delitto secondo l’accusa: gelosia per Ivano, anzi, no; lesione
dell’onore e della reputazione familiare, anzi, no; gelosia tra sorelle. Uno
vale l’altro, c’è solo l’imbarazzo della scelta. La ricostruzione del
delitto secondo la procura avallata dal Gip di Taranto, in base alle
motivazioni delle custodie cautelari di Pompeo Carriere e Martino Rosati: 6
ottobre 2010, Michele Misseri confessa ai carabinieri, in un interrogatorio
a Taranto, di aver ucciso Sarah, strangolandola nel garage di casa dopo un
rifiuto alle sue avances, e di aver abusato del cadavere in campagna. Nella
notte fa ritrovare il corpo, gettato in un pozzo-cisterna, anzi, no; Sabrina
(d’accordo con il padre che uccide Sarah) ha trascinato con forza nel garage
la cugina Sarah con il proposito di darle una lezione, al fine di evitare
che la ragazzina potesse diffondere in paese la notizia delle attenzioni
sessuali riservatele dallo zio, delle quali anche Sabrina era venuta a
conoscenza, anzi no; l’omicidio è stato commesso esclusivamente da Sabrina,
in garage, fra le 14.28.26 e le 14.35.37, anzi no; l’omicidio è stato
commesso dalla sola Sabrina, in garage, prima delle ore 14.20, anzi, no;
l’omicidio è stato commesso da Sabrina, in concorso con la madre, e non più
in garage, ma in casa. Inoltre, i difensori degli imputati hanno lamentato
di essersi trovati di fronte a una memoria di 599 pagine depositata dal
pubblico ministero che, al contrario di quanto era stato assicurato, non
sarebbe una mera riproduzione della requisitoria pronunciata in aula, ma
conterrebbe alcuni fatti nuovi, che stravolgerebbero la stessa e
presenterebbe delle contraddizioni. Quando si pensa che in un dato ufficio
giudiziario giudicante vi possa essere il dubbio che il giudizio possa esser
influenzato da fattori esterni al processo, la legge dà la possibilità al
cittadino di presentare alla Corte di Cassazione il ricorso per rimessione
in altro luogo del processo per legittimo sospetto che il giudizio non sia
sereno. E’ il ricorso per legittima suspicione. Questo ricorso è stato
presentato da Franco Coppi, e non poteva essere proposto se non da un
avvocato estraneo al Foro di Taranto anche per ragioni di opportunità, oltre
che di coraggio, così come è stato da me presentato per le mie vicissitudini
ritorsive, proprio perché, io parlando senza peli sulla lingua sono molesto
ai magistrati di Taranto che, da me criticati, pretendono di giudicarmi per
quello che scrivo. Purtroppo la Corte di Cassazione mai ha accolto un
ricorso del genere, disapplicando di fatto una legge dello Stato per
tutelare i loro colleghi magistrati, a scapito della vita di un presunto
innocente, dichiarato erroneamente colpevole.
Condannate, in primo grado, all’ergastolo Sabrina Misseri e sua madre Cosima
Serrano per l’omicidio di Sarah Scazzi. La Corte di Assise di Taranto ha
disposto anche l’isolamento diurno di 6 mesi in carcere per entrambe. 8 anni
a Michele Misseri per concorso nella soppressione del cadavere della nipote
e per furto aggravato del telefonino della vittima. Condannati a 6 anni
Carmine Misseri e Cosimo Cosma, fratello di Michele Misseri il primo e
nipote il secondo, per concorso in soppressione di cadavere. 2 anni a Vito
Russo, ex avvocato di Sabrina, condannato per intralcio alla giustizia. 1
anno a Antonio Colazzo e Cosima Prudenzano e 1 anno e 4 mesi a Giuseppe
Nigro, tutti testimoni del processo condannati per falsa testimonianza, con
pena sospesa. La Corte di assise di Taranto ha condannato anche Michele
Misseri, Cosima Serrano e Sabrina Misseri al risarcimento dei danni, da
stabilire in separata sede, alla famiglia Scazzi e al Comune di Avetrana.
Nello stesso tempo ha stabilito una provvisionale di 50mila euro ciascuno ai
genitori di Sarah, Giacomo Scazzi e Concetta Serrano, e di 30mila euro per
il fratello Claudio. La sentenza è stata letta in aula dalla presidente Rina
Trunfio che ha dovuto chiedere a forza il silenzio per fermare l’applauso
spontaneo dei presenti in aula alla lettura della sentenza. Durissima la
reazione alla sentenza della madre di Sarah Scazzi, Concetta Serrano
Spagnolo: “chi uccide merita questo”. Le posizioni dei testimoni che non
hanno testimoniato a favore dell’accusa saranno vagliate dallo stesso
ufficio della procura. Come volevasi dimostrare e come già ampiamente
anticipato a tutta la stampa e ad “Affari Italiani” del 15 novembre 2011
«posso profetizzare la condanna per gli imputati, in 1° e 2° grado, con
assoluzione in Cassazione». D’altronde lo stesso Franco De Jaco, difensore
di Cosima Serrano, aveva avvertito lo stesso sentore. «Perché qui
commetterete un altro omicidio, oltre quello perpetrato in danno di una
povera ragazzina. E un altro omicidio è quello di mettere in galera,
all’ergastolo due innocenti, una giovanissima peraltro. E’ un altro
omicidio. E’ inutile per la difesa arrampicarsi sugli specchi perché tanto
la Corte, attenzione, non la gente, la Corte ha già la sentenza, ha già
deciso. Quando io sento queste cose mi sento mortificato come cittadino, pur
sapendo che ciò non è vero. Però quando viene trasferito questo segnale,
quando viene trasferito questo pensiero, noi generiamo nella gente quello
che sta avvenendo: la rivolta. Non la rivolta verso la politica; la rivolta
verso le istituzioni.» Per quanto preannunciato a tutta la stampa ed ad
“Oggi” il 16 febbraio 2012, senza intenti diffamatori ho chiesto agli
avvocati in causa ed a tutta la stampa: come è possibile che a presiedere la
Corte d’Assise di Taranto per il processo di Sarah Scazzi, in violazione al
principio della terzietà ed imparzialità del giudice, sia il giudice
Cesarina Trunfio, ex sostituto procuratore di Taranto, già sottoposta del
Procuratore Capo di Taranto Franco Sebastio e collega dell’aggiunto Pietro
Argentino e del sostituto Mariano Buccoliero. Ex colleghi oggi facenti parte
dell’attuale collegio accusatore nel medesimo processo sul delitto di Sarah
Scazzi dalla Trunfio presieduto? Qualsiasi decisione finale sarà presa, sarà
sempre adombrata dal dubbio che essa sia stata influenzata dalla colleganza
funzionale e territoriale. Ma avvisaglie ci erano già state. Non devono
essere piaciute le risposte della testimone Liala Nigro alla giudice
popolare. Troppo a favore di Sabrina Misseri? Certamente quella frase
sfuggita ad alta voce e detta all’orecchio della sua collega di giuria
popolare non è sembrata opportuna alla difesa, tanto che l’avvocato Nicola
Marseglia ha fatto presente il fatto alla presidente Rina Trunfio chiedendo
l’astensione della signora. E dopo una breve riunione la giudice ha letto la
sua astensione «per motivi personali». Sarà!, commenta Maria Corbi,
giornalista de “La Stampa”. E il fatto che la giudice si sia astenuta certo
fa pensare. E che dire dei giudizi espressi dai giudici togati. Tutto
tranquillo se non foss’altro che un fuorionda tra i giudici irrompe nel
processo. Presidente Trunfio: «certo vorrei sapere, là, le due posizioni
sono collegate. Quindi bisogna vedere se si sono coordinati… tra di loro e
se si daranno l’uno addosso all’altro.» Giudice latere Misserini: «ah,
sicuramente.» Presidente Trunfio: «bisogna un po’ vedere, no, come
imposteranno… potrebbe essere mors tua via mea. Non è che negheranno in
radice.» Il fuori onda semina imbarazzo al processo per l’omicidio di Sarah
Scazzi. Nelle mani della difesa è finito un dialogo, in aula, tra il giudice
Rina Trunfio, presidente della Corte di Assise, e il giudice a latere Fulvia
Misserini. Le due discutono delle imputate, Sabrina Misseri e sua madre
Cosima, che potrebbero, secondo le supposizioni dei giudici – sembra dalla
conversazione – optare per una strategia incrociata nella difesa che le
porterebbe ad accusarsi a vicenda, La conversazione è stata catturata dai
microfoni delle telecamere autorizzate a riprendere il dibattimento. In
particolare la frase che ha colpito gli avvocati è quella dove il presidente
della corte d’assise, il giudice Cesarina Trunfio, dice: “(Non è che)
negheranno in radice”. «Si evince che hanno già una ben definita opinione
che non rinviene necessariamente da una valutazione attenta degli atti ma da
un’idea precostituita». Spiega l’avvocato Franco De Jaco. Il professor
Franco Coppi parte da solo all’attacco, e non poteva esser altrimenti, e
viene seguito soltanto da un componente del collegio difensivo, Franco De
Jaco, legale di Cosima, nella formulazione della richiesta di astensione dei
giudici della Corte d’Assise. Ed è sulle iniziative da adottare dopo il
fuorionda che si spacca l’ampio collegio difensivo. Uno degli avvocati di
Cosima, Luigi Rella, dimissionario presidente del Consiglio dell’Ordine
degli Avvocati di Lecce, va via in netto anticipo rispetto alla fine
dell’udienza. Marseglia nel corso del suo intervento spara a zero sugli
inquirenti e sulla conduzione dell’inchiesta. «Vi stanno proponendo un
errore giudiziario sulla base di prove acquisite in modo barbaro, in
perfetto stile cubano. Sulla base di elementi forniti da testimoni che
sostengono una giusta causa perché è una giusta causa, sono i metodi per
sostenerla che non sono giusti, che fanno indignare e impegnano la difesa
fino allo spasimo perché questo modello procedimentale, prima che
processuale, non deve passare, perché questa inchiesta è stata condotta in
maniera intollerabile in quanto ad acquisizione della prova. Un enorme
errore giudiziario costruito su prove acquisite nel corso di deposizioni in
cui gli inquirenti hanno usato metodo sbagliato che la legge vieta ». Ciò
nonostante Marseglia lascia da solo il professore nell’iniziativa contro
l’assise giudicante. «Non posso che invitarvi a valutare la possibilità e il
dovere di astenervi», ha chiesto senza mezzi termini ai giudici. «Domani –
ha aggiunto Coppi – siamo disposti a riprendere il cammino se ci verrà
restituita quella serenità che in questo momento mi è stata tolta. Un
difensore – spiega Coppi – non può non rappresentare ai giudici le sue
perplessità e le sue preoccupazioni, il giudice ha diritto alla sua serenità
ma anche il difensore ha diritto alla serenità di parlare con un giudice
terzo, imparziale, che fino all’ultimo momento è disposto ad ascoltare le
ragioni dell’accusa e della difesa. Con quale spirito continuiamo ad
affrontare al processo? Vi chiediamo una dichiarazione che vi rassereni ma
che ci chiarisca il senso di quelle frasi che suscitano preoccupazione. Ci
aspettiamo dalla corte un chiarimento che ci restituisca serenità salvo
decisioni diverse che potete assumere. Chiediamo che i giudici togati
valutino la possibilità di astenersi». Coppi non ha gradito una frase
relative a possibili strategie difensive in cui «si fa riferimento ad
accordi fra i difensori, c’è cordialità ma non accordi». La presidente
Trunfio, da parte sua, visibilmente contrariata, ha alzato le spalle dicendo
che non dipendeva da lei tale decisione facendo così intendere di essere
disposta al rischio di una ricusazione la cui ultima parola spetta, in
questo caso, alla Corte d’appello del Tribunale. Medesima richiesta di
astensione è stata fatta subito dopo dall’avvocato De Jaco mentre il suo
collega del collegio difensivo, Luigi Rella, aveva lasciato inaspettatamente
l’aula. Alla richiesta di astensione formulata dal professore si associa
soltanto un componente del collegio difensivo. Ampio collegio, composto dai
tantissimi avvocati, più del numero richiesto rispetto ai molti imputati.
Avvocati locali, tra cui Lorenzo Bullo, difensore di Carmine Misseri e già
praticante avvocato di Nicola Marseglia, di cui ha assunto il modus
operandi. Franco De Jaco: «Sono frasi che ci hanno messo in allarme. E’
normale per noi che due colleghi si scambino delle opinioni ma quello che ci
preoccupa è l’ultima frase, “non possono negare in radice i fatti”. Diamo la
patente di buona fede a quelle dichiarazioni, non ci sono dubbi di nessun
genere. Domani se noi la rivedremo qui e saremo rasserenati». Le
affermazioni, che De Jaco definisce «imprudenti», anche per il difensore
evidenzierebbero «una opinione già precostituita». «Non posso far finta di
niente di fronte a certe affermazioni». Imbarazzante, infine, la posizione
di Marseglia il quale è stato colto di sorpresa dalla mossa del professore.
Da segnalare l’evidente scollamento del collegio difensivo di Sabrina
Misseri. «Il mio intervento è a titolo individuale perchè non ho avuto modo
e tempo di potermi consultare con l’avvocato Marseglia impegnato nella
fatica della sua discussione», ha voluto precisare Coppi mentre il suo
collega Marseglia dopo 7 ore di arringa lasciava il tribunale inseguito dai
giornalisti ai quali ha confermato di essere all’oscuro di tutto. «Se le
cose stanno come mi dite – ha poi dichiarato riferendosi al fuori onda
galeotto – spero domani di sentire le spiegazioni della presidente Trunfio e
di poter andare avanti con la mia arringa che è ancora impegnativa». Ma
nessun avvocato del foro si associa. Solitamente sono i legali a lamentare
il condizionamento ambientale dei magistrati presentando richiesta di
rimessione. Evidentemente il condizionamento ambientale non vale soltanto
per i magistrati. Da pensare è il fatto che un avvocato che si mette contro
i giudici può rischiare di non esercitare più la professione forense
(procedimenti penali pretestuosi o procedimenti disciplinari fittizi),
ovvero rischia di perdere tutte le cause, ovvero rischia che i suoi protetti
non passino l’esame di avvocato con i magistrati criticati nelle commissioni
d’esame. Chi lo dice? Pasquale Corleto del Foro di Lecce che in riferimento
all’esame di avvocato ebbe a dire: “non basta studiare e qualificarsi,
bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti
non sono accessibili”. Questo deve far riflettere i profani del diritto.
Riflessione generale sul mondo forense italico. A chiacchiere son tutti
bravi. I veri avvocati si distinguono dagli “azzeccagarbugli” succubi del
potere di manzoniana memoria, proprio nell’adozione di certi atti. Ma come
disse don Abbondio “se il coraggio uno non ce l’ha, non se lo può dare”.
Appunto e proprio per questo a Franco Coppi va il premio della Camera Penale
di Bari “Achille Lombardo Pijola per la Dignità dell’Avvocato”. La decisione
di assegnare il premio al prof.Coppi – è detto in una nota – è “per lo stile
che ha saputo dare, quale difensore in un delicatissimo processo in terra di
Puglia, esempio luminoso di professionalità e di dignità dell’Avvocato”‘. Il
riferimento è al processo per l’omicidio di Sarah Scazzi, in cui Coppi
difende Sabrina Misseri, cugina della vittima. Peccato però che gli avvocati
vili e ignavi continuano sì ad esercitare in combutta con i magistrati, ma
intanto a pagarne le pene sono i loro clienti. Per esempio in questo caso si
noterà chi è molte spanne sopra ai colleghi, presunti principi del Foro.
Chi lo dice questo? Lo dice chi principe del foro lo è davvero. Franco
Coppi: «Poi c’è chi ritiene di far finta di niente e chi ha il coraggio di
dire alla giudice che in questo momento non si fida.» «La difesa non è
spaccata. Il professor Coppi ha sempre la forza e il coraggio di assumere
tutte le posizioni che deve assumere un avvocato comode o scomode che
siano». Così risponde, suo malgrado, Nicola Marseglia, l’altro difensore,
con Coppi, di Sabrina Misseri. Naturalmente i media stanno lì a limitare la
portata della gravità delle affermazioni ed ad affannarsi ad accusare i
legali di difesa di prendere la palla al balzo per bloccare un processo
terminale. Esemplare è l’editoriale pro magistrati del direttore di studio
100 tv, emittente tarantina e notoriamente vicina alla Procura di Taranto. «
Insomma. Naturalmente tutti usano i mezzi possibili ed immaginabili per far
vincere le proprie tesi. Sullo sfondo di queste tesi difensive, però, il
ficcante lavoro della procura che abbiamo visto nelle udienze passate ha
scandagliato con accuratezza la grande mole di indizi, intercettazioni,
testimonianze e confidenze, entrando anche e soprattutto, non
dimentichiamolo questo, nell’humus sociale, culturale e familiare nel quale
si è realizzato il terribile omicidio.» Avetrana:”Humus sociale e culturale
che ha prodotto il delitto; ambiente malsano scandagliato dai magistrati
tarantini”, dice a mo di lacchè dei magistrati Walter Baldacconi, direttore
del TG di Studio 100 tv, emittente “Padana” con sede a Taranto, diffamando
il paese di Sarah Scazzi e dei Misseri, criticando le tesi difensive di
Nicola Marseglia e le prese di posizione di Franco Coppi in merito al fuori
onda che hanno dato l’imput all’astensione dal processo Scazzi della Trunfio
e della Misserini. Sia mai che le imputate, ancora presunte innocenti,
potessero uscire di galera. In seguito di ciò la Corte d’Assise di Taranto
ha deciso di astenersi nel processo sull’omicidio di Sarah Scazzi
trasmettendo gli atti al presidente del Tribunale dopo la diffusione del
video con fuori onda tra presidente e giudice a latere. «Abbiamo chiesto ai
giudici di valutare l’opportunità o meno di astenersi, abbiamo sollevato un
problema come qualsiasi altro difensore degno di questo nome avrebbe fatto.
I giudici hanno dato dimostrazione di scrupolo rimettendo la valutazione
dell’astensione al presidente del tribunale. Non si tratta di ottenere o non
ottenere qualcosa – ha aggiunto Coppi – non era un risultato al quale noi
puntavamo. Abbiamo sollevato semplicemente un problema che ci sembrava non
potesse non essere sollevato in relazione a delle frasi che erano state rese
pubbliche. Ci atterremo alla decisione del presidente del tribunale. Chi
dice che si tratta di un attacco strumentale alla Corte si deve vergognare
di dirlo perchè io ero sceso a Taranto per discutere il processo. Ieri c’è
stata questa sorpresa – ha aggiunto Coppi – e io, che ho insegnato sempre ai
miei allievi che bisogna avere con la toga addosso di avere il coraggio di
assumere tutte le iniziative che rientrano nell’interesse del cliente, ho
fatto quello che la mia coscienza mi imponeva di fare. Non vado a cercare
mezzucci, che me ne importa del rinvio di un giorno o di un mese in un
processo dove si discute di ergastolo. Quindi chi dice queste cose è
completamente fuori strada e dovrebbe anzi vergognarsi di dirle, se sono
state dette.» Comunque il presidente del Tribunale di Taranto Antonio
Morelli, come è normale per quel Foro, ha respinto l’astensione dei giudici
Cesarina Trunfio e Fulvia Misserini, rispettivamente presidente e giudice a
latere della Corte d’Assise chiamata a giudicare gli imputati al processo
per l’omicidio di Sarah Scazzi. I due magistrati si erano astenuti,
rimettendo la decisione nelle mani del presidente del Tribunale dopo la
diffusione di un video in cui erano “intercettate” mentre si interrogavano
sulle strategie difensive che di lì a poco gli avvocati avrebbero adottato
al processo. Secondo il presidente del Tribunale però dai dialoghi captati
non si evince alcun pregiudizio da parte dei magistrati, non c’è espressione
di opinione che incrini la capacità e serenità del giudizio e quindi non
sussistono le condizioni che obbligano i due giudici togati ad astenersi dal
trattare il processo. Il presidente del Tribunale di Taranto ha respinto
l’astensione dei giudici dopo che era stata sollecitata dalle difese per un
video fuori onda con frasi imbarazzanti dei giudici sulle strategie
difensive delle imputate. E adesso si va avanti con il processo. Tocca
all’arringa di Franco Coppi. Posti in piedi in aula. Tutti gli avvocati del
circondario si sono dati appuntamento per sentire il principe del Foro.
Coppi inizia spiegando il perché della loro richiesta di astensione:
«L’avvocato De Jaco ed io abbiamo sollecitato l’astensione in relazione alle
frasi note. Noi difensori non avremmo potuto fare nulla di diverso. Hanno
detto che era un’ancora di salvezza insperata. Chi ha detto quelle cose
offende quella toga che io indosso e che forse anche lui indossa. Nulla è
stato fatto per rendere più difficile il cammino della giustizia. E da un
mese che studiamo per l’arringa difensiva. Sono venuto a Taranto domenica
scorsa con la voglia di discutere questo processo. Abbiamo appreso di questo
scambio di battute, abbiamo fatto quello che tutti gli avvocati degni di
questo nome avrebbero fatto. Ci siamo rimessi esplicitamente alla coscienza
dei giudici, non c’era bisogno della ricusazione. Volevamo una risposta che
ci acquietasse. …abbiamo parlato alle vostre coscienze…. Abbiamo messo in
gioco la simpatia presso di voi, ma la toga impone iniziative di questo
tipo. Noi dovevamo fare quello che abbiamo fatto. Abbiamo avuto una risposta
che viene dalle vostre coscienze e spero che la vicenda sia chiusa così. Se
ci saranno altri seguiti non dipenderà da noi. Credo di essere ugualmente
legittimato di porre a lei il mio saluto e la dimostrazione del mio ossequio
insieme all’augurio che la sentenza che voi state per pronunciare sia quale
il popolo attende, ossia solamente espressione di verità e di giustizia».
«Dunque ergastolo parola tanto attesa da un’opinione imbevuta di messaggi
televisivi. Questa parola è stata finalmente pronunciata, non un dubbio
scuote il pm e di ciò noi non abbiamo nessun dubbio. Altrimenti la richiesta
sarebbe stata diversa. Dice di essere sereno, caso mai condito con un po’ di
amarezza. Non importa che Michele Misseri abbia ripetuto in questa aula di
essere stato lui l’unico assassino. E questo non è sufficiente a far venire
un ragionevole dubbio, nonostante la sentenze della Cassazione che
sottolineano come una condanna oltre ogni ragionevole dubbio debba esserci
solo quando non esiste una ipotesi alternativa. E non vediamo come si possa
parlare di una tesi oltre ogni razionalità umana, quando Misseri ha
confessato, ha fatto ritrovare i vestiti, il cellulare, il luogo di
sepoltura. Come si può pensare che questa ipotesi sia al di la della
razionalità umana? …. Non riusciamo a comprendere come l’ipotesi di Michele
Misseri colpevole non sia dotata di razionalità pratica. Altrimenti seguendo
il ragionamento del pm dobbiamo dire che la Cassazione è ininfluente. E
dobbiamo ricordare che due volte la corte di Cassazione ha dichiarato
fragile l’indizio del movente gelosia, e che non ci sono sufficienti gravi
indizi a carico di Sabrina. Ma questo non ha nessuna importanza per i pm.
Anzi hanno la massima serenità nel chiedere la condanna all’ergastolo per
questa ragazza. Un’accusa cieca che non si rende conto delle contraddizioni
delle accuse con cui chiede la condanna al’ergastolo. Ha detto o non ha
detto che è stato un movente d’impeto? E per questo si chiede l’ergastolo.
E’ vero che viene contestato il sequestro in cui assorbe l’omicidio. Ma
questo è il processo per l’omicidio di Sarah Scazzi, non di sequestro. E
l’omicidio è delineato come animato da un dolo d’impeto. Nonostante tutto
ciò: ergastolo. Dico questo per sottolineare alcuni aspetti dell’intervento
del pm, per spiegare poi tutto l’apparato critico che intendo dispiegare per
dimostrare l’infondatezza dell’impostazione del pm. Ma iniziamo con il dire
che la richiesta del pm coincide con una larghissima attesa dell’opinione
pubblica. Nego che il pm abbia voluto compiacere all’opinione pubblica, ma
certamente c’è una corrispondenza. E una corrispondenza con le sentenze
emesse nei vari salotti televisivi. Non è detto che la vox populi sia anche
una vox dei. Io ricordo l’ammonizione del presidente di questa corte che ci
ha avvertito che a loro interessa solo quello che accade in questa aula». Il
professor Coppi parla anche di conduttori, consulenti, qualche magistrato
che vanno in televisione «che senza conoscere gli atti di questo processo
hanno pontificato con quella sciocca sicumera che è figlia dell’ignoranza».
«Abbiamo visto anche testimoni che hanno applaudito quando Cosima è stata
arrestata. Voi dovreste essere solo i notai di queste sentenza di condanna
popolare. Quest’aula, anche se non ha la responsabilità di quello che accade
fuori di essa, ha comunque assorbito il fastidio e l’astio nei confronti dei
difensori degli avvocati di Sabrina Misseri. Non abbiamo nessuna intenzione
di trasformare questa discussione in una questione personale, lasciamo
perdere gli insulti di cui siamo stati oggetti. Lasciamo stare le minacce.
Che ci lasciano del tutto indifferenti. Lasciamo perdere tutte le sfide,
tutti i paragoni, le domande impudenti volte a sapere chi è che ha
retribuito la nostra attività. E quale sarebbe il tornaconto che a noi
verrebbe? A tutti ricordo che io sono un vecchio avvocato innamorato della
giustizia e mi sia concesso di ripetere a voce alta: solo questo m’arde e
solo questo mi innamora. Sono qui soltanto per spirito di giustizia. Non
accuserei mai di un omicidio Misseri sapendo che è colpevole la mia cliente.
Se posso far passare sotto silenzio le offese che riguardano la mia persona
non posso far passare le offese sul merito di questa causa». «Una
barzelletta è stata definita la nostra ipotesi del movente sessuale. Vedremo
se questa tesi è una barzelletta. Certo non posso negare che quel giudizio
non sia anche una sorprendente offesa nei confronti della mia persona. Ne
parleremo a lungo della responsabilità esclusiva di Michele Misseri. Il pm
dice che hanno dovuto subire una istanza di remissione, come se questo
costituisse un offesa. Ma vi siete chiesti signori del pm cosa abbiamo
dovuto subire noi difensori? Vi siete chiesti perché l’abbiamo chiesta?
Vogliamo ricordare i motivi di quella remissione? Ma vi rendete conto che
quando noi abbiamo inteso svolgere investigazioni difensive, anche solo per
andare in carcere a sentire Michele Misseri, che il giudice ha imposto la
presenza del procuratore della Repubblica a una attività difensiva? C’è
tutta l’Italia che ride. E non dovevamo proporre un’istanza di remissione? E
vi siete chiesti perché la procura generale ha espresso parere favorevole
alla remissione? E vogliamo ricordare le modalità con cui si è proceduto
all’interrogatorio di Michele Misseri? “Ma Michele stai tranquillo, a
Sabrina non succederà niente”. Vogliamo ricordare l’incidente del giudice
popolare che si è dovuto dimettere? (per avere offeso una testimone della
difesa). Vogliamo ricordare la lista dei testi messi sotto processo per
falsa testimonianza e favoreggiamento? Non si può dire una parola a favore
di Sabrina Misseri senza finire sotto processo. Vogliamo ricordare la nomina
di una consulente di Michele Misseri che data la sua specializzazione non
capiamo a cosa servisse, che addirittura partecipa all’interrogatorio, che
sposta il difensore per procedere lei stessa a fare domande? Anche perché
questa consulente si era già pronunciata dicendo che Michele era un
pedofilo, l’unico responsabile del delitto. Aveva già conquistata la ribalta
televisiva accusando il suo futuro cliente. Una nomina che mi porta a
pensare all’articolo 64 secondo comma, all’articolo 188 … Io mi sono dovuto
ben guardare di svolgere qualche attività non per paura ma per l’interesse
della mia cliente. Noi abbiamo una sola speranza e per questo abbiamo
valutato l’astensione. Noi vogliamo avere la fiducia che voi signori giudice
saprete allontanarvi dalle suggestioni che vengono da fuori ma anche da
dentro questa aula riconoscendo le ragioni della difesa. Le nostre ragioni
sono basate sui fatti non alla fantasia e attingono alla logica e al buon
senso. Manzoni diceva «Il buon senso c’è, ma è nascosto dal senso comune».
Noi dobbiamo guardare agli atti sostituendo al senso comune il buon senso.
Uno scrittore americano ha scritto che esistono quattro categorie di giudici
quelli con il cuore ma senza testa, quelli con la testa ma senza cuore,
quelli senza cuore e senza testa e quelli con il cuore e con la testa. Noi
siamo convinti di parlare a giudici che fanno parte di quest’ultima
categoria e testa e cuore significa coscienze e cuore di un giudice che ha
la forza di sconfessare i pm e di assolvere un imputato per cui è stata
chiesta la pena dell’ergastolo. Tutti i nostri testimoni sono sotto processo
per falsa testimonianza. Brandelli di verità che sono importanti per noi. Va
punita Sarah, e la prima idea che gli viene in mente per spiegare perché
Sabrina porta Sarah in garage (una delle versioni di accusa) è proprio
questa. Quale valore possono avere le sue dichiarazioni dopo tante versioni?
La ritrattazione della ritrattazione? Potremmo dire che una ritrattazione
annulla l’altra e si deve tornare alla confessione. Ma abbiamo ben altri
argomenti. Iniziamo a chiederci il valore della confessione. Come si può
definire prima di riscontri la sua confessione? Visto che ha fatto ritrovare
telefonino, corpo, chiavi. La confessione è comunque una prova che non esige
riscontri, come stabilisce la Cassazione. Non ha bisogno di riscontri
esterni. Ma quanti ergastoli sono stati dati con una semplice confessione.
Michele Misseri il 6 ottobre è ascoltato come persona informata sui fatti. I
pm a quel punto hanno già sospetti su Sabrina, l’hanno già ascoltata il 30 e
le hanno detto che sta dicendo delle falsità pazzesche. Questo è
l’atteggiamento dei pm come risulta dall’interrogatorio del 30 settembre. I
pm maturano l’idea che Sabrina sappia, che sia addirittura coinvolta
bell’omicidio, Ma quel 6 ottobre Misseri inizia a cadere in qualche
contraddizione, sugli orari, sulla raccolta dei fagiolini. E lo incitano a
dire la verità. E il pm inizia a insinuare l’idea che possa essere capitato
un incidente, una disgrazia. «Si liberi un po’, ci faccia capire». La
confessione spiazza i pm, bisogna nominare un difensore d’ufficio, ma la
pista Sabrina non viene eliminata. E i pm non hanno la capacità di eliminare
una pista a cui si erano affezionati. E iniziano gli interrogatori. Michele
prima coinvolge la figlia come spettatrice (papà cosa hai fatta) , poi c’è
la chiamata in correità e infine la chiamata in reità. Mi chiedo se non si
siano state tecniche persuasive che hanno vincolato la libera determinazione
di Michele Misseri, che non aveva la forza di resistere alle domande di un
pubblico inquisitore. E’ singolare, come i mutamenti di versione avvengono
quasi sempre dopo una sospensione di un interrogatorio e dopo una serie di
rassicurazioni e di inviti su Sabrina. «Questo per scagionare Sabrina,
Miché, stai tranquillo….». Anche Nicola Marseglia per Sabrina Misseri,
nonostante il suo smisurato rispetto per i magistrati tarantini afferma che
«Questo è un processo particolare, abbastanza atipico. E’ il processo di
Sabrina Misseri, a Sabrina Misseri. E’ stato così sin dal primo momento. Il
capitano Nicola Abbasciano, ex comandante del Nucleo investigativo dei
carabinieri, che fu posto al vertice delle indagini, l’aveva individuata fin
dal primo momento insieme a Ivano Russo – dice l’avvocato Nicola Marseglia –
Si coltiva questa ipotesi di lavoro dall’inizio. La confessione di Michele
Misseri – ha aggiunto Marseglia – ha spiazzato l’ufficio del pubblico
ministero e ha introdotto un elemento spurio di ipotesi di lavoro a cui non
aveva pensato nessuno. Da qui nasce l’equivoco nei confronti di Sabrina, che
subisce una serie di aggiustamenti nel corso delle indagini che non
conoscono alternative.»
Questo la dice tutta sul clima che si respira a Taranto e sulla conduzione
dei processi. A Taranto poi, c’è il paradosso dei rei confessi in libertà e
di chi, dichiarandosi innocente, senza cedimenti e da presunti innocenti
nelle more del processo, rimane per anni in carcere. A Taranto sono troppi
gli errori giudiziari ed i reo confessi che non sono creduti, in onore di
una tesi accusatoria frutto di un personale modo di pensare proprio di un
magistrato requirente, che non può pregiudicare anni d’indagine da lui
condotte, ed in virtù di un appiattimento a questa tesi dovuto ad un libero
convincimento di una persona normale, suo collega, che fa il magistrato
giudicante avendo vinto un concorso pubblico. Magistrati inseriti in un
ambiente dove si tifa per la colpevolezza di qualcuno sotto influenza
mediatica locale e nazionale. La stampa, anziché riportare i fatti e
concentrasi sul perché l’evento confessato sia avvenuto, si concentra a
minare la credibilità del confessore. E meno male che la confessione nel
codice di procedura penale è considerata una prova regina! Sembra, infatti,
che la percezione che i giurati hanno della sicurezza di un testimone, sia
responsabile per un 50% delle variazioni nel loro giudizio sulla credibilità
del testimone e che, in ogni caso, la maggior parte delle giurie crede che
la sicurezza e la precisione di un resoconto testimoniale siano tra loro
correlate positivamente, reputando più attendibile la testimonianza resa
dalle forze dell’ordine o di chi riferisce nel racconto molti dettagli
marginali, sopravvaluta il tempo impiegato per commettere un crimine e la
possibilità di riconoscere un volto a distanza di mesi. Detto questo e in
riferimento alle confessioni si richiama un altro caso. Il “killer delle
vecchiette”. Ma ormai il “killer delle vecchiette” è morto. E se dalla
stampa era venuto questo appellativo di killer qualche omicidio doveva pur
averlo commesso, sì, ma per i magistrati di Taranto era colpevole solo per
quell’unico delitto per il quale non erano stati capaci di accusare
qualcuno. E’ morto il 15 dicembre 2012 nel reparto di rianimazione
dell’ospedale di Padova il detenuto tunisino 49enne Ben Mohamed Ezzedine
Sebai, conosciuto come il ‘serial killer delle vecchiette’, trovato
impiccato il giorno prima nella sua cella del carcere di Padova. Il legale
di Sebai, l’avvocato veneziano Luciano Faraon, ha anche sollevato dubbi sul
fatto che il suo assistito si sia effettivamente suicidato. Secondo il
legale, dopo una recente sentenza della Cassazione che ha annullato con
rinvio una condanna per un omicidio commesso da Sebai a Lucera, il tunisino
era infatti nelle condizioni di ottenere la revisione dei suoi processi in
quanto non in grado di intendere e volere a causa di una lesione cerebrale
subita da piccolo. Aveva quindi, secondo il legale, molte speranze di potere
tornare a casa o in un centro adatto alla sua patologia. Condannato a cinque
ergastoli per altrettanti omicidi di donne, Ezzedine Sebai aveva confessato
di essere l’autore di 14 omicidi di anziane, avvenuti in Puglia tra il 1995
e il 1997. Altra vergogna, altro precedente. 15 aprile 2007. Carmela volava
via, dal settimo piano di un palazzo a Taranto, dopo aver subito violenze ed
abusi, ma soprattutto dopo essere stata tradita proprio da quelle
istituzioni a cui si era rivolta per denunciare e chiedere aiuto. «Una
ragazzina di 13 anni – scrive Alfonso, il padre di Carmela – che il 15
aprile del 2007 è deceduta volando via da un settimo piano della periferia
di Taranto, dopo aver subito violenze sessuali da un branco di viscidi
esseri», ma poi anche le incompetenze e la malafede di quelle Istituzioni
che sono state coinvolte con l’obiettivo di tutelarla», perché «invece di
rinchiudere i carnefici di mia figlia hanno pensato bene di rinchiudere lei
in un istituto (convincendoci con l’inganno) ed imbottendola di psicofarmaci
a nostra insaputa». Carmela aveva denunciato di essere stata violentata; e
nessuno, né polizia, né magistrati, né assistenti sociali le avevano creduto
o l’avevano presa sul serio. Ma le istituzioni avevano anche fatto di
peggio. Hanno considerato Carmela «soggetto disturbato con capacità
compromesse» e, quindi, poco credibile. Altro precedente. È il più clamoroso
errore giudiziario del dopoguerra. Ora il ministero dell’Economia ha deciso
di staccare l’assegno più alto mai dato a un innocente per risarcirlo: 4
milioni e 500mila euro. Circa nove miliardi di lire, a fronte di 15 anni, 2
mesi e 22 giorni trascorsi in carcere per un duplice omicidio mai commesso.
Il caso di Domenico Morrone, pescatore tarantino, si chiude qua: con una
transazione insolitamente veloce nei tempi e soft nei modi. Il ministero
dell’Economia ha capitolato quasi subito, riconoscendo il dramma spaventoso
vissuto dall’uomo che oggi può tentare di rifarsi una vita. Così, per il
tramite dell’avvocatura dello Stato, Morrone si è rapidamente accordato con
il ministero e la Corte d’Appello di Lecce ha registrato come un notaio il
«contratto». In pratica, Morrone prenderà 300mila euro per ogni anno di
carcere. E i soldi arriveranno subito: non si ripeteranno le esasperanti
manovre dilatorie già viste in situazioni analoghe, per esempio nelle
vertenza aperta da Daniele Barillà, rimasto in cella più di 7 anni come
trafficante di droga per uno sfortunato scambio di auto. Morrone fu
arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano
i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un
colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i
sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo
scagionavano furono anche loro condannate per falsa testimonianza. Così
funziona a Taranto. Vai contro la tesi accusatoria; tutti condannati per
falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del
massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare
la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci
anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le
sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono – racconta lui –
adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha
capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho
passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la
sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma alla fine Morrone fu
schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa,
fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua
colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei
pentiti. Altro precedente: non erano colpevoli, ora chiedono 12 mln di euro.
Giovanni Pedone, Massimiliano Caforio, Francesco Aiello e Cosimo Bello,
condannati per la cosiddetta «strage della barberia» di Taranto, sono
tornati in libertà dopo 7 anni di detenzione e vogliono un risarcimento.
Pedone, meccanico di 51 anni, da innocente ha trascorso quasi otto anni in
cella prima di intravedere bagliori di giustizia. Ma gli elementi che hanno
portato all’affermazione della sua innocenza e di altri tre imputati erano
già parzialmente emersi nel corso del processo madre. «E’ certo – ha detto
l’avvocato Petrone – che qualcuno sapeva di quanto avvenuto durante le
indagini». Ora per gli innocenti si apre un lungo iter processuale per
ottenere il risarcimento per ingiusta detenzione. Carlo Petrone è l’avvocato
di Dora Chiloiro nel processo sul delitto di Sarah Scazzi, accusata
anch’essa di falsa testimonianza.»
Come si è comportata la stampa e la televisione in questa vicenda che ha
colpito, sì, la famiglia Scazzi e Misseri, ma anche tutta la comunità
avetranese?
«Anche Hollywood fa la sua comparsa nel processo Scazzi. L’accurata arringa
dell’avv. Franco De Jaco affida al potere delle immagini di un film in
bianco e nero del 1957 il destino della sua assistita. La pellicola diretta
da Sidney Lumet, intitolato “Parola ai giurati” e magistralmente
interpretato da un superbo Henry Fonda, racconta l’accorata difesa di un
ragazzo di diciotto anni accusato di aver ucciso il padre che lo picchiava.
Nella pellicola, rivolgendosi ai giurati, riuniti in Camera di Consiglio,
spetta all’avvocato del giovane dimostrare che non ci può essere una
condanna quando sussista quel “ragionevole dubbio” di fronte al quale è
impossibile emettere un verdetto di colpevolezza. “Avetrana non è
Hollywood”. L’assedio di media e curiosi. «Non è Hollywood» c’è scritto su
un muretto di mattoni che si trova a poca distanza dall’abitazione della
famiglia Misseri, dove è stata uccisa, il 26 agosto 2010, Sarah Scazzi. Il
messaggio è indirizzato alle numerose troupes televisive e di ‘fly’ (furgoni
con le antenne paraboliche montate sul tetto) che presidiano da giorni
l’abitazione in cui vivono la mamma e la sorella di Sabrina Misseri. Proprio
davanti alla villetta di via Grazia Deledda vanno in onda, in diretta,
diversi collegamenti televisivi e si montano ogni giorno i servizi per i
telegiornali e gli speciali tv. Già Valentina Misseri aveva urlato in più
occasione contro i giornalisti. La sorella di Cosima, Emma,per sfuggire
all’assalto dei giornalisti ha colpito con uno schiaffo al volto un
operatore tv; contro gli altri ha urlato: «Andate via, che c’entriamo noi!».
E continuano anche i pellegrinaggi dei “turisti dell’orrore”: alcune
famiglie arrivate dal Foggiano per visitare i luoghi in cui ha vissuto, è
morta e ora riposa Sarah. Ma la storia si ripete. A Newtown come Avetrana.
Tutto il mondo dei media è paese. La città della strage in Usa è assalita da
orde di cronisti e camion tv. Almeno 27 morti, tra cui 20 bambini, tra i 5 e
i 10 anni, sono stati falciati il 14 dicembre 2012 da un giovane con
problemi mentali, Adam Lanza, poco più che ventenne. Dopo la sparatoria, non
c’è tempo per il dolore. La piccola città è letteralmente invasa dai media e
dai giornalisti. A denunciare tutto il racconto di un cronista della BBC,
Johnny Dymond. “E ‘insopportabile. Che cosa vogliono tutti? Sono quattro o
cinque famiglie che hanno perso i bambini ed è troppo per loro, con tutti i
media qui. Che cosa cerchi?” gli racconta nella hall dell’albergo dove
dorme, uno degli abitanti, infastidito dalla troppa attenzione. Il
villaggio della scuola di Sandy Hook, è cambiato. Tra camion, microfoni e
crocevia di persone, le stradine non sono più le stesse. E poi Casa Grillo
come ad Avetrana. Dal giorno della certificazione del successo del Movimento
5 Stelle alle politiche 2013 , una schiera di giornalisti e fotografi
stanzia di fronte alla casa di Beppe Grillo. Accampati in attesa, nella
speranza di una dichiarazione o di un’immagine dell’inafferrabile leader
mentre scorrono, nei tg, le immagini del cancello che si apre e da cui esce,
quando va bene, un’auto. Un modus operandi, un modo di fare giornalismo e di
raccontare le cose che ricorda da molto vicino le più recenti pagine di
cronaca del nostro Paese, con i cronisti accampati di fronte alla casa
dell’assassino o della vittima di turno. E un modello che, quando Beppe
Grillo non è in casa, come in occasione della trasferta romana per
l’incontro e la catechizzazione dei neo eletti, si ripete puntuale fuori
dall’hotel dove il leader grillino è atteso. Un corto circuito informativo
in cui i fotografi vengono fotografati, in cui i leader non dichiarano e i
giornalisti non comprendono che la loro attesa a microfono spianato della
dichiarazione sarà vana. E così il modello applicato è e rimane quello
classico: il modello ‘Avetrana’, un modello inadeguato che genera persino
dei paradossi. E’ il caso dei fotografi fotografati, i fotografi cioè che,
appostati per catturare le immagini del primo conclave grillino, si sono
ritrovati ad essere i soggetti degli scatti divertiti dei neoeletti che con
i loro cellulari immortalavano il loro primo momento di notorietà. Come è
diversa Brembate di Sopra. Il sindaco di Brembate Sopra, Diego Locatelli,
dopo la richiesta di silenzio stampa avanzata dalla famiglia Gambirasio
sulla scomparsa di Yara, è intervenuto sulla vicenda e attraverso un
comunicato ha invitato “gli organi di informazione ad abbandonare il suolo
pubblico occupato e la cessazione delle attività finora svolte sul
territorio di Brembate di Sopra”».
Dal punto di vista sociologico cosa ha dedotto dal comportamento dei media e
dell’influenza che questi hanno sulla gente che li segue?
«Il delitto di Sarah Scazzi ha dato vita ad un fenomeno inspiegabile e mai
avvenuto prima. La gente a casa partecipa ad un reality show e con il
telecomando della tv decide chi è il colpevole. Quanto più le trasmissioni
tv che si interessano al caso alzano il loro share adottando la linea
giustizialista, tanto più quella trasmissione viene seguita dai
telespettatori e tanto più si guadagna in pubblicità. Di conseguenza la
trasmissione rincara la dose, concentrandosi sugli elementi, veri o
artefatti, adducenti la colpevolezza del tapino di turno. Essere garantista
in tv non paga e i giornali si adeguano. Lo hanno capito bene i magistrati
aprendo un processo ed adottando le tesi accusatorie che più aggradano il
pubblico.»
Da esperto giuridico: a punta di Diritto cosa ha da contestare?
«Il processo per il delitto di Sarah Scazzi è un processo con prove certe?
No! E’ un processo con indizi precisi, gravi e concordanti, tali da formare
una prova? No! E’ solo un processo alle intenzioni. Il processo per il
delitto di Sarah Scazzi è un esempio. Questo è un PROCESSO INDIZIARIO. Ossia
è un processo senza prove ma solo indizi, contrastanti e contestabili. Senza
prove, nonostante vi siano innumerevoli intercettazioni ambientali, anche in
carcere. Nulla traspare la prova regina. Mai vi sono state confessioni
carpite, ma solo le confessioni genuine di Michele Misseri: la prima e
l’ultima. Da parte della magistratura tarantina vi è solo l’esigenza di
accontentare la bolgia popolina che chiede il sangue degli imputati e la
dimostrazione che Avetrana è omertosa e collusa. Indotti a ciò da un
giornalismo approssimativo ed ignorante, oltre che pregno di pregiudizi e
luoghi comuni. A ben guardare con gli occhi imparziali la ricostruzione del
delitto pare che sia più frutto di illazioni, supposizioni e congetture
della Pubblica accusa, mal sostenute da prove oggettive. Tale ricostruzione
è facilmente attaccabile dalla difesa degli imputati. Difesa composta da
vecchi ed agguerriti volponi. Da quanto desunto e dalla mancanza della
pistola fumante (prova certa) appare che le imputate (Cosima e Sabrina): o
sono innocenti, o siano talmente brave, le imputate, da non lasciar alcuna
traccia del loro delitto. Nessuna prova; nessuna confessione. D’altro canto
colui che si professa colpevole, inascoltato, lui sì, avendo fatto trovare
prima il cadavere e poi il cellulare, è solidamente riconducibile al delitto
ed alla soppressione del cadavere. E non si pensi che Michele sia uno
sprovveduto. Le sue comparsate in tv e le lettere e quant’altro fatto senza
la presenza dei parenti induce a pensare che “Zio Michele” sa il fatto suo.
Ogni sua azione non può essere frutto di induzione ed istigazione di moglie
e figlia tenuto conto che esse marciscono in galera da anni e quindi nessuna
possibilità di regia. Ossequiosi e servili, poi, sono state le parti
civili. E non sono mancate i riporti ai luoghi comuni ed ai pregiudizi
diffamatori alla comunità: “Delitto di mafia” ha sentenziato la difesa di
Concetta Serrano; “Avetrana è una città di gente che lavora e vi preannunzio
per andare sempre più in fretta LA GENTE DI AVETRANA E’ COME MICHELE
MISSERI. Se ad Avetrana non ci fosse stata gente sana, non avremmo potuto
parlare della contestazione d’accusa di sequestro di persona”. Così si è
espresso con la sua arringa l’avvocato Pasquale Corleto il quale, in
rappresentanza del Comune di Avetrana, ha fatto un’esposizione giuridica che
ha ricalcato, potenziandola, la tesi dei pubblici ministeri. E MENO MALE CHE
DIFENDE L’ONORE DI AVETRANA, perchè gli avetranesi non gettano i bambini nei
pozzi!!!! Pasquale Corleto del Foro di Lecce che in riferimento all’esame di
avvocato ebbe a dire: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la
fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono
accessibili”. Amara verità per chi come lui denuncia, sì, ma non fa niente
per cambiare le cose e per chi come me, invece, porta avanti una battaglia
ventennale che riguarda l’esame truccato dei concorsi pubblici ed in
specialmodo quello di abilitazione forense, che poi è uguale a quello del
notariato e della magistratura. Ho anche cercato di denunciare l’evasione
fiscale e contributiva degli studi legali presso i quali i praticanti
avvocato sono obbligati a fare pratica. I “Dominus” non pagano o pagano poco
e male ed in nero i praticanti avvocati e per coloro che non hanno partita
iva non gli versano i contributi previdenziali presso la gestione separata
INPS. Agli inizi, facendo notare tale anomalia al Consiglio dell’Ordine
degli Avvocati di Taranto, mi si disse: “fatti i cazzi tuoi anche perché
vedremo se diventi avvocato”. Appunto. Da anni mi impediscono di diventarlo,
dandomi dei voti sempre uguali ai miei elaborati all’esame forense.
Elaborati mai corretti. Non solo, pur avendo già segnalato ai precedenti
Parlamenti, è impossibile in Italia svolgere l’attività di assistenza e
consulenza antimafia se non si è di sinistra e se non si santificano i
magistrati. In Italia vi è l’assoluto monopolio dell’antimafia in mano a
“Libera” di Don Ciotti e di fatto in mano alla CGIL, presso cui molte sedi
di “Libera” sono ospitate. “Libera”, con le sue associate locali, è
l’esclusiva destinataria degli ingenti finanziamenti pubblici e spesso
assegnataria dei beni confiscati. Di fatto le associazioni non allineate e
schierate (e sono tante) hanno difficoltà oltre che finanziaria, anche
mediatica e, cosa peggiore, di rapporti istituzionali. Si pensi che la
Prefettura di Taranto e la Regione Puglia di Vendola a “Libera” hanno
concesso il finanziamento di progetti e l’assegnazione dei beni confiscati a
Manduria. A “Libera” e non alla “Associazione Contro Tutte le Mafie”, con
sede legale a 10 km. A “Libera” che non può essere iscritta presso la
Prefettura di Taranto, perchè ha sede legale a Roma, e non dovrebbe essere
iscritta a Bari, perché a me, come presidente di una associazione antimafia,
è stata impedita l’iscrizione del sodalizio per mancata costituzione
dell’albo. Tornando al processo sono di tutt’altro tenore le difese degli
imputati: “In questo processo chiunque ha detto cose in contrasto con la
tesi accusatoria è stato tacciato di falso, mentre ben altri testi non hanno
detto la verità e sono passati per super testimoni» ha detto Franco De Jaco
difensore di Cosima Serrano. E’ così è stato, perché sotto processo non c’è
solo Sabrina Misseri, Michele Misseri, Cosima Serrano Misseri, Carmine
Misseri, Cosimo Cosma, Giuseppe Nigro, Cosima Prudenzano Antonio Colazzo,
Vito Junior Russo, ma c’è tutta Avetrana e tutti coloro che non si
conformano alla verità mediatica-giudiziaria. Tant’è che i pubblici
ministeri hanno chiesto alla Corte d’Assise la trasmissione degli atti
riguardanti le deposizioni fatte durante il processo da Ivano Russo, il
ragazzo conteso tra Sabrina e Sarah, Alessio Pisello, componente della
comitiva delle due cugine, Anna Scredo, moglie di Antonio Colazzo, Giuseppe
Olivieri, imprenditore di Avetrana datore di lavoro della moglie del
testimone Antonio Petarra che vide il giorno del delitto Sarah Scazzi mentre
si recava verso l’abitazione dei Misseri, Anna Lucia Pichierri, moglie di
Carmine Misseri, e infine Giuseppe, Dora e Emma Serrano, fratelli e sorelle
con Cosima e Concetta, schierate nelle loro testimonianza a favore della
prima. Atti che arriveranno allo stesso ufficio della Procura che ne ha
chiesto la trasmissione. Poi ci sono anche altri 3 avvocati, oltre a Vito
Junior Russo, che, d’altronde, il 21 novembre 2011 sono stati assolti da
Pompeo Carriere: Gianluca Mongelli accusato di tentato favoreggiamento
personale insieme a Vito Russo. Per Emilia Velletri, ex difensore di Sabrina
con il marito Vito Russo, le accuse di intralcio alla giustizia e di
soppressione di atti veri. All’avv. Francesco De Cristofaro, del foro di
Roma, ex legale di fiducia di Michele Misseri, la Procura contesta invece il
reato di infedele patrocinio. Velletri, Mongelli e De Cristofaro sono stati
giudicati e assolti con il rito abbreviato. La Procura ha chiesto un anno di
reclusione per Emilia Velletri e Francesco De Cristofaro e sei mesi per
Gianluca Mongelli. Non ci dimentichiamo poi che il processo ha altri
tentacoli. Tra questi c’é quello che coinvolge Giovanni Buccolieri, il
fioraio di Avetrana che raccontò di aver visto, il 26 agosto 2010, Cosima
intimare in strada a Sarah di salire in auto (dove c’era presumibilmente,
per l’accusa, anche Sabrina), salvo poi riferire due giorni dopo che si era
trattato di un sogno. C’è sua cognata Anna Scredo, moglie dell’imputato
Antonio Colazzo, poi prosciolta dal Gup, c’è il suo amico Michele Galasso,
c’è il funzionario di banca Angelo Milizia. E che dire della ex psicologa
del carcere di Taranto Dora Chiloiro, citata come teste dalla difesa di
Sabrina Misseri. La stessa, all’udienza del 10 dicembre 2012, ha dichiarato
di essere stata “imprecisa” nell’ udienza preliminare del 7 novembre 2011,
quando riferì di aver avuto numerosi colloqui in carcere con Michele
Misseri, di averlo sentito in carcere anche dopo l’incidente probatorio del
19 novembre e che Michele Misseri aveva detto di essere stato lui ad
uccidere Sarah. Per questi motivi Chiloiro è stata già rinviata a giudizio
per falsa testimonianza, avendo confermato le dichiarazioni dell’udienza
preliminare anche nel processo dinanzi alla Corte di assise.»
Da esperto dell’informazione cosa ha da contestare?
«E la stampa cosa fa? E’ sadica e cinica. Da bollino rosso sono tg e
approfondimenti giornalistici: il Comitato Media e Minori e L’Agcom hanno
«bocciato» soprattutto servizi e dibattiti sui delitti con vittime
minorenni: preoccupante lo stile usato nel trattare i casi di Sarah Scazzi,
Yara Gambirasio ed Elisa Claps da Tg1 e Studio Aperto (sanzionati più
volte); da censurare anche l’approccio di Chi l’ha visto? (Rai3)
sull’omicidio Claps per le «immagini particolarmente impressionanti» o di
Quarto grado (Rete4) per la «dettagliata galleria di casi criminosi». Il
Comitato biasima la scelta di trattare crimini nella fascia protetta
«spettacolarizzando la notizia» e «soffermandosi sugli aspetti più morbosi»,
come è accaduto nei contenitori pomeridiani delle principali reti.
Violazioni sono state compiute da Pomeriggio Cinque e Domenica Cinque su
Canale 5, e La vita in diretta (Rai1) dove si è giocato sull’«invasività e
la ricerca di espressioni e filmati forti capaci di attirare l’attenzione
dei telespettatori». Come volevasi dimostrare dopo la scorpacciata di
immagini, interviste, servizi tv a favore della requisitoria dell’accusa e
delle arringhe delle parti civili, farcite anche di gratuite ed impunite
calunnie e diffamazioni o, come ha riferito Franco Coppi «Sono state dette
troppe cose e non abbiamo apprezzato alcune battute poco eleganti.» Bene si
diceva che dopo l’abbuffata di poco corrette prese di posizioni della
stampa, a dare voce alla difesa non c’è nessuno. Eppure c’è stato il
coinvolgimento di Ilaria Cavo, giornalista di Mediaset, l’unica insieme a
Maria Corbi de “La Stampa”, a raccontare in modo corretto ed imparziale la
cronaca di un processo emblematico. Ilaria Cavo, brava giornalista di
Mediaset che per conto del programma Matrix si è occupata di celebri casi di
cronaca nera. Decine di simili situazioni, nel suo libro “Il cortocircuito.
Storie di ordinaria ingiustizia”. Le vicende contenute nel volume riguardano
per lo più casi che non hanno attirato su di sé l’attenzione dei media. Sono
passati abbastanza in sordina. E forse per questo sono ancora più
sconcertanti. Il procuratore aggiunto Pietro Argentino ha fatto notificare
l’avviso di chiusura delle indagini preliminari al 34enne di Ginosa Raffaele
Calabrese, ingegnere, consulente della difesa di Sabrina Misseri, e alla
giornalista di Matrix Ilaria Cavo. L’episodio in questione è quello avvenuto
il 26 ottobre 2010, quando Calabrese avrebbe offerto ad alcuni giornalisti
televisivi che stazionavano dinanzi al tribunale, alcune foto scattate nel
garage della famiglia Misseri, quello che viene indicato negli atti
ufficiali come il luogo del delitto di Sarah. Il giornalista del Tg2 Valerio
Cataldi riuscì a registrare il colloquio con il consulente della difesa di
Sabrina, rifiutando ovviamente ogni forma di trattativa economica. La stessa
sera, quelle foto poi furono mandate in onda da Matrix. A Raffaele Calabrese
il procuratore aggiunto Pietro Argentino contesta l’interferenza illecita
nella vita privata dei Misseri perché «mediante l’uso di una macchina
digitale, si procurava indebitamente immagini relative all’interno del
«garage» dell’abitazione di Cosima Serrano e Michele Misseri, scattando
almeno 16 foto delle quali tre le cedeva a Ilaria Cavo. Con l’aggravante di
aver commesso il fatto con abuso di prestazione d’opera». La giornalista
Ilario Cavo è indagata invece per ricettazione in quanto «a scopo di
profitto acquistava e, comunque, riceveva da Raffaele Calabrese le foto del
garage di sicura provenienza delittuosa». E sul fronte dell’informazione, va
segnalato che la Procura ha avviato accertamenti anche sull’intervista a
Michele Misseri fatta in carcere il 13 febbraio 2011 dalla giornalista di
Libero Cristiana Lodi che entrò nella casa circondariale come collaboratrice
di un parlamentare del Pdl, la deputata del Pdl Melania Rizzoli De Nichilo.
Per Ilaria Cavo e Raffaele Calabrese il giudice monocratico Ciro Fiore il 22
maggio 2012 ha dichiarato l’assoluzione. Calabrese ha chiesto il processo
con rito abbreviato, la Cavo rito abbreviato condizionato all’audizione di
un altro giornalista. E poi ancora c’è il caso di Fabrizio Corona,
condannato a cinque anni di detenzione per estorsione ai danni del
calciatore David Trezeguet. Il 2 luglio 2013 da detenuto dovrà presentarsi
al Tribunale di Manduria con l’accusa di violazione di domicilio. La
denuncia è stata sporta da Concetta Serrano, mamma di Sarah Scazzi. La
vicenda risale al 26 febbraio 2011, quando l’ex re dei paparazzi era entrato
in casa della famiglia Scazzi passando da una finestra e spaventando la
madre della ragazza. Nonostante le scuse alla donna, in televisione Corona
ha raccontato un’altra versione dei fatti: disse di essere rimasto
nell’abitazione di Concetta a chiacchierare per una mezz’oretta, e che
Concetta gli aveva perfino offerto il caffè. Lo scopo del fotografo era
quello di realizzare delle interviste in esclusiva ai protagonisti della
tragica vicenda. Concetta Serrano non ha ritirato la denuncia e, come
disposto dal pm Maurizio Carbone, il paparazzo dovrà presentarsi
quest’estate al Tribunale di Manduria. Per l’accusa di violazione di
domicilio, Fabrizio Corona rischia altri 3 anni di carcere. A proposito di
interviste non autorizzate. Concetta Serrano, la mamma della 15enne Sarah
Scazzi uccisa lo scorso 26 agosto 2010, il 9 aprile 2011 ha presentato una
denuncia-querela contro il giornalista Mediaset Marcello Vinonuovo per la
trasmissione di un’intervista non autorizzata andata in onda venerdì 8.
L’episodio, sul quale non si sono appresi particolari, è stato denunciato ai
carabinieri della Stazione di Avetrana. E’ andata in onda una nuova puntata
di Studio Aperto Live, lo spazio di approfondimento di Studio Aperto che su
Italia 1 si occupa delle vicende di cronaca più attuali. Quindi alla luce
delle nuove notizie legate alla richiesta del Dna per quattro persone
implicate nel caso con diversi ruoli si è deciso di tornare ad Avetrana per
parlare con Concetta Serrano ed è stata mandata in onda un’intervista alla
madre di Sarah che però non era stata autorizzata dalla donna. L’argomento
dell’ultima puntata era ancora il caso dell’omicidio di Sarah Scazzi: tracce
di Dna riaprono le indagini. E proprio questo particolare ha spinto Concetta
Serrano, madre di Sarah Scazzi, a presentare una querela contro il
giornalista di Mediaset Marcello Vinonuovo presso i carabinieri della
Stazione di Avetrana. Subito sono arrivate le repliche di Giovanni Toti,
direttore di Studio Aperto, e Mario Giordano, direttore di News Mediaset: i
due hanno subito detto che quella realizzata da Vinonuovo non è
un’intervista rubata, Toti dice: “Il cronista si è qualificato come tale,
aveva il microfono in mano e accanto l’operatore con la telecamera in
spalla. Le domande erano assolutamente rispettose: non c’era nulla che
potesse ledere la dignità della madre di una vittima, anzi la signora
Concetta ha avuto la possibilità di esprimere il suo punto di vista. La
conversazione si è svolta senza alcuna tensione nè fraintendimento, nè sui
contenuti nè sul ruolo di entrambi. Non vedo perchè non avremmo dovuto
mandarla in onda”. Anche Giordano interviene sulla vicenda dicendo:
“L’intervista è stata realizzata in luogo pubblico, da un giornalista che si
è dichiarato tale, con il microfono ben in vista come dimostrano le
immagini. La signora Concetta ha espresso ragionamenti sensati e
condivisibili rispetto a un tema di interesse pubblico. Una persona può
legittimamente non rispondere, ma se risponde e c’è interesse pubblico a
quello che dice, non vedo perchè non lo si debba trasmettere”. Non turba a
nessuno il fatto di sapere che Concetta Serrano, pur quasi ogni giorno sulla
cronaca con la sua famiglia, rilasci interviste a iosa e, nonostante tutti i
media siano con lei e artatamente contro sua sorella Cosima Serrano e sua
nipote Sabrina Misseri, pretende di autorizzare o meno le interviste scomode
e di denunciare Marcello Vinonuovo di Italia 1, forse perché collega di
Ilaria Cavo. Ilaria Cavo è con Maria Corbi l’unica ad aver dato notizie con
un minimo di imparzialità. Ad Avetrana non c’è modo di palesare la verità
nonostante la multa per 400 programmi tv che si sono occupati in maniera
morbosa del caso di Avetrana. L’Agcom ha voluto porre un freno a questa
continua ricerca di fare ascolti in televisione sfruttando il dolore delle
persone ed ha comunicato all’Ordine dei giornalisti l’intenzione di multare
400 trasmissioni che si sono occupate del caso Scazzi violando le norme. Ma
secondo il presidente dell’Ordine, Enzo Iacopino i giornalisti sono stati
trattati come burattini da burattinai: “Seminavano tutto e tutto noi
giornalisti mandavamo in onda o pubblicavamo sui giornali”.»
A questo punto cosa vorrebbe che si sapesse?
«Ora basta!!! Bisogna far conoscere la verità. La verità storica alternativa
a quella mediatico-giudiziaria. Il processo per l’omicidio di Sarah Scazzi
non è contro i Misseri, ma contro Avetrana, anzi, contro il Sud Italia.
Gelosia e Reputazione sono i traballanti moventi inquadrati da stampa e
magistratura. La magistratura sin da subito è stata incapace di sbrogliare
la matassa fino a quando la soluzione gli è stata offerta sul piatto
d’argento proprio da Michele Misseri. Ed ancora si continua ad insinuare che
Avetrana non ha collaborato. Ipotesi fomentate da giornalisti ignoranti e
prezzolati da padroni senza scrupoli e dal finanziamento pubblico.
Pennivendoli che alimentano stereotipi datati. Nel contesto territoriale
(per loro omertoso e retrogrado) non emerge più il cafone con coppola e con
lupara che per gelosia spara a destra ed a manca. Oggi ci rapportiamo con
l’evoluzione del pregiudizio: donne baffute in nero nascoste da gonne lunghe
e fazzoletto in testa che con il sangue lavano l’onta del tradimento e della
maldicenza. Poco si parla dell’Avetrana tecnologica con i suoi giovani a
navigare sul web ed a rapportarsi sui social network ed a passare il tempo
libero fino a notte inoltrata nei Pub all’inglese maniere. No! Bisogna far
immaginare Avetrana con i carretti trainati dai muli o meglio dagli asini di
Martina Franca. Quante volte si è sentito nei salotti trash della tv
italiana da improvvisati commentatori: “…non siamo a Milano o a Roma, siamo
lì. Qui si parla di Avetrana, un piccolo paese del sud. Lì..un paese
così…dove tutti si conoscono, dove tutti stanno a sparlare…un paese del
profondo mezzogiorno. Mi sa tanto che quando si parla dei cervelli in fuga
non ci si riferisce alle nostre eccellenze che sono costrette ad emigrare,
ma ci si riferisca agli encefali fuggiti dai crani dei giornalisti che sono
stati ospitati ad Avetrana, anziché cacciati così come hanno fatto a
Brembate di Sopra. Giornalai, e non giornalisti, che per dare la loro verità
sono stati pronti ad intervistare nullafacenti ed ubriaconi nei bar del
paese. Nel film “Benvenuti al Sud” la frase ricorrente è che chi viene al
sud piange due volte: nel venire e nell’andar via. Bisogna dire che, invece,
è proprio certa stampa che fa venir da piangere, ma per la loro condizione
professionale. Mi sa che fa bene Beppe Grillo a non voler rapportarsi con
tutti loro, così come aveva ragione Malcom X. Disse Malcolm X, «Se non state
attenti, e dico questo perché ho visto qualcuno di voi cascare nella
trappola, se non state attenti finirete con l’odiare voi stessi e con
l’amare il bianco che vi procura tanti guai. Se gli consentite di
persuadervi, vi spingerà a credere che non è giusto usar violenza contro di
lui quando lui la usa contro di voi. Se non state attenti i media vi faranno
amare gli oppressori e odiare quelli che vengono oppressi. La stampa è
capace di farvi amare gli assassini ed odiare le vittime». Giorgio Bocca
(notoriamente antimeridionale) su “L’Espresso” se la prende anche con i
giornalisti locali: «Ne esce male anche l’informazione, Avetrana è un
villaggio del profondo Sud nella campagna di Taranto, i primi ad accorrere
sono i corrispondenti locali che mandano fiumi di parole confuse, di
rivelazioni contraddittorie che si aggiungono alla difficoltà di trovare una
minima ragione nella caotica e irragionevole vicenda.» Avetrana, invece, ha
capito da subito che le luci della ribalta volevano un paese maledetto,
omertoso. «Ma quale omertà, qui è il contrario, nessuno si fa i fatti suoi»
dicono ora che il virtuale è più forte della realtà. Adesso che i programmi
televisivi si sono inseguiti in una corvée instancabile e ormai quasi
mancano le comparse, a Sabrina tocca apparire a reti unificate: piange a
Matrix e nello stesso tempo è a Porta a porta con la riedizione di un suo
intervento a La vita in diretta. La prima a capire che solo la tv poteva
salvarla è stata la madre di Sarah, Concetta. Da subito ha intuito che
spalancando la porta ai media avrebbe conosciuto la sorte di sua figlia. E
così è stato. Sospira il procuratore capo di Taranto Francesco Sebastio:
«Ditemi un momento nel quale non era in televisione a dirci come condurre le
indagini, come dovevamo fare… Non si poteva neppure dire all’assassino:
aspetta a confessare che finisca la trasmissione. Ne sarebbe iniziata
un’altra». E per 42 giorni, come nota un investigatore, «lei davanti alle
telecamere si è fatta sempre trovare pronta e in ordine». Senza un filo di
ricrescita, notano i maligni, «i capelli rossi, come se ogni giorno si
rifacesse l’henné». Una famiglia diabolica, i Misseri, decimata dalle accuse
ed Avetrana, bollata come omertosa, bugiarda, depistante. Questo il ritratto
che il pm del caso Sarah Scazzi ha tracciato in quattro giorni di
requisitoria chiedendo l’ergastolo per Sabrina Misseri e Cosima Serrano,
madre e figlia, zia e cugina della vittima accusate di concorso in omicidio
e sequestro di persona. Non solo. I pubblici ministeri hanno chiesto alla
Corte d’Assise la trasmissione degli atti riguardanti le deposizioni fatte
durante il processo da Ivano Russo, il ragazzo conteso tra Sabrina e Sarah,
Alessio Pisello, componente della comitiva delle due cugine, Anna Scredo,
moglie di Antonio Colazzo, Giuseppe Olivieri, imprenditore di Avetrana
datore di lavoro della moglie del testimone Antonio Petarra che vide il
giorno del delitto Sarah Scazzi mentre si recava verso l’abitazione dei
Misseri, Anna Lucia Pichierri, moglie di Carmine Misseri, e infine Giuseppe,
Dora e Emma Serrano, fratelli e sorelle con Cosima e Concetta, schierate
nelle loro testimonianza a favore della prima. Ivano Russo in collegamento
da Avetrana con “La Vita In Diretta” con Marco Liorni si è lamentato del
fatto che lui ha rischiato di essere arrestato perché sospettato del delitto
o comunque di essere reticente o falso, oggi verrebbe indagato, pur
inquadrate le responsabilità del delitto, per essere stato reticente e
falso. Il movente per i Pubblici Ministeri di Taranto? «La possibile
rivelazione dei rapporti intimi con Ivano (amico delle due cugine) che
avrebbe potuto compromettere l’immagine della famiglia Misseri in un piccolo
centro provinciale come Avetrana». Come se la gente del piccolo centro come
Avetrana non ha null’altro da fare che stare dietro alle vicende sessuali di
una ragazza che non conosce e che non interessa conoscere tenuto conto di
tutti i problemi che attanagliano i cittadini italiani. Naturalmente qui si
parla di magistrati che, dai dati pubblici rilevabili da siti istituzionali,
risultano essere anche loro del posto che degradano. Si parla di BUCCOLIERO
dott. Mariano Evangelista Nato a Sava il 7.4.1965 e di Argentino dott.
Pietro di Torricella. Ma contro i pregiudizi non ci sono limiti. Da ultimo e
non sarà l’ultima volta, un sedicente giornalista, tal Paolo Ojetti, il 7
marzo 2013 in riferimento al
delitto di Sarah Scazzi ha scritto su “Il Fatto Quotidiano”: «Quello che
alla fine lascia pensosi è il “contesto”, una alchimia di arcaico e
ipermoderno, di barbarie da profondo sud e di spregiudicato uso dei media da
parte di assassini e di comprimari…E il movente? Messaggini erotici da
tenere segreti. Ricatti sessuali adolescenziali. Difesa della purezza
familiare, valore dalla cintola in giù che giustifica tuttora violenza,
stupro, incesto, femminicidio. Può anche darsi che la cronaca nera punti
solo all’Auditel. Ma, almeno in questo caso, è stato uno schiaffo benefico
che riporta con i piedi sulla terra di un paese arretrato». In riferimento
al gruppo di Sarah Scazzi il sedicente giornale “padano” di Taranto,
“Taranto Sera”, scrive «Un gruppo in cui non si sarebbe disdegnata qualche
pratica parecchio ‘spinta’, inconfessabile, a maggior ragione in un contesto
come quello di un piccolo paese del profondo Mezzogiorno, quale Avetrana.»
Altra sedicente giornalista, tal Annalisa Latartara, non nuova ad exploit
del genere (si pensi viene dalla nordica Taranto), lo stesso giorno e sempre
a proposito ha scritto su “Il Corriere del Giorno” di Taranto: «Ma l’opera
di depistaggio della famiglia Misseri è stata agevolata dall’omertà di chi
ha visto e non ha raccontato nulla, né di sua spontanea iniziativa, né
dinanzi agli investigatori. Di chi chiamato a deporre in aula non ha detto
tutto quello che sapeva.» Ed ancora altro sedicente giornalista, tal
Pasquale Amoruso e sempre a riguardo su “Il Quotidiano Italiano” (padano
anch’esso) di Bari ha scritto: «L’omertà è il vero strumento di contrasto
alla Giustizia nel caso Scazzi. L’omertà di Giovanni Buccolieri, il fioraio
di Avetrana che dichiarò di aver visto zia e cugina costringere Sara in
lacrime salire in macchina, salvo poi ritrattare la sua versione, dicendo di
non aver visto effettivamente la scena, ma piuttosto, di averla sognata, e
l’omertà di tre suoi parenti, indagati per favoreggiamento personale e
intralcio alla Giustizia. L’omertà dei nove testimoni le cui dichiarazioni
contrastano con le prove in mano agli inquirenti e l’omertà di chi, pur
sapendo come stanno le cose, perché qualcuno c’è, non parla per preservare,
non so cosa sia peggio, un assassino o una rispettabilità ormai perduta.
Insomma, quante persone occorrono per uccidere una ragazzina? Tutte quelle
che non parlano.» Ed ancora. «Sullo sfondo di queste tesi difensive, però,
il ficcante lavoro della procura che abbiamo visto nelle udienze passate ha
scandagliato con accuratezza la grande mole di indizi, intercettazioni,
testimonianze e confidenze, entrando anche e soprattutto, non
dimentichiamolo questo, nell’humus sociale, culturale e familiare nel quale
si è realizzato il terribile omicidio.» Dice a mo di lacchè dei magistrati
Walter Baldacconi, direttore del TG di Studio 100 tv, emittente “Padana” con
sede a Taranto, criticando le tesi difensive di Nicola Marseglia e le prese
di posizione di Franco Coppi in merito al fuori onda che hanno dato l’imput
all’astensione dal processo Scazzi della Trunfio e della Misserini.»
Va bene, ma gli amministratori locali e con essi l’opposizione consiliare
cosa hanno fatto?
«Nonostante lo smacco giudiziario e l’offesa mediatica a tutta la
popolazione avetranese il sindaco della ridente località, Mario De Marco,
del Popolo delle Libertà, e la sua giunta cosa fanno? Anziché prendersela
con chi ci sputtana, le loro ire si rivolgono alle parti più deboli, forse
responsabili di delitti che, però, niente hanno a che fare con le
insinuazioni o le vere e proprie accuse di omertà ed arretratezza sociale e
culturale della comunità. «Avetrana – si legge nell’atto di parte civile –
si è guadagnata la triste fama di cittadina quasi omertosa, simbolo di un
profondo sud, vittima ancora oggi di troppi luoghi comuni. Sono note le
spedizioni dei cosiddetti turisti dell’orrore – continua l’avvocato Corleto
– che si sono avventurati nei luoghi simbolo della vicenda: le vie in cui si
trovano le abitazioni della famiglia di Sarah e della famiglia Misseri, lo
stesso cimitero che ospita la tomba di Sarah, nonché il pozzo di campagna
nel quale è stato rinvenuto il cadavere della ragazzina sono stati meta di
veri e propri pellegrinaggi. In questa dolorosa vicenda ci sono due vittime.
La prima è certamente Sarah, l’altra è la città di Avetrana». «Gli
Avetranesi hanno nel cuore Sarah e sono offesi dal comportamento della
famiglia Misseri. Perché a prescindere dalle singole responsabilità che
saranno accertate nel dibattimento, sono stati loro a innescare la morbosa
attenzione dei media su questo caso e la conseguente ripercussione negativa
per l’immagine della nostra comunità», rincara la dose il vicesindaco
Alessandro Scarciglia. «In tutta questa situazione la popolazione di
Avetrana è rimasta letteralmente disorientata, privata della propria
serenità, impossibilitata ad osservare il dovuto silenzio e rispetto nei
confronti della giovane vittima, nonché violentata in ogni aspetto della
quotidianità, oltre che letteralmente assediata dai mezzi di informazione».
Una «sete di giustizia», continua il documento della costituzione di parte
civile, per «un’offesa enorme, una ferita profonda che merita di essere
valutata e adeguatamente riparata in sede giudiziaria». Per gli
amministratori che si dichiarano parte offesa, quindi, «il nome di Avetrana
è ormai tristemente associato al crimine del quale sono chiamati a
rispondere gli imputati» che dovrebbero così, se condannati, rifondere la
somma «che sarà poi quantificata – ha spiegato il penalista Corleto – in un
secondo tempo e in sede civilistica». Lo stesso avvocato che dovrebbe
difendere la reputazione di Avetrana afferma inopinatamente «Avetrana è una
città di gente che lavora e vi preannunzio per andare sempre più in fretta
LA GENTE DI AVETRANA E’ COME MICHELE MISSERI. Se ad Avetrana non ci fosse
stata gente sana, non avremmo potuto parlare della contestazione d’accusa di
sequestro di persona». E MENO MALE CHE DIFENDE L’ONORE DI AVETRANA, perchè
gli Avetranesi non gettano i bambini nei pozzi!!!! L’avvocato Pasquale
Corleto il quale, in rappresentanza del Comune di Avetrana, ha fatto
un’esposizione giuridica che ha ricalcato, potenziandola, la tesi dei
pubblici ministeri. Difendendo a suo parere subito la «parte sana» della
comunità avetranese (e meno male se fosse stato il contrario?), per il cui
danno all’immagine ha chiesto 300 mila euro di risarcimento danni, il
penalista leccese ha esordito dicendo che «la popolazione di Avetrana non è
omertosa, è fatta di persone buone», fatta eccezione, ha aggiunto diffamando
gratuitamente, prima con un’intervista a Blustar TV e poi in aula, coloro
che in giudizio non sono. «Il collegio dei Falsi, cioè Valentina (Misseri) e
compagni, che buttando a mare tutti gli avvocati precedenti, hanno imposto
questa linea della banda del falso che come Ivano Russo sono i giganti del
turpiloquio e del depistaggio: una serpe. E’ il soggetto più turpe, più
viscido. La serpe che entra nel processo. Che parla fuori, dentro le aule,
le interviste, alle telecamere e tutto ciò che sapete, quando deve dire
qualcosa di concreto, è questo il vangelo dettato dalla regia. Quando si
sono visti con le mani al collo non potevano più dire chiacchiere a gente
con la toga e dicono non ricordo». Avetrana: omertà e mafia, luoghi comuni
che si rincorrono. «Un massacro gestito con metodi mafiosi. Sarah Scazzi è
stata massacrata ed è un massacro peggiore per le condotte successive al
delitto che denotano un metodo mafioso, da 416 bis. Sarah non doveva essere
solo uccisa – ha spiegato Nicodemo Gentile, l’avvocato degli Scazzi – ma
doveva sparire ed essere annientata. Non doveva esistere più. Doveva
diventare uno di quei tanti volti che fanno parte dell’esercito di
scomparsi.» Chi rappresentava Avetrana avrebbe fatto meglio a cercare e
catalogare in questi anni ogni articolo di stampa ed avrebbe dovuto
registrare ogni intervento delle miriadi trasmissioni tv per far rendere il
conto delle loro denigrazioni ai rispettivi responsabili, siano essi
ignoranti giornalisti o che siano pseudo esperti improvvisati. Come non dar
ragione all’altra parte politica di Avetrana: «Sono Cinzia Fronda, cittadina
del paese di Avetrana e segretaria sezionale del Partito Democratico. Scrivo
da cittadina di un paese devastato, maltrattato, violentato da tanto orrore.
Ovviamente mi riferisco al caso Scazzi che da qualche giorno è tornato
prepotentemente alla ribalta. Ho sentito diversi giornalisti che con una
facilità pericolosa e poco professionale, secondo la mia opinione,
continuano a denigrare Avetrana e i suoi abitanti facendoci passare per
quelli omertosi, ignoranti e, perché no?, cittadini di serie C2! Sono
veramente stanca di questo continuo maltrattamento mediatico, vorrei fare
presente che la maggior parte dei cittadini di Avetrana sono persone
normali, con una cultura normale, con una vita normale e che non mi sembra
assolutamente giusto che si faccia di tutta l’erba un fascio. Con tutto il
rispetto per gli abitanti di Brembate, che hanno anche amministratori di
rispetto che ben si sono guardati dall’esporsi in maniera esagerata, non
cedendo al fascino mediatico, vorrei far presente che lì la famiglia di Yara
ha chiesto il silenzio stampa e allora tutti a parlarne bene mentre per il
caso di Avetrana si continua a dare addosso agli abitanti perchè molti
continuano ad amare intrattenersi con i giornalisti, anche quando sarebbe il
caso di smettere di parlare a vanvera e lasciare che gli inquirenti facciano
serenamente il loro lavoro. Basta violenze mediatiche, Avetrana non è il
paese dei mostri, è un paese che ha voglia di riprendere a vivere
normalmente e serenamente». Peccato che anche lei si è limitata a dire
parole, parole, parole…..»
Va bene. Allora presenti lei Avetrana.
«Sorge su quella che era chiamata la “Via Sallentina”, Avetrana, l’antico
tratto viario che in epoca messapica, e successivamente in quella romana,
collegava Taranto, Manduria, Nardò, Leuca e Otranto. Con le sue 8.300 anime,
il paese vanta origini antiche, ma sono in particolare le tracce di epoca
romana a risaltare come il “canale romano”, che raccoglieva e faceva
confluire le acque in quello naturale di San Martino. Sono numerose le
ipotesi del suo toponimo, tra cui quella che lo fa derivare da “habet rana”,
per via delle massiccia presenza di rane nella zona ricca di paludi o,
ancora e forse più attendibile, l’ipotesi che risalga ad una distorsione di
“terra veterana”, ovvero non coltivata. Certo è che Avetrana custodisce e
mostra le sue vestigia con orgoglio a cominciare dal suo piccolo ma prezioso
centro storico, nel quale ogni nobile e feudatario del suo tempo ha lasciato
la propria firma: dai Pagano agli Albrizi fino agli Imperiale ed i Filo. Di
quello che doveva essere un imponente castello si scorge oggi il torrione
circolare e parte delle mura mentre i vezzi decorativi di alcuni palazzi
come palazzo Torricelli e palazzo Imperiale, accanto alle architetture più
modeste tra i viottoli del centro lasciano oggi intuire il potere della
nobiltà nel piccolo e operoso borgo. Zona di grotte e depressioni carsiche
dalle quali sono emersi anche resti del Neolitico, Avetrana, in epoche
sicuramente più recenti, vanta un’ammirabile tradizione di resistenza: nel
1929 fu il centro di una rivolta dei contadini poi repressa dal regime
fascista, mentre negli anni Ottanta si oppose strenuamente alla costruzione
nel suo territorio di una centrale nucleare. Il paese dista dal mare appena
quattro chilometri e dalla zona denominata “Urmo Belsito”, località marina
abitata da moltissimi cittadini extraregionali e comunitari scelta da loro
come dimora di relax, lo sguardo può spaziare dal mare all’orizzonte alla
rigogliosa macchia mediterranea che la fa da padrone nell’entroterra. Il
patrono di Avetrana è San Biagio e viene festeggiato il 29 aprile. Il comune
dista 43 chilometri dal capoluogo,Taranto, e 37 chilometri da Lecce.
Rispetto ad altri paesi Avetrana si è fatta sempre notare per la sua
intraprendenza, emancipazione ed apertura mentale e per le indiscusse virtù
di alcuni suoi concittadini. Si ricorda Antonio Giangrande, noto scrittore
letto in tutto il mondo o suo figlio Mirko divenuto a 25 anni e con due
lauree l’avvocato più giovane d’Italia. Ed ancora Biagio Saracino, Cavaliere
della Repubblica; Leonardo Laserra, Tenente Colonnello, maestro della Banda
della Guardia di Finanza nota in tutto il mondo. E poi Antonio Iazzi,
professore dell’università del Salento, e Leonardo Giangrande, già vice
presidente della Camera di Commercio di Taranto. Ed ancora Rita Rinaldi,
soubrette e cantante o i duo artistico musicale Mimma e Giusy Giannini (in
arte Emme e gy) con Miriana Minonne e Valentina Iaia (in arte Miry e Viky).
Ed ancora Vito Mancini, concorrente del Grande Fratello 12. E tanti altri
talenti ancora. Ma di questo i media ignoranti ed in malafede non ne
parlano.»
La stampa. L’informazione cartacea e video come hanno riportato i fatti
storici e giudiziari?
«Con la loro verità mediatica. Come volevasi dimostrare dopo la scorpacciata
di immagini, interviste, servizi tv a favore della requisitoria dell’accusa
e delle arringhe delle parti civili, farcite anche di gratuite ed impunite
calunnie e diffamazioni o, come ha riferito Franco Coppi ad Anna Gaudenzi su
Affari Italiani, « Sono state dette troppe cose e non abbiamo apprezzato
alcune battute poco eleganti.» Bene si diceva che dopo l’abbuffata di poco
corrette prese di posizioni della stampa, a dare voce alla difesa non c’è
nessuno. Sono passate sotto silenzio le udienze dedicate agli imputati.
Addirittura le tv locali, a turno, hanno ignorato l’evento. Poche righe
dedicate e servizi assenti o striminziti. Rimasugli dedicati a Michele
Misseri. Solo la malasorte difende Avetrana. Tempi duri per gli operatori
dell’informazione. Rovinose cadute, strani malori, telecamere che si
spengono, fari che esplodono, cassette inceppate. E ancora serrature d’auto
che s’inchiodano, incidenti stradali e bucature multiple delle ruote. Una
sospetta concentrazione d’infortuni scuote il popolo dei media che ha preso
domicilio ad Avetrana per documentare il giallo dell’uccisione della piccola
Sarah Scazzi. Nella graduatoria della iella, la categoria che ha avuto la
peggio è quella dei giornalisti. Le donne sono più sfigate dei loro
colleghi. Sono molti, anzi troppi i processi sotto la lente mediatica. Si
parla troppo spesso di processo mediatico, di quanto possa influenzare
quello giudiziario, soprattutto quando l’opinione pubblica non accetta i
fatti e le sentenze. Il problema, secondo alcuni, è che anche nei processi
si preferisce soffermarsi sugli aspetti scandalistici o curiosi delle
vicende anziché addentrarsi sul merito dei reati. Il processo del terzo
millennio si offre oramai senza veli allo sguardo mediatico che imbastisce
processi paralleli fuori dalle aule di giustizia e dai suoi riti, i cui
improvvisasti ed imperiti pubblici ministeri sono i giornalisti od i
conduttori di trasmissioni trash tv ed i giudici sono i loro lettori o
telespettatori, godenti peccatori delle altrui disgrazie. Nessuno spazio
alla difesa dei malcapitati. Fa niente se poi i tapini sono prosciolti nei
processi veri. Ha ragione Massimo Prati quando dice che questo fa capire in
maniera netta come tanti nostri magistrati non sappiano, o per diversi
motivi non vogliano, leggere allo stesso modo le “‘tavole” dei codici penali
e come tanti di loro si sentano ancora parte attiva di un’altra epoca
storica. Fa capire come i nostri magistrati non siano stati preparati, da
chi doveva insegnargli ed aiutarli mentalmente, ad entrare da uomini giusti
negli anni duemila. Fa capire come siano rimasti ancorati agli albori della
giustizia, a quando chi giudicava comminava pene in base alle possibilità
economiche ed al ceto sociale. Nella Babilonia di quasi quattromila anni fa,
durante il regno di Hammurabi, il povero, a parità di reato, era obbligato
alla morte, mentre chi aveva possibilità economiche, per tornare un “uomo
libero” si limitava a pagare un’ammenda. Nel basso Medioevo, nella futura
italica terra, si procedeva con un trattamento simile, trattamento che
teneva conto non solo dei beni posseduti, ma anche delle amicizie altolocate
e del ruolo che il reo ricopriva nella sua comunità. Ad oggi nel terzo
millennio pare proprio che nulla sia cambiato. Da anni la nostra “giustizia”
è divisa in tronconi colorati. E sempre più spesso capiamo di avere a che
fare con enormi disparità di trattamento. Già nel ’71 con il film “In nome
del popolo italiano” ci fu chi puntò il dito (Dino Risi) contro quei
magistrati, allora idealisti e squattrinati, che abusavano del potere
concesso loro dal popolo italiano. Qualcosa è cambiato da allora? Difficile
rispondere sì, visto che fra il “certo colpevole” e chi si dichiara
innocente la disparità di trattamento è enorme e tutta in favore del “certo
colpevole”, visto che i trattamenti cambiano da procura a procura, da
tribunale a tribunale, visto che con alcuni imputati c’è chi usa il guanto
di velluto mentre, per reati simili se non identici, da altre parti c’è chi
usa il pugno di ferro. Amanda Knox e Raffaele Sollecito sono rimasti quattro
anni in carcere in attesa di un verdetto “giusto”. Sabrina Misseri e sua
madre sono chiuse in galera da anni senza essere dichiarate colpevoli in
modo definitivo. Sabrina Misseri è stata arrestata perché non ha ammesso di
amare e di essere gelosa del “Delon di Avetrana”, perché non ha ritenuto di
aver litigato con la cugina la sera precedente la scomparsa. Questo è
bastato ad impedire si facesse un minimo di indagine che convalidasse i
sospetti. Di logica le accuse, siano di estranei o di un “caro genitore”,
vanno verificate prima di mandare i carabinieri ad eseguire un ordine di
arresto… non si dovrebbe arrestare e sperare di trovar prove
successivamente, si dovrebbero trovar prove e poi arrestare. Sua madre ha
subìto la stessa sorte: ha seguito la figlia in carcere perché un fiorista
l’ha sognata e perché c’è chi ha notato un’ombra grigia sfrecciare per
Avetrana. Un sogno ed un’ombra possono giustificare il carcere in canili
umani? Non inserirò altre storie di presunti colpevoli, arrestati e
carcerati preventivamente e senza prove, basta cercare in internet per
trovare migliaia di innocenti risarciti della reclusione ingiusta con soldi
statali… e non con quelli privati di chi ha sbagliato a chiudere in
carcere, senza avere prove, un incensurato. Rovinare la vita delle persone
comuni è fin troppo facile, questo è quanto l’italiano, che non ha mai avuto
guai con la giustizia, deve capire. Non deve credere di essere immune perché
onesto, e non deve pensare che a lui ed ai suoi figli non capiterà mai
quanto capitato ad altri. Lo sbaglio è sempre dietro l’angolo. Lo sa bene
Giuseppe Gullotta, che di anni in galera ne ha fatti ventuno, compresi i
preventivi, a causa delle torture riservate a chi lo ha accusato (poi
impiccatosi in carcere seppure avesse un solo braccio). Ed anche se un
domani il danno verrà scoperto e riparato, non ci sarà mai un risarcimento
che possa compensare la psiche, che possa riportare in vita i genitori morti
dal dolore, che possa ridare la “salute” alle mogli che per la vergogna e il
dispiacere sono invecchiate anzitempo (sempre siano restate accanto ad un
marito che non c’era), che possa far tornare l’infanzia e l’adolescenza nei
figli cresciuti senza un padre accanto, cresciuti col marchio dell’infamia
che porta il dover parlare di un genitore non presente perché in carcere.
Non inserirò altre vergogne italiche, non le inserirò perché anche se
narrassi mille e una storia, nulla cambierebbe e nessuno modificherebbe il
proprio modo di operare e di giudicare gli altri, siano essi giudici o
pubblico di talk show. Per questo servirà tempo e una buona capacità di
insegnamento da parte di chi formerà i nuovi giudici ed i nuovi magistrati.
Ma non c’è da stupirsi, in fondo la nostra giustizia rispecchia la
maggioranza del popolo italiano… quella maggioranza che succhia la notizia
senza accorgersi che il gusto lascia l’amaro in bocca. A un mese dalla
sentenza di primo grado sull’omicidio di Avetrana, Michele Misseri torna ad
autoaccusarsi. Ospite in collegamento di Barbara D’Urso a Domenica Live, zio
Michele ha nuovamente confessato la sua colpevolezza scagionando la moglie
Cosima e la figlia Sabrina. “Loro sono innocenti – ha ripetuto più volte
Misseri – io sono l’assassino, ma nessuno mi vuole credere. Ho i rimorsi e
devo pagare per quello che ho fatto.” L’uomo ha poi minacciato il suicidio
se la moglie e la nipote verranno condannate in via definitiva. Per chi se
lo fosse perso: Barbara D’Urso e le sue faccette il 3 marzo 2013 hanno
intervistato Michele Misseri a Domenica Live su Canale 5. Tempo concesso
all’occultatore del cadavere di Sarah Scazzi e reo confesso del delitto:
un’ora circa, nemmeno fosse Silvio Berlusconi. Senza lasciare nulla al caso,
la D’Urso si è vestita a righe per l’occasione e lo ha intervistato per la
seconda volta nel giro di pochi mesi (la prima era stata a dicembre 2012);
da Avetrana, collegata in diretta, Ilaria Cavo. Perché a Michele Misseri,
nello spazio domenicale che un tempo era rivolto alle famiglie, si concede
la diretta. Ma lo scandalo è la piega che prendono certe trasmissioni trash
e disinformative: Quarto Grado, La Vita in Diretta, Porta a Porta, Chi la
Visto? ecc. E’ interessante notare l’evoluzione della figura di Michele
Misseri; all’inizio era lo “zio orco”, poi è diventato – per i giornalisti –
la povera vittima di moglie e figlia, e allora la sua immagine è stata in
parte ripulita. Così per i tg è tornato semplicemente ad essere un uomo: lo
zio Michele. Contemporaneamente il processo sull’omicidio di Avetrana si era
spostato dalle aule giudiziarie in televisione; la sovraesposizione delle
persone coinvolte era stata tale da renderli personaggi televisivi, Sabrina
e Michele Misseri in particolare. La voglia di sangue del pubblico. Il
Colosseo come gli studi televisivi. La parzialità dei conduttori è spudorata
e non fanno niente affinchè non prevalga la voglia di giustizialismo a danno
di Sabrina Misseri e Cosima Serrano: Mara Venier e tutti gli altri, compreso
l’ipocrisia di Barbara D’Urso che si dichiara “vicina a Concetta e alla sua
battaglia”. Mai nessuno di loro, però, a raccontare la verità. La verità
storica ed incontestabile è che il processo è ancora al primo grado, manca
il certo appello e la Cassazione e, cosa che rimarca un certo senso di
malessere nei confronti di certi magistrati, è che Michele Misseri si
dichiara colpevole ma è libero, mentre la moglie e la figlia che si
professano innocenti sono in carcere. Si dichiarano colpevoli l’uno ed
innocenti le altre da sempre e con coerenza, come se fossero criminali
esperti ed incalliti. Non solo: prima la D’Urso lo invita per impennare lo
share (e per cos’altro sennò?), poi lo cazzia per quello che ha fatto,
(confessare il delitto che secondo lei non ha commesso o aver commesso il
delitto?). “I padri non diventano assassini” dice la D’Urso, giusto per
appagare le voglie del pubblico guardone e schierarsi dalla parte di chi
pensa che Michele menta per coprire Sabrina.»
La mamma di Sarah, Concetta Serrano Spagnolo Scazzi, come si è comportata?
«Comunque, per colpevoli che possano essere agli occhi dei giustizialisti, è
pur vero che la colpevolezza va provata e nessuno, dico nessuno, può essere
condannato senza prove che adducano ad una colpa al di là di ogni
ragionevole dubbio. Eppure c’è chi si ostina a tener ferma la sua posizione,
senza ombra di dubbio, mossa da sentimenti prosaici e poco religiosi. Eppure
nessuno, oltre al sottoscritto, osa parlare contro il sentimento comune, se
non Ilaria Cavo con i suoi atteggiamenti, la giornalista Mediaset indagata
proprio dalla procura di Taranto, e Maria Corbi con i suoi articoli,
giornalista del “La Stampa” di Torino. La nostra colpa è vedere le cose con
imparzialità senza essere genuflessi e succubi ai magistrati tarantini. Il
processo al delitto di Sarah Scazzi è il processo ad Avetrana. Alla
richiesta da parte di Argentino e Buccoliero della condanna per tutti gli
imputati, specialmente per l’ergastolo a Sabrina Misseri ed alla madre
Cosima Serrano, tutta l’Italia forcaiola ha applaudito. Si sentono ancora
gli applausi registrati nello studio di “La vita in diretta” con Marco
Liorni e di “Pomeriggio cinque” con Barbara D’Urso. A tutti i testimoni che
hanno testimoniato contro la tesi accusatoria si prospetta la condanna per
falsa testimonianza. L’Italia forcaiola che per soddisfare l’aspettativa di
vendetta pretende la tortura e l’omicidio di Stato per lavare l’onta di un
efferato delitto. A scanso di essere lapidati da falsi moralisti si tiene a
precisare che si può essere d’accordo, ma non bisogna mai emettere giudizi
affrettati e sommari, prima di ascoltare cosa ha da dire la difesa, tenuto
conto che nei processi italiani, fino a che non tocchi ai difensori la
parola, hanno voce solo i pubblici ministeri ben ammanicati con giornalisti
approssimativi e parziali. Per chi conosce bene il sistema della giustizia
in Italia ed i magistrati italiani prima di emettere sentenze popolari
bisogna essere cauti e con cognizione piena di causa. La mamma di Sarah,
Concetta Serrano Spagnolo, ha accolto le richieste di ergastolo con mezza
soddisfazione. «Sono cose che non fanno gioire nessuno e che non servono a
ridare la vita strappata di una bambina. Chi uccide merita l’ergastolo – ha
dichiarato la mamma di Sarah, Concetta – è stato il processo delle menzogne
ed è anche giusto che coloro che hanno detto tutte queste menzogne paghino
per quello che hanno detto. Non hanno avuto pietà per una bambina che stava
anche piangendo». «Ho sempre detto che il movente della gelosia di Ivano non
mi convinceva, che c’era qualcosa di losco e quello che è emerso ieri lo
conferma». Lo ha detto Concetta Serrano, madre di Sarah Scazzi. Concetta ha
fatto riferimento, con quel ‘losco’, alle abitudini a sfondo sessuale che
aveva la comitiva di cui faceva parte Sabrina Misseri, come fare
spogliarelli o andare a vedere le coppiette, coinvolgendo presumibilmente
anche Sarah. Certo che ognuno di noi ci si potrebbe anche chiedere cosa
facesse una ragazza di 15 anni insieme ad una comitiva di maggiorenni ed
avere orari di rientro non compatibili per una ragazza della sua età.
Concetta ha aggiunto che «è possibile» che Cosima abbia inseguito Sarah e
abbia partecipato al delitto, secondo la tesi dell’accusa, perchè «lei è di
altra tradizione, di altra generazione e non accettava questo stile di vita
di Sabrina». «Non è vero, come hanno detto – ha aggiunto – che io odio
Sabrina e Cosima. Mi fa rabbia che loro ce l’abbiano ancora con Sarah e
continuino a dire che sono innocenti nonostante l’evidenza».» Un giornalista
chiede a Concetta: “Signora Concetta Serrano (madre di Sarah Scazzi), dopo
trentasette udienze e tanti testimoni, quali cose ha capito di questo
processo? E che cosa si aspetta?” «Ho trovato eccellente la presidente della
Corte d’Assise Rina Trunfio, bravi anche i pubblici ministeri Mariano
Buccoliero e Pietro Argentino che hanno condotto indagini puntuali e
puntigliose. Come andrà a finire non lo so, non ho molta fiducia nella
giustizia degli uomini. I magistrati, anche loro, si devono attenere a certi
dettami di legge che non ci proteggono. Anche se gli imputati prenderanno il
massimo della pena, tra indulti e buona condotta li rivedremo in giro dopo
pochi anni. Così, tanti sacrifici, tanto lavoro e tanti soldi di noi
cittadini a che cosa saranno serviti? A niente. Ieri sono andata a comprare
delle caramelle e il negoziante mi ha fatto notare la stranezza delle leggi:
Fabrizio Corona deve stare in carcere cinque anni per reati tutto sommato
banali, mentre mio cognato Michele, che ha gettato il corpo di una bambina
in un pozzo, lo vediamo girare libero in paese come se niente fosse. Non
solo io, ma tutto il paese è indignato per questo». Critiche alla giustizia
in senso lato ed apprezzamenti ai magistrati, che poi non sono altro che il
corpo e l’anima della giustizia e per gli effetti gli unici responsabili
dell’ingiustizia e della malagiustizia. La ricerca di un colpevole e non del
colpevole e la pena dura e certa da far scontare in canili umani per
soddisfare il bisogno di vendetta e non di giustizia, pare che sia
l’opinione di Concetta Serrano. Le convinzioni di Concetta Serrano sui
magistrati italiani non sono certo condivise da altre mamme come lei, certo
non traviate dal turbinio mediatico, ma artatamente i media usati da
quest’ultime come strumento per una lotta dura e costante mirante alla
ricerca della verità. «Ci sono in Italia “inefficienze gravi” nelle indagini
che riguardano i sequestri dei bambini, “qualcosa che non funziona” su cui
il governo deve intervenire, altrimenti “i bambini continueranno a sparire e
non verranno mai trovati”.» L’accusa arriva da Piera Maggio e Maria
Celentano, rispettivamente la madre di Denise Pipitone – scomparsa a Mazara
del Vallo il 1 settembre del 2004 – e di Angela Celentano, sparita sul Monte
Faito il 10 agosto 1996. Intervenute a ‘Buona Domenica’ su Canale 5 del 1
marzo 2008 le due madri hanno preso spunto dalla vicenda di Ciccio e Tore.
«Il mio pensiero va a quei due bambini che purtroppo non ci sono più.
Ringrazio Dio perché ho ancora la speranza di riabbracciare Angela e invece
quei due bambini sono lassù – dice Maria Celentano per attaccare
investigatori e inquirenti. «C’é in Italia un’inefficienza grave nelle
indagini sui sequestri di bambini – afferma Piera Maggio – Nel 2007 abbiamo
scoperto una cosa allucinante. Ci sarebbe stata la risoluzione del caso di
Denise, e nessuno se ne era accorto. La sfortuna maggiore di mia figlia è
stata quella di avere delle persone che la cercavano che forse non avevano
le competenze per svolgere determinate indagini. Ho perso e mi hanno fatto
perdere la fiducia nella giustizia italiana. Le famiglie – aggiunge la mamma
di Denise – possono fare poco e niente, non hanno mezzi, aiuti necessari.
Sono sole psicologicamente e moralmente e a pagare sono sempre i bambini».
Parole simili arrivano da Maria e Catello Celentano. «Forse dodici anni fa
non c’erano i mezzi che ci sono oggi – dice Maria – ma la realtà e sempre
quella: i bambini spariti non si trovano. Non so perché, forse c’é poco
impegno e poca responsabilità da parte degli adulti, ma qualcosa che non
funziona c’é perché i bambini continuano a sparire. E poi si ritrovano in
questo modo qua che è una cosa veramente atroce». «In Italia – aggiunge il
marito – ogni volta che scompare un bambino si impiegano persone che non
sono attrezzate, non hanno capacità e mezzi. E invece bisogna fare di più
per loro». La madre di Yara Gambirasio, Maura Panarese, ha scritto al
presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a più di due anni dalla morte
della figlia. Il testo della lettera parla di “Scarsa collaborazione degli
investigatori con la parte lesa”. E’ quanto rivela la puntata “Quarto Grado”
andata in onda venerdì 25 gennaio 2013. Secondo quanto riferito dalla
trasmissione, nella lettera inviata al Capo dello Stato, la madre di Yara
esprime le proprie critiche nei confronti di chi ha eseguito l’inchiesta.
Un’indagine che si è concentrata, prima sul cantiere di Mapello, poi
sull’ipotetico figlio illegittimo di un autista bergamasco morto da anni,
basandosi sul Dna. La donna manifesta dunque al Presidente Napolitano tutto
il dolore e lo sconforto perchè, dopo anni d’indagini, la figlia non ha
ancora avuto giustizia. Il mio libro “Sarah Scazzi, il delitto di Avetrana.
Il resoconto di un Avetranese. Tutto quello che non si osa dire”, fa parte
integrante della collana editoriale “L’Italia del trucco, l’Italia che
siamo” composta da 50 opere trattanti, appunto, la sociologia storica, di
cui io sono profondo cultore: ossia rappresentare e studiare il presente,
rapportandolo al passato e riportandolo al futuro. Il libro su Sarah Scazzi
è la vicenda soggettiva ed oggettiva che rappresenta l’Italia. Sarah Scazzi
può essere Yara Gambirasio, Elisa Claps, Ciccio e Tore, Denise Pipitone, e
tutte quelle vicende misteriose che hanno interessato i media. Se l’Italia
dei media ha giudicato Avetrana, influenzando il pensiero dei più, un
Avetranese giudica l’Italia dei media e le sue patologie: omertà, censura,
disinformazione. E lo fa con una certa e non indifferente perizia, adottando
un sistema inoppugnabile. Non riportare le proprie opinioni, che non
interessano a nessuno ed a scanso di accuse di mitomania o pazzia, ma
affidarsi ai fatti certi ed incontestabili, citandone la fonte. Il libro
work in progress aggiornato periodicamente come tutti gli altri libri si può
trovare da leggere gratuitamente sul sito dell’associazione di cui sono
presidente nazionale
www.controtuttelemafie.it in cui vi sono pure i filmati di riferimento,
ovvero a minimo costo su Google libri, su Amazon per l’E-Book o su Lulu per
il cartaceo.»
E sui magistrati in generale cosa ha da dire?
«Toghe rosse, toghe nere, toghe rotte. I giudici come le seppie e i polpi:
cambiano colore a seconda degli imputati?
Il problema forse non è tanto nel colore delle toghe ma nella loro insita
incapacità di cogliere la verità storica nelle vicende umane. La loro
presunta superiorità morale e culturale rispetto alla massa, avallata dal
concorso truccato che li abilita, li pone talmente in alto che miseri loro
non riescono a leggere bene la realtà che li circonda. Insomma loro son loro
e noi “non siamo un c….”. Le strade italiane, oramai, sono diventate molto
più transitabili, quasi deserte, non perché le persone son diventate
improvvisamente più casalinghe e pantofolaie, ma semplicemente perché
certuni PM e Giudici di casa nostra amano sbattere nelle patrie galere
chiunque gli giri intorno: quindi, tutti dentro appassionatamente! La Corte
Europea dei Diritti Umani di Strasburgo accusa ad alta voce il nostro Paese,
che viene giustamente condannato per il trattamento inumano e degradante dei
carcerati detenuti nelle infernali galere italiche. Pensate che tale
richiamo abbia minimamente scosso gli uomini dalla galera facile? I pubblici
ministeri, i Gip, i Gup e i Procuratori Capo? I giudici monocratici o
riuniti in assise. Neanche per idea! Al minimo dubbio, al fresco, nei Grand
Hotel Italiani a -7 stelle; le cui stanze di meno di 3 metri quadrati
possono contenere anche tre o quattro detenuti. Ma, a loro cosa può
interessare; per le tenebrose toghe nere ciò che conta è apporre tacche su
tacche alle loro pistole fumanti. Tanto chi paga quest’ammasso di carne
sovrapposta in loculi invivibili è il cittadino italiano. I tantissimi
processi, indagini, rinvii a giudizio per chi non ha fatto un emerito c…., e
i tantissimi suicidi che si verificano settimanalmente in tali luoghi di
tortura, non contano niente. L’importante è che di fronte a una ridottissima
controversia ci si copra le spalle, ammanettando coloro che – di fatto –
potrebbero a tutti gli effetti, e molti lo sono, essere innocenti. Tanto i
Giudici, i PM e compagnia bella non verranno mai toccati, né verranno mai
chiamati a rispondere in solido (pecuniariamente, moralmente, penalmente)
dei misfatti compiuti. Solo nei casi eclatanti di magistrati pedofili, di
giudici che usano il proprio ufficio per ricattare sessualmente viados o
donne della mala, o di quelli conniventi con le varie mafie, si arriva a
arrestarli, sed post breve tempus tutto viene subdolamente fatto passare nel
dimenticatoio. Questa, purtroppo, è la disperata situazione della legge
italiana, a voler continuare a non separare le carriere, a rimandare da
tempo immemore la riforma della giustizia, e all’equiparare reati inferiori,
quello, per esempio, di Fabrizio Corona, a reati gravissimi come l’omicidio,
altro esempio la sentenza vergognosa del macellaio Jucker che si è fatto
solo 10 anni per aver trucidato la fidanzata. In campagna elettorale si
parla di tutto, meno della libertà del cittadino italiano che sta
scomparendo, terrorizzato dalle cupe toghe nere. Il rischio della
rappresentanza politica è sbagliare il rappresentante, perché questi signori
nominati dall’alto si presentano in un modo e poi si comportano al
contrario.»
Che rapporto ha lei con i magistrati locali e se ha fiducia nel loro
operato, tenendo conto anche dell’esito del processo sul delitto di Sarah
Scazzi?
«C’E’ SEMPRE UN GIUDICE A BERLINO. IL FUTURO AFFIDATO ALLA SORTE PER CHI
RACCONTA LA VITA SENZA PARAOCCHI. La condanna o l’assoluzione affidata alla
fortuna per la quale ti viene assegnato un magistrato dedito alla giustizia
e non al culto della propria personalità. Quando, per poter esercitare il
diritto di critica e di cronaca, senza pagare fio, ti tocca essere giudicato
dal giusto giudice assegnato per sorte (e non per normalità come dovrebbe
essere). «Da noi – ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una
televisione greca il 23 febbraio 2013 – la magistratura è una mafia più
pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa
grossa». «In Italia regna una “magistocrazia”. Nella magistratura c’è una
vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il
28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Questa
premessa per raccontare le mie e l’altrui vicissitudini giudiziarie per aver
scritto la verità e l’esito differenziato dei processi in virtù del
giudice che ha deciso sulle cause. Per raccontare come può cambiare il
senso della vita dell’imputato le cui sorti sono pendenti dal volere di una
persona, il cui giudizio può essere falsato da un criticabile modus
operandi. E’ un giorno come gli altri in quel Tribunale. Tribunale di
Manduria, sezione staccata di Taranto. Ma è come se fossi in qualunque
Tribunale d’Italia. E’ il 21 febbraio 2013, ma può essere qualsiasi altro
giorno dell’anno che fu o che sarà. Sono lì da imputato per l’ennesimo
processo per diffamazione a mezzo stampa, uno dei tanti senza soluzione di
continuità. E’ il prezzo da pagare per non essere pecora in un immenso
gregge. In attesa del mio turno, tra i tanti procedimenti chiamati, seguo il
processo a carico dei dirigenti della Banca di Credito Cooperativo di
Avetrana ed a carico di un noto politico dello stesso paese, la cui moglie
si presenta alle elezioni per la Camera dei Deputati. Sono molteplici i
reati contestati, in riferimento ad un assegno incassato ante datato e
firmato per somme di denaro riferibili ad un defunto. La stessa banca è
coinvolta, tramite il suo funzionario, anche nella vicenda di Sarah Scazzi.
Nel proseguo dei procedimenti penali sento il nome dell’imputato di un altro
processo, Giovanni Caforio, anche lui perseguito per diffamazione a mezzo
stampa. Anche lui una mosca bianca nel sistema disinformativo locale.
Accusato e giudicato per aver scritto sul suo giornale di Sava, Viva Voce,
il resoconto critico della mal amministrazione cittadina a vantaggio
personale, facendo riferimento ad un procedimento penale a carico di un
amministratore, avvocato. L’avvocato Romoaldo Claudio Leone, sentendosi
diffamato, ha querelato il direttore del giornale. Nel processo è stato
difeso come parte civile dall’avv. Gianluigi De Donno. Il giudice titolare
Rita Romano non è lei a decidere ed allora in quel processo accade una cosa
che non ti aspetti: il suo sostituto, il giudice togato Simone Orazio, dopo
un’attenta ed approfondita analisi della questione giuridica, assolve
l’imputato, visibilmente commosso. Strano quel che è successo in quel giorno
in quell’aula. In precedenti udienze il direttore Giovanni Caforio era già
stato più volte condannato per lo stesso reato, ma per altri fatti, proprio
dal Giudice Rita Romano. Sentenze naturalmente appellate. Per la Corte di
Appello di Taranto, che assolve Giovanni Caforio perché il fatto non
costituisce reato, è da assolvere “perchè nella critica, la verità esprime
un giudizio che, in quanto tale, è sì, l’elaborazione soggettiva di un
avvenimento ma non può del tutto essere scollegata dalla realtà”. Ancora mi
rimbomba in testa quel che accadde il 12 luglio 2012: assolto con la formula
più ampia nel Tribunale di Manduria dove è titolare Rita Romano, ma da lei
non giudicato: per non aver commesso il fatto. Assolto dal giudice onorario
della sezione distaccata di Manduria, avv. Frida Mazzuti, su richiesta del
Pubblico Ministero Onorario avv. Gioacchino Argentino. Nulla di che, se non
si trattasse dell’epilogo di un atto persecutorio da parte della
magistratura tarantina. Questa è una esperienza che insegna e che va
raccontata. L’oscuramento del sito web effettuato con reiterati atti nulli
di sequestro penale preventivo emessi dal Pubblico Ministero togato Adele
Ferraro e convalidati dal GIP Katia Pinto. Lo stesso GIP che poi diventa
giudice togato del dibattimento e che alla fine del processo proclamerà la
sua incompetenza territoriale. Dopo anni il caso passa al competente
Tribunale di Taranto. Qui il Gip Martino Rosati adotta direttamente l’atto
di reiterazione del sequestro del sito web, senza che vi sia stata la
richiesta del PM. Il reato ipotizzato è: violazione della Privacy. Non
diffamazione a mezzo stampa, poco punitiva, ma addirittura violazione della
privacy, reato con pena più grave. E dire che gli atti pubblicati non erano
altro che notizie di stampa riportate dai maggiori quotidiani nazionali. Era
solo un pretesto. Di fatto hanno chiuso un portale web di informazione e
d’inchiesta di centinaia di pagine che riguardava fatti di malagiustizia,
tra cui il caso di Clementina Forleo a Brindisi e una serie di casi
giudiziari a Taranto, oggetto di interrogazioni parlamentari. Tra questi il
caso di un Pubblico Ministero che archivia le accuse contro la stessa
procura presso cui lavora; che archivia le accuse contro sé stesso come
commissario d’esame del concorso di avvocato ed archivia le accuse contro la
sua compagna avvocato, dalla cui relazione è nato un figlio. Fatti di
malagiustizia conosciuti e scaturiti da esperienze vissute personalmente o
raccontate dalle vittime, fino a quando mi hanno permesso di svolgere la
professione di avvocato e successivamente in qualità di presidente di
un’associazione antimafia. Dopo anni i magistrati togati di Taranto non
hanno ottenuto la mia condanna, nonostante i più noti avvocati di quel foro
abbiano rifiutato di difendermi e sebbene tutti i miei avvocati difensori mi
abbiano abbandonato, eccetto l’avv. Pietro DeNuzzo del Foro di Brindisi.
Qualcuno si è fatto addirittura pagare da me, nonostante abbia percepito i
compensi per il mio patrocinio a spese dello Stato. Ed ancora dopo anni i
magistrati togati di Taranto non hanno ottenuto la mia condanna, anche in
virtù del fatto che il giudice naturale, Rita Romano, sia stata ricusata in
questo processo, perché non si era astenuta malgrado sia stata da me
denunciata. A dispetto di tutte le circostanze avverse vi è stata
l’assoluzione, ma i magistrati togati hanno ottenuto comunque l’oscuramento
di una voce dell’informazione. Voce che in loco è deleteria al sistema
giudiziario e forense tarantino e contrastante con la verità mediatica
locale. Da rimarcare è il fatto che tutte, dico tutte, le mie denunce od
esposti presentati agli organi competenti sono state regolarmente
insabbiati: archiviati o di cui non si è più avuto notizia pur chiedendo
esplicitamente l’esito. Far passare per mitomane o pazzo chi è
controcorrente è la prassi, per denigrarne nome ed attività. Nonostante non
vi sia mai stata condanna per calunnia.»
Quindi ritiene che, nonostante la sua opera moralizzatrice, alcuni
magistrati del posto la perseguitano?
« Non dimentico il 18 aprile 2013. Due processi a Manduria, sezione
staccata del tribunale di Taranto. In quei processi scomodi, che nessuno
vuol fare, più giudici togati di Taranto si avvicendano: Rita Romano, Vilma
Gilli, Maria Christina De Tommasi; oltre a 2 giudici onorari: Frida Mazzuti
e Giovanni Pomarico. Processi a mio carico costruiti ad arte senza che vi
sia stata la querela necessaria o la denuncia di attivazione. Alla prima
giudice, Rita Romano, si è presentata ricusazione per la denuncia presentata
contro di lei. In seguito di ciò l’avv. Gianluigi De Donno rinuncia alla mia
difesa. Ha avuto le stesse remore di Nicola Marseglia nel momento in cui
Franco Coppi ha presentato istanza di astensione alla Misserini ed alla
Trunfio, i giudici di Sabrina Misseri. Per il primo sono accusato di
calunnia in concorso con mia sorella, per aver presentato una denuncia
contro un sinistro truffa, in cui era coinvolta un’avvocatessa stimata dai
magistrati di Taranto, compreso un sostituto procuratore della Repubblica
dello stesso Foro in cui esercitava, e sono accusato di diffamazione a mezzo
stampa per aver pubblicato un esposto penale ed amministrativo a varie
istituzioni denunciando questo ed altri casi di malagiustizia. Per l’altro
processo sono accusato di diffamazione a mezzo stampa per aver pubblicato
una denuncia contro le perizie false in Tribunale, da chi, Giuseppe Dimitri,
mio cliente che ho difeso da avvocato fino all’estremo, mancava di
legittimazione a farlo, in quanto il presunto diffamato era altra persona,
cioè il denunciato. In udienza il danneggiato ha confermato che non ha mai
presentato querela contro di me, né aveva avuto mai intenzione di farlo. Per
quella denuncia il giudice Rita Romano ha condannato per calunnia Dimitri,
nonostante il Consulente Tecnico del Tribunale, proprio per il reato di cui
era accusato, era già stato depennato dalla lista tribunalizia dei CTU. Nel
primo processo mi si accusa di aver calunniato, in concorso con mia sorella,
un avvocato, Nadia Cavallo, accusandola, sapendola innocente, di aver
chiesto ed ottenuto illecitamente i danni per un sinistro truffa e con
testimoni falsi in suo atto di citazione che indicava come responsabile
esclusiva Monica Giangrande. In effetti Monica Giangrande non era
responsabile di quel sinistro. Eppure è stata condannata dal giudice Rita
Romano. La condanna per calunnia a carico di mia sorella inopinatamente non
è stata appellata dai suoi avvocati, pur sussistendone i validi motivi. La
giudice, Rita Romano, è stata da me denunciata, così come Salvatore
Cosentino, sostituto procuratore a Taranto e poi trasferito a Locri .
Salvatore Cosentino, come tutti i magistrati di Taranto aveva molta stima
per Nadia Cavallo. Rita Romano ha condannato mia sorella pur indicando in
sentenza che altra persona era responsabile esclusiva del sinistro, così
come mia sorella andava attestando. Va da sé che tale sentenza contenente
illogicità e contraddizioni sarebbe dovuta essere appellata. Salvatore
Cosentino era il Sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale
di Taranto che ha chiesto ed ottenuto l’archiviazione della denuncia contro
la Procura di Taranto. Procura che ha archiviato le denunce presentate
riguardo proprio a quel sinistro truffa. I processi civili inerenti il
sinistro sono stati tutti soccombenti, nonostante le prove indicassero
palesemente il contrario. La Nadia Cavallo ha ottenuto il risarcimento danni
del sinistro dall’assicurazione, oltre che 25,000 mila euro di danni morali
da Monica Giangrande proprio per la condanna di calunnia. Per questo
procedimento la mia posizione sin dall’inizio è strana. Non sono convocato
nella prima udienza preliminare con mia sorella, quindi è nullo il mio
rinvio a giudizio. Dopo anni, nella seconda udienza preliminare, il GUP
chiede al PM gli atti di prova a mio carico, in tale sede mancanti. Alla
risposta negativa gli concede ulteriore termine di 6 mesi per trovare la
prova della mia colpa, al termine dei quali, durante la terza udienza
preliminare vi è comunque il Rinvio a Giudizio. All’ultima giudice devo
provare se il fatto sussiste, se l’ho commesso, se è previsto come reato.
Ebbene. Io, come mia sorella sapevamo benissimo che l’avvocato era
colpevole: perché non era attendibile la versione fornita dell’evento. Ma
questo non lo dicevamo solo noi, io e mia sorella, ma anche l’avvocato della
compagnia assicurativa costituita nei vari giudizi. Eppure questi non è
stato perseguito dello stesso reato. Per la compagnia non era verosimile il
fatto che un signore che tocca lo sportello di un’auto non identificata e
condotta da signora diversa dalla Monica Giangrande, si alzi e se ne vada,
per poi chiamare un’ambulanza per farsi portare a casa e non in ospedale.
Eppure negli atti di citazione non viene chiamata in causa la vera
responsabile del presunto sinistro ed il vero proprietario dell’auto. Ciò
nonostante si conoscesse il responsabile esclusivo del sinistro, veniva
chiamata in causa mia sorella che acclamava a gran voce la sua estraneità.
Ma il fatto eclatante è che sono stato accusato di calunnia io che quella
denuncia non l’ho mai presentata, né ho indotto mia sorella a farlo, non
essendo il suo avvocato. Sono stato accusato di calunnia io, che se l’avessi
fatto, sapevo benissimo che la denuncia era fondata. Per quanto riguarda la
seconda accusa, di diffamazione a mezzo stampa, c’è da dire che il sito web,
su cui vi era l’articolo che faceva riferimento ai fatti, non era mio, né
l’articolo era a me riferibile. Io per scrivere le mie inchieste ho
moltissimi miei canali di divulgazione facilmente riconducibili a me e di
quelli io ne rispondo. Né tantomeno la Polizia Postale si è prodigata sotto
gli ordini del PM di sapere dall’azienda web provider che gestisce il server
di pubblicazione chi fosse il vero proprietario del sito web e quindi
responsabile delle pubblicazioni. E bene sapere, comunque, al di là di
questo, che è lecita la pubblicazione delle denunce penali, così come
stabilito dalla Corte di Cassazione. Per questi processi, come volevasi
dimostrare, con il giusto giudice l’esito è scontato: Assoluzione piena da
parte del Giudice Togato Maria Christina De Tommasi e da parte del GOT
Giovanni Pomarico. Anzi, meglio ancora. Giovanni Pomarico, nel processo
della presunta diffamazione per le perizie false, non ha fatto altro che
registrare la remissione della querela delle parti. Di chi non aveva
legittimazione a presentarla contro di me e di chi addirittura non l’aveva
presentata affatto. Con il giudice naturale, se non vi fosse stata la
ricusazione, sarebbe stata condanna certa. Quanto successo a Caforio mi
conforta di un fatto: aver adottato i rimedi giusti per potermi salvare da
sicura condanna. Il giudice titolare Rita romano è stata da me denunciata
per fatti attinenti l’attività giudiziaria, scaturenti condanne per me, che
nel proseguo si sono estinti, e per i miei familiari, e per tale denuncia è
stata ricusata. Le ricusazioni presentate contro il giudice nei successivi
processi che mi riguardavano, ha permesso a me di cambiare il mio destino e
comunque di essere giudicato da giudici diversi e per gli effetti di essere
dichiarato assolto. Per le ricusazioni presentate per palese mio interesse,
però, lo stesso avvocato Gianluigi De Donno, mio difensore, ha rimesso il
suo mandato. Motivo: la Ricusazione non si doveva fare. C’è da sottolineare
che successivamente il Giudice Rita Romano, ogni qualvolta era investita dei
miei procedimenti, si asteneva, tacendo della mia denuncia contro di lei,
non mancando, però, di sottolineare ad alta voce nelle udienze affollate che
l’astensione era dovuta al fatto che io ero stato da lei denunciato per
calunnia. Denuncia che avrebbe scaturito un procedimento, di cui io non
avevo avuto notizia. Non solo. Il 18 febbraio 2013 il Pm Ida Perrone,
sostituta di Pietro Argentino (entrambi denunciati a Potenza) nella sua
requisitoria in un procedimento per il reato di usura a carico di un
Giangrande (poi non condannato) ha pensato di dichiarare: «i Giangrande sono
ben noti in Avetrana per essere considerati usurai e per aver io stessa
trattato alcuni procedimenti». In quello stesso collegio giudicante la
medesima Rita Romano ha dovuto astenersi per grave inimicizia con il
sottoscritto per i suddetti motivi riferiti. Le stesse affermazioni
diffamatorie sono state proferite in altro procedimento penale in sede di
conclusioni dall’avvocato Pasquale De Laurentiis, difensore di un individuo
giudicato e condannato proprio per diffamazione in udienza ed anche lui per
aver pronunciato proprio la stessa frase. Evidentemente questi signori lo
possono fare, legittimati a farlo dal loro ruolo ed agevolati dal farlo da
chi in toga lo permette, senza alcun controllo alcuno, tanto meno se le
vittime in tale sede non possono alcunchè obbiettare, né tali dichiarazioni
offensive, denigratorie e diffamatorie rese in udienza, vengono verbalizzate
dai cancellieri per poter querelare i responsabili, sempre che si trovi un
loro collega disposto a perseguirli. E’ chiaro che i magistrati e gli
avvocati di Taranto e provincia hanno il dente avvelenato contro di me.
L’intento è colpire i Giangrande per colpire il Giangrande, ossia me. Ma una
cosa è certa. In Avetrana vi sono centinaia di persone con il cognome
Giangrande. Nessuno di loro è stato mai condannato in via definitiva per il
reato di usura. Quindi nulla si può dire sul nome Giangrande, ne tanto meno
si può dire qualcosa su di me, Antonio Giangrande, che, oltretutto, sono il
presidente nazionale proprio di una associazione antiracket ed antiusura, il
quale ha fatto l’errore di battersi contro l’usura bancaria e l’usura di
Stato. E’ quello che a Taranto è stato il primo ad attivarsi contro le
bufale dei titoli MyWay e 4you della Banca 121 poi Banca Monte Paschi di
Siena. Quello che ha lottato a tutela degli incapaci e delle perizie false.
Quello che ha denunciato i concorsi pubblici truccati e i sinistri stradali
falsi. Denunce regolarmente archiviate. Certo è che io, sì, invece, ho
scritto libri sui miei detrattori. Specialmente quelli operanti sul foro di
Taranto. Che sia per questo il motivo di tanto astio? Ed è questo il motivo
che non vogliono che faccia l’avvocato e da decenni non mi abilitano alla
professione forense? Ed è questo il modo di collaborare con chi ha il
coraggio di mettersi contro la mafia e di affermare che comunque la mafia
vien dall’alto e per gli effetti aver denunciato le malefatte dei poteri
forti e presentato altresì a Potenza le denunce contro i magistrati di
Taranto, che tra l’altro si son archiviati una denuncia a loro carico
anziché girarla proprio a Potenza? Per questo forse non vi è alcuna
collaborazione istituzionale e sostegno morale e finanziario, per il modo di
pormi nei confronti dei poteri forti? Ed è per tutto questo che i loro amici
giornalisti ignorano e denigrano me così come fanno con Beppe Grillo?»
Lei ha altri esempi di contrastanti giudizi riferibili all’attività
dell’informazione?
«Certo. Il 21 febbraio 2013, un altro fatto. Dopo la richiesta di
assoluzione da parte dell’accusa, il giudice del Tribunale di Casarano dott.
Sergio Tosi, ha assolto Maria Luisa Mastrogiovanni per tutti e 12 i capi di
imputazione. Il fatto non sussiste. E’ la sentenza con la quale è stata
assolta dall’accusa di diffamazione a mezzo stampa la giornalista Maria
Luisa Mastrogiovanni, direttore del Tacco d’Italia. A portarla davanti al
Tribunale penale di Casarano, presidente Sergio M. Tosi, è strato Paolo
Pagliaro, editore televisivo salentino molto noto di Tele Rama, a sua volta
protagonista di alcune vicissitudini giudiziarie, ma come imputato. Proprio
queste vicende (l’uomo subì anche gli arresti domiciliari per un’inchiesta
della procura barese, il cui processo è stato stralciato dal troncone
principale nel quale è stato invece condannato l’ex ministro Fitto), insieme
ad una serie di irregolarità e stranezze nella conduzione della sua azienda,
costituirono l’oggetto di una corposa inchiesta di copertina de Il Tacco
d’Italia, andato in edicola nel dicembre 2005. La stessa sorte non è toccata
per Enzo Magistà e Antonio Procacci. Il gip di Bari Gianluca Anglana ha
disposto l’imputazione coatta per i giornalisti di Telenorba Enzò Magistà e
Antonio Procacci coinvolti nell’inchiesta scaturita dalla messa in onda del
filmato girato dalla polizia scientifica di Perugia che mostrava il cadavere
di Meredith Kercher. Meredith Kercher fu uccisa nel novembre del 2007 a
Perugia e, nella casa in cui viveva, fu girato un video dalle forze
dell’ordine per esaminare la scena del crimine che in seguito fu mostrato da
Telenorba, una emittente pugliese. Il gip ha invece archiviato le posizioni
dei familiari di Raffaele Sollecito, assolto in secondo grado dall’accusa di
omicidio volontario insieme ad Amanda Knox. Il pm di Bari aveva chiesto
l’archiviazione per tutti gli indagati perché «la diffusione di alcune parti
del filmato relativo al sopralluogo effettuato dalla polizia scientifica
nell’abitazione in cui venne rinvenuto il cadavere di Meredith Kercher – è
stato scritto nella richiesta di archiviazione – , nel quale viene ripreso
il corpo denudato della vittima, è avvenuto nell’ambito dell’esercizio del
diritto di cronaca senza alcun intento offensivo della reputazione della
studentessa uccisa». “Leso il diritto alla riservatezza ed alla tutela
dell’immagine della ragazza e, per lei, dei suoi familiari”. E’ scritto,
invece, in un passaggio dell’ordinanza con cui il gip del Tribunale di Bari
Gianluca Anglana ha accolto l’opposizione proposta dalla famiglia di
Meredith Kercher, la studentessa inglese uccisa a Perugia la notte tra il
primo e il 2 novembre 2007, con riferimento alla richiesta di archiviazione
per due giornalisti pugliesi che nel marzo 2008 mandarono in onda le
immagini del corpo nudo della vittima. Il giudice, nel disporre
l’imputazione coatta per Enzo Magistà, direttore di Telenorba, e per il
giornalista Antonio Procacci, ha respinto la richiesta di archiviazione
presentata dalla Procura di Bari in relazione ai reati di diffamazione a
mezzo stampa e violazione del codice della privacy. In particolare è
“pacifica la sussistenza dei requisiti della verità dei fatti
rappresentati”, secondo il gip, e “non sembra rispettato il requisito della
continenza nella esposizione del servizio”. Per il giudice, “risultano
obiettivamente raccapriccianti le immagini delle ferite” e “tali da turbare
il comune sentimento della morale”. L’inchiesta, nata dalla denuncia della
famiglia Kercher, è approdata a Bari dopo che, in udienza preliminare, il
gup di Perugia ha dichiarato la propria incompetenza territoriale. Il
procuratore di Bari, Antonio Laudati, nel luglio 2012, aveva chiesto
l’archiviazione del procedimento per tutti gli indagati (oltre Magistà e
Procacci, anche i familiari di Raffaele Sollecito), ritenendo per i
giornalisti “che gli stessi avessero agito nel legittimo esercizio del
diritto di cronaca” e per gli altri l’insufficienza di elementi per
sostenere l’accusa a dibattimento. Il giudice ha accolto la richiesta di
archiviazione per padre, madre, sorella e due zii di Sollecito, condividendo
le conclusioni della procura.»
Antonio Giangrande