Il silenzio Considerazioni del giurista blogger Giovanni Cardona sul doveroso silenzio per esaltare la solennità della rinascita
Che cosa c’è di più grande della grande parola? Il grande silenzio.
Ma si è poi sicuri che nei vasti silenzi dell’infinito non vi sia una voce che parli?
Per quanto si possa essere orgogliosi di fronte al silenzio del semianalfabeta, altrettanto si è umili dinanzi al silenzio della terra.
Il silenzio di Dio e dei cimiteri: tutti i destini vissuti, tutte le nostre stesse illusioni, tutte le vittorie e le sconfitte sono là, raccolte nella pace leopardiana “delle bianche ali ”.
Veramente silenzio? O non esiste anche nel fremito dei cipressi il sussurro d’una voce che richiama dal vano affanno fugace all’eternità dei cieli immensi?
A che giova correre? a che giova sacrificare la bellezza all’utile? A che giova rinnegare l’eloquenza degli estesi silenzi ammonitori?
Non è il silenzio della morte e dell’esilio che fa la gloria di Dante? Le labbra di Beatrice suggellate nella bara, lo scendere e salire per l’altrui scale, quel silenzio del pianto muto sulla fredda pietra, quel silenzio che circonda il fuoruscito nel fragore di gente straniera.
E anche questi sono silenzi gremiti di voci; voci che vengono dal passato, quando s’ignora l’oscuro domani, voci che vengono dal domani a cui tende l’ultima speranza non ancora spezzata.
Vi è un silenzio che fascia nella sciagura, fermo da millenni, quello che succede all’irreparabile; è lo stesso che grava sul campo della mandria d’Abele come sul fiorire dell‘orto allor che Giuda tradisce col bacio senza parole, il silenzio che solo il frinire d’una cicala ha l’arbitrio di rompere.
Ma anche il frinire della cicala non è una voce eloquente?
Essa avverte che sempre si ricomincia, oltre il tradimento dell’orto.
A Roma e ad Atene, gli antichi adorano la parola, la gustano come il miele dell’Imetto, le assegnano una deità per ogni ritmo; ma, se si creano Suadela quale dea della persuasione, affidano a Calipso la custodia del silenzio.
E vi è un dio più antico, il dio egizio Horus che i Greci trasformano in Arpocrate e il cui simulacro Adriano fa trasportare a Roma, il dio fanciullo col dito sulle labbra, come si vede nel museo Capitolino.
Il bianco silenzio dei monti ellenici prescelti dai Numi. Il bianco silenzio delle montagne dell’Oeta e del Citerone, dove i pastori conversano con gli Dei.
Il bianco silenzio di tutte le montagne.
Ogni silenzio ha il suo colore.
Anche il silenzio parlò: parlò con lo scroscio delle onde tempestose.
Un altro infinito silenzio quello del mare: il silenzio dei navigatori che scrutano sulla tolda l’orizzonte. Il silenzio degli Argonauti.
Ma chi ha mai avuto l’eloquenza del silenzio? Non mai l’aula stipata parla come la stanza abbandonata.
Le chiuse stanze silenziose. “La prima stanza è deserta. La felicità d’una volta non vi lasciò che i coltelli affilati per dilaniarmi. La seconda stanza è deserta. Ci sono i libri della mia puerizia e della mia adolescenza. C’è il leggio musicale del mio fratello emigrato, c’è il ritratto di mio padre fanciullo col cardellino posato sull’indice teso“.
Così a Gabriele d’Annunzio, reduce dalla cattedra e dalle baldorie, parlava in quella stradella di Pescara il silenzio della disabitata casa paterna.
Non vi è eloquenza, non vi è musica che possano intendersi abolendo il silenzio, abolendo la pausa.
Vi sono concerti di Beethoven dove la pausa negli andanti con moto è essa stessa una nota musicale, è un silenzio di cui s’insaporano le note.
Anche l’amore ha bisogno della parola come del silenzio: delle serenate di Cirano sotto il verone di Rossana come della muta attesa di Francesca col libro galeotto.
Non vi sono mai silenzi eguali; e anche questo dimostra che silenzio e parola sono due atti dello stesso genio.
Come chiamate il silenzio del chiaro di luna?
E‘ l‘eloquenza di questo silenzio che in “Clair de lune” di Maupassant persuade l’abate Marignan, nel poetico incanto della notte, a perdonare la nipote uscita con l’uomo che ama: il silenzio lunare ha sempre gridato che l’amore ha i suoi diritti.
Forse la stessa orazione è tanto più alta quanto più profondo è il silenzio nell’oratore che si avvicina alla tribuna, lo sconcertante e tremante silenzio che sta tra l’ergersi e il parlare.
La parola ha schianti che il silenzio non ha, ma il silenzio ha sensibilità di cui la parola è priva.
Esso non è mai un equivoco: esso è sempre un’antitesi e non mai una transazione: esso è un fedele che si concede solamente a voi; voi non potete né verbalizzarlo né riassumerlo.
C’è sempre un’ora in cui, nelle creature che più hanno amato il chiasso, si fa un grande bisogno di silenzio.
C’è sempre un’ora in cui nelle anime che si sono votate alla parola, a raccogliere e a diffondere la più alta parola dell’arte, si insinua la necessità della quiete: Eleonora Duse, dopo aver fatto piangere col miracolo della voce le platee del mondo, vuol rifugiarsi nel silenzio della dolce campagna veneta.
E c’è un‘ora in cui anche il signore delle folle che passa nel fragore della parola, nella gioia del trionfo, nella consuetudine della vittoria aspira al silenzio, al silenzio per sé e per gli altri.
Il peccato, l’arte, il trionfo, dopo aver vissuto della parola, si ritrovano nella stessa speranza, la speranza del silenzio: una speranza eterna.
Perché anche questo bisogna dire: la parola è del giorno che ogni giorno tramonta, il silenzio è dell’eterno che mai non passa.
Ma l’una non è senza l’altro: la preghiera è parola, la meditazione è silenzio.
Auguri silenziosi di buone ferie augustae.