Il pronipote di Cambronne Al grido «“MERDE!” La Guardia muore ma non si arrende», un racconto tra il serio e il faceto del nostro giurista Giovanni Cardona
Quel processo che si celebrava in Corte d’Assise, era scaturito per una parola detta a sproposito dalla vittima che era stata immediatamente uccisa dall’imputato e che era diventato, a sua volta, e malgré lui, un assassino.
La gente — che stipava l’aula — sapeva che presto o tardi qualcuno può anche trovarsi ai polsi dei «braccialetti a incastro» e può anche finire nella gabbia degli imputati, ma che quel giovane dovesse finire i propri giorni in un ameno carcere per una sola parola mal recepita e per un sol colpo di rivoltella sparato con la stessa impulsiva dabbenaggine dal più incauto o sfortunato delle «dramatis personae», era un fatto così sconcertante e al limite della follia che un assurdo più assurdo di così in quell’aula non vi si poteva rappresentare.
Il difensore, ben piazzato nelle gambe e nei polmoni da combattente di prima linea qual era iniziò la sua curiosa arringa.
“Signor Presidente, signori della Corte, in questo processo si discute se una parola possa legittimare un assassinio e se questo assassinio sia degno di quella parola. Ebbene, una parola come quella pronunziata dalla vittima, mutuata — tanto per intenderci — da quella gridata dal Generale Cambronne a Waterloo contro gli inglesi, sia pure scoppiata in due momenti storici diversi, conserva lo stesso identico valore e lo stesso identico peso nell’economia dell’universo.
Signori, non scherziamo con le «parole»: esse hanno avuto ed hanno un valore così pertinente ai tempi che è materialmente difficile staccarsi da esse. Occorrerebbe scuoiare tutta la storia, ischeletrirla, dissanguarla se si volesse privarla delle parole che ne formarono e ne formano la polpa viva, il tessuto connettivo, l’anima essenziale. Il primo uomo delle caverne ha sentito rimbombare dentro di sé la prima parola e gli dovrà esser sembrata un tuono preparatore di tempeste. Con quella prima parola egli ha flagellato i secoli e i millenni, come un flutto poderoso flagella in continuazione gli scogli i porti i pontili… La parola, o signori, è una forza autentica della natura, com’è la luce, il suono, la pioggia, il terremoto e il maremoto…
E’ semplice dire: ma l’imputato non doveva uccidere! Sì, son d’accordo con voi, o signori, l’imputato non doveva uccidere; ma ha ucciso. Anche una voce gridata a mezza costa per l’alta montagna coperta di neve e di ghiaccio, fa rotolare la valanga e uccide coloro che vi si avventurano: eppure nessuno ha mosso la neve, nessuno ha smosso il ghiaccio… Anche il rumore basso e potente di un aereo fa staccare un pezzo di cornicione d’un palazzo di città — e del quale nessuno aveva avvertito prima l’insidiosa minacciosa crepa — uccidendo, così, il passante ignaro e designato dalla malasorte…
E poi, i personaggi di questo insensato dramma giudiziario son diversi tra loro per carattere, per educazione, per lignaggio, per cultura, come son diverse tra loro tutte le papille tattili di quelli che compongono il genere umano ed è estremamente significativo ciò che scrive Ralph W. Emerson: “Non cercare mai di far diventare un altro uguale a te stesso: tu sai, e Dio sa, che di persone come te ne basta una sola”.
Una parola non ha bisogno di nessun commento musicale o letterario: essa è nuda come la verità. La stessa menzogna è nuda ed è come la verità, o signori della Corte. La parola ha un suo strano fascino, produce un suo misterioso brivido, emana una sua invadente magia: perché forse affonda le sue radici in quell’humus ancestrale dell’uomo delle prime età del mondo, quando si esprimeva con guaiti, mugugni, urla e altri consimili suoni vocali, caratteristici del selvaggio, imbellettato poi dalla scienza e annaffiato dalla civiltà.
Forse voi non ci crederete, o signori, ma è certo che qualcosa di indefinibile e di inspiegabile risorge nell’uomo allorché ascolta la voce di un suo simile: quando gli scaglia contro una parola amara o disgustosa, feroce o tagliente, triste o obbrobriosa. Il ricordo sepolto della sua condizione di primitivo, la vecchia paura d’un’eco vicina o lontana gli possono sconvolgere le fibre più riposte dello spirito, possono farlo ritornare l’uomo della clava, gli possono contorcere e stritolare il suo stesso esistere…
I cimiteri son pieni, o signori, di gente che disse la sua ultima parola e la disse anche male!”
Ilarità nel pubblico, ilarità del Pubblico Ministero e ilarità dei giurati. Solo il Presidente e il giudice a latere, con la mano sinistra poggiata ciascuno sul proprio mento, continuarono, a dispetto della risata generale, a rimanere impassibili e pensierosi, guardando l’avvocato con occhi da civetta. Poi il Presidente ruppe il silenzio e disse: avvocato, se può, cerchi di abbandonare i cimiteri e rientrare tra la gente!
Altra risata totale del pubblico, con soddisfazione stavolta dello stesso Presidente e del giudice a latere, che tolse il braccio dalla cattedra e la mano dal mento, rintanandosi nella poltrona come per gustarsi l’ultima parte dello spettacolo.
Il difensore, ritto come il comandante su una nave non proprio in tempesta, continuò imperterrito:
“Signor Presidente, la parola è un demone cui dobbiamo, presto o tardi, tutti soggiacere. Con la parola abbiamo costruito la storia, così come voi costruite, con orgoglio e alto senso di responsabilità, la vostra luminosa carriera. Mi dite che cosa sarebbero stati Aristotele e Platone, Socrate e Gesù, Savonarola e Robespierre, Cola di Rienzo e Mussolini, Lenin e Hitler senza la parola? Poco meno che dei rigattieri, dei ciarlatani, degli imbianchini, degli straccivendoli. Quegli uomini hanno trascinato all’amore o all’odio, al terrore o alla violenza, all’esaltazione o al fanatismo, alla vita o alla morte perché usavano la parola come sprone, come arma, come scuola, come pugnale, come diana, come rivoluzione.
Cos’è avvenuto nell’animo del nostro uomo, l’imputato che difendo, o signori, perché costui all’improvviso si è tramutato in un assassino? Ebbene, perché quella parola, così ingiuriosa e distruttrice della personalità, se pronunziata da Cambronne lo trasforma in un eroe, se pronunziata dall’imputato di questo processo lo trasforma in un delinquente?
Giunti a questo punto non sarebbe possibile nemmeno più giudicare se non sapessi che i giudici siete proprio voi, aperti ai misteri della vita e della storia e che concederete all’imputato l’attenuante della seminfermità mentale.
Certo voi non scriverete nella vostra sentenza: l’imputato è malato, è disgraziato, tutto gli è andato male: va punito! Ma penso che scriverete piuttosto questo: l’imputato è mezzo malato, è mezzo disgraziato, tutto gli è andato male per aver ucciso un altro uomo: va compreso!
Nella mente di questo povero cristo che, sparando, ha tolto la vita a un altro essere umano vi è stato sempre il paradiso. Disse un giorno Toulouse-Lautrec: «L’inferno è nella mente del diavolo»! Il nostro uomo, quando ha sparato, poteva avere un diavolo per capello ma non l’inferno, o signori.”
Si avvertì nell’aula un brusio di ilarità a stento repressa.
L’oratore continuò: “Signor Presidente, certo è che l’automatismo psicologico mette in moto, certe volte, nel nostro cervello quella molla invisibile che altera la nostra personalità fino a farla diventare un mostro, come voi oggi considerate forse l’imputato. Ma egli un mostro non è. Succube di una parola mostruosa, da cui si e sentito improvvisamente schiacciato se non anche da essa annegato (ilarità del pubblico, nota d.r.), avrà mentalmente ripetuto, prima di sparare, le superbe parole del presidente Mathieu Molé, quando nel 1651 in una sommossa di Frondisti che erano entrati tumultuando nel suo palazzo, volle scendere nel cortile a udire i loro reclami pronunciando contro i rivoltosi pronti ad ucciderlo: «Il y a loin du poignard d’un assassin à la poitrine d’un honnéte homme!» Sì, signori della Corte, «vi è» veramente «molta distanza tra il pugnale di un assassino e il petto di un galantuomo», come giustamente dice Molé; ma chi ci dice che l’imputato ebbe a scambiare quella irripetibile parola per un pugnale che si stesse ficcando nel suo petto di galantuomo e volle allontanarne l’anatema sparando quel colpo mortale di rivoltella? L’imputato – che ha anche ucciso se stesso ma senza morire — non è certo un discepolo di Seneca che inutilmente ha dettato il precetto: «Se vuoi che tutte le cose si sottomettano a te, sottomettile alla ragione». Non c’è ragione che tenga, in casi simili, per frenare l’istinto belluino che è in ciascuno di noi, signori, e che riappare come un iguanodonte di giurassica memoria.
La vittima ha rischiato il tutto per tutto, pur consapevole, quando ha pronunziato la sua ultima parola. Voi pure pronunzierete le vostre in nome del Popolo e della Repubblica. Ma dite almeno che non solo la vita, tutta la vita è un rischio, che anche «Dio è un rischio» come ha intitolato uno dei suoi ultimi libri Giuseppe Prezzolini: dite che anche la parola, quando è oscura, quando è tribale, quando è tabù, quando è totem, è un rischio!”
A quel punto il presidente della Corte ebbe un mancamento, provocato da una sindrome convulsiva, compulsivamente determinata dalla crassa ilarità scatenata nella sua mente dalla retorica oratoria, cagionandosi l’immediata sospensione del processo e il necessario ricovero presso una idonea struttura riabilitante dell’intero collegio giudicante.