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TAURIANOVA (RC), GIOVEDì 21 NOVEMBRE 2024

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Il “Finocchio di timpa” è prosperoso, vivo e lotta insieme a noi Quello che la morale non riesce a spiegare, lo fa spesso e volentieri il denaro, un insieme di possibilità e di probabilità dove ogni moralista è come” ogni scarrafone è bello a mamma sua”

Il “Finocchio di timpa” è prosperoso, vivo e lotta insieme a noi Quello che la morale non riesce a spiegare, lo fa spesso e volentieri il denaro, un insieme di possibilità e di probabilità dove ogni moralista è come” ogni scarrafone è bello a mamma sua”

L’ontologia del “finocchio di timpa” è quasi sempre associata al concetto della morale, ma spesso è volentieri specie nel Mezzogiorno è associato a determinati personaggi che “pretendono” troppo e lo fanno spesso e volentieri con l’arroganza di un pulpito retto da fondamenta presi dal tarlo o peggio dalla procustiana attività di chi fa della morale un insieme di un amplesso da bradipo e una mantide in menopausa seduta sopra una sedia ai bordi di una strada in cerca di piacere.
Quello che la morale non riesce a spiegare, lo fa spesso e volentieri il denaro, un insieme di possibilità e di probabilità dove ogni moralista è come” ogni scarrafone è bello a mamma sua”.
Questo fenomeno è stato ben descritto da Umberto Eco a proposito dei social, ma è una “piaga psichiatrica” che si riscontra nella realtà di tutti i giorni. Ma poi l’analogia finisce dove il finocchio di timpa nasce, ovvero nelle colline o in quei dirupi solitari come eremi in cerca di gloria per poi finire in qualche pasta con le sarde o in un insaccato che tendenzialmente prende il nome di “salame”.
Ciò si manifesta nei piccoli paesi dove la conoscenza collettiva è più viva che mai, dove chi nasce e va via è come se restasse, ce lo insegnò anche Cesare Pavese nei suoi racconti memorabili, ce lo insegna Andrea Vitali nelle sue storie a Bellano.
Ma attenzione i “finocchi di timpa” sono esempi di giudizi morali, di invettive contro chi non la pensa come loro e soprattutto utilizzano termini da “Marchese del Grillo”, dell’io so io e voi non siete un cazzo, la tendenza del giudizio sommario e la pedanteria del sapere, ma che poi si riduce a una vetrina di statue di cera pronti a sciogliersi al primo sole seppur stando in ombra.
E molto spesso gli obiettivi da colpire vengono definiti “popolino”, un termine quasi dispregiativo, ma che poi di questo termine un grande romanziere come Victor Hugo ne face un capolavoro. Il giudizio sommario simile alla lattuga in fiore con aggiunta di carciofo spinoso. Eppure quelli che disprezzano il cosiddetto popolino sono i “professionisti” che oltre alla loro professione fanno i “geni non guastatori (con nessuno)”, una nuova branca dell’artiglieria leggera da campo (e da lingua strisciante, battente e deretana). Potremmo raccontare di leggende che voi umani non capireste e “ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi: navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni”, dei piccoli paesi (sic!).
Loro si annidano come camaleonti in armocromia oscurante, elefanti dal passo felpato che bevono con bicchieri di cristallo, tra un orangotango e una “una cassiera con occhi da lupa e masticava caramelle alascane”, mentre “l’orchestra era partita, decollava”… dadadadadududididada…Boogie!
Quelli che non dicono nulla che stanno bene, non hanno bisogno di nulla se non far parlare gli altri delle loro ragioni, come una nuova corrente di pensiero contemporanea definita, “dissenteria 2.0” che è la stessa adottata dalla politica (locale, rionale, delle sagre e condominiale).
Le frasi tipiche sono, nate da una grande introspettiva culturale catartica e addominale, “Io non voglio parlare, ma se parlassi…”, stile Totò, Peppino e la Malafemmina quando Peppino De Filippo chiude ogni frase con “Ho detto tutto”, ma nei fatti non ha detto una beata cippa.
Poi ci sono i politici quelli veri che magari non vorrebbero guastarsela sia se comandano o che stanno dall’altra parte, tipico politico di calibro e tutto d’un pezzo è chi pronuncia, “Non parlo, altrimenti li compatto”, guardate che su questo ci sono studi approfonditi che partono dal tardo medioevo ad oggi e, nonostante le scoperte delle Americhe, ancora ci sono dei perché da esplorare anche in virtù del terrapiattismo sinaptico. O chi vorrebbe “salvare la flora e la fauna”, un tanto al chilo, con “la salvaguardia delle marvizze”, questi occupano finanche scranni alti delle istituzioni e c’è gente che utilizza la lingua come arma di appropriazione di massa per seguire queste perle di pensiero.
Perché in fondo il finocchio di timpa ha una sua scuola di pensiero che fa parte della vita sociale e sconfinando finanche nella politica, nelle professioni in un’eco che accarezza le violette, i cardoni in fiore e le banane in agrodolce.
L’etimologia del Finocchio di timpa si distingue nella tesi warholiana in quel famoso quarto d’ora di popolarità che alla fine resta solo un “coito interrotto” dove trova come scoglio arginante la cosiddetta dissenteria delle prugne sott’olio, molto utilizzata dal Conte Attilio del Manzoni.
Però vanno in chiesa, si battono il petto, tra un mea culpa e un padre nostro e chiedono perdono a quel Dio, molto paziente e quanta pazienza, dell’infinito.
E quindi, a gran voce diciamo, Viva il Finocchio di timpa, è vivo e lotta insieme a noi!