Il difensore collaborazionista Analisi del giurista blogger Giovanni Cardona sulle mendaci affermazioni indotte dal difensore
La locuzione latina nemo tenetur se detegere esprime il principio di diritto processuale penale in forza del quale nessuno può essere obbligato ad affermare la propria responsabilità penale (auto-incriminazione).
Essa si articola in una facoltà omissiva (jus tacendi) per un verso; ed in una facoltà attiva (jus mentiendi: quest’ultimo non espressamente codificato ma, tuttavia, incontrastatamente riconosciuto) per altro verso.
L’ipotesi in esame è questa: l’avvocato può suggerire al suo cliente di mentire divenendone collaborazionista?
Di un certo peso é l’obiezione che, facendo leva sulla distinzione tra difesa materiale e difesa tecnica colloca il difensore, rigorosamente, in posizione settorialmente ed esclusivamente tecnica.
Materiale la difesa dell’imputato: tecnica la difesa dell’esercente la professione legale.
Sostanzialmente il legale deve collaborate alla giusta decisione.
Ma ognun vede come siffatte convergenti e significativamente puntualizzatrici proposizioni valgano nel settore della deontologia; e non già dello stretto diritto.
Alla stregua del quale il difensore fruisce dei “colloqui” con l’imputato ed ha diritto a mantenere il segreto professionale sul contenuto di essi: un contenuto cioè “materiale” e tutt’altro che “tecnico”.
Né si vede a che debba tendere la consulenza svolta nei “colloqui” assistiti dal segreto (che concernono sicuramente i fatti e la scelta delle linee difensive poggianti sui fatti) se l’attività del difensore dovesse esaurirsi nella lettura dei già incartati verbali e nell‘inquadramento tecnico giuridico dei fatti: pur al cospetto della consapevolezza che l’imputato assistito ha facoltà di non collaborare, tacendo; ed anche di mentire.
Incompleto, poi, sarebbe il discorso se non si aggiungesse che, al postutto, il principio del nemo tenetur se detegere ha i suoi risvolti — negativi per l‘imputato — nella insignificanza delle assertive a sé favorevoli, non convalidabili mediante giuramento proprio e nemmeno mediante richiesta di esperimento di ”lie detector” (in nessun caso ammissibile per il nostro diritto penale); nonché nel peso, assai grave, delle ammissioni, ovverossia dichiarazioni contra sé; nonché nel potere, di giustizia, di ricercare ed acquisire aliunde, con ogni mezzo legittimo, la opaca verità dallo jus tacendi e dallo jus mentiendi.
Né il compito del deontologo potrebbe essere affidato al giudice penale in un processo, come il nostro, in cui costantemente operante é il principio di stretta legalità.
Principio di legalità che impone non giammai l’interpretazione se una data condotta sia conforme all’etica, o al decoro professionale, o al costume; bensì solamente se la condotta sia conforme alla descrizione fattane dalla norma incriminatrice, ed in essa inquadrabile; e se sia munita di tutte le connotazioni della illiceità penale, venuta meno alcuna delle quali, il fatto resta come fatto acquisito alla certezza storica, si; ma come fatto che non costituisce reato.