Karlsruhe e Francoforte: il futuro dell’Europa non si decide nei Parlamenti Di Domenico Battaglia
La sentenza del secondo Senato della Corte Costituzionale tedesca pronunciata il 5 maggio è una dura stoccata al futuro dell’Unione Europea, che di anno in anno sembra sempre più incerto.
Al contrario di quella italiana, la Legge Fondamentale tedesca ammette il ricorso costituzionale diretto da parte di chiunque lamenti che la pubblica autorità abbia violato i suoi diritti fondamentali. Un gruppo di economisti e accademici tedeschi ha esercitato questo diritto sostenendo – tra le altre cose – che il PSPP, l’intervento con cui la Banca Centrale Europea di Draghi ha scongiurato l’implosione dell’Eurozona, costituisce un finanziamento diretto agli Stati (vietato dall’art. 123 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea). Da ciò deriverebbero una serie di violazioni della Legge Fondamentale tedesca, con il corrispondente obbligo per il Governo federale e il Bundestag di intervenire al fine di ripristinare l’equilibrio costituzionale offeso.
L’accusa non è nuova, tanto che la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) era già stata chiamata a pronunciarsi. A fine 2018, in risposta a un rinvio pregiudiziale della Corte costituzionale tedesca, la CGUE aveva salvato la Banca Centrale Europea negando che il programma di acquisto di titoli di Stato stesse violando i trattati UE. Con una serie di fini argomentazioni giuridico-economiche, il secondo Senato ha aderito in buona parte a questa interpretazione, escludendo la violazione dell’art. 123 TFUE: il PSPP non costituisce finanziamento diretto agli Stati.
C’è un caveat però: il giudice tedesco esprime forti dubbi sulla proporzionalità delle misure ai sensi dell’art. 5 del Trattato sull’Unione Europea, paventando che la BCE abbia ecceduto il proprio mandato, formalmente connesso al mantenimento della stabilità dei prezzi. È stato quindi posto un ultimatum: o la BCE dimostra entro tre mesi che le misure del PSPP sono effettivamente rispettose del principio di proporzionalità o la Bundesbank è tenuta a uscire dal programma di acquisto, vendendo i titoli in suo possesso. È evidente che quest’ultima ipotesi sarebbe il colpo finale per il disegno europeo; innanzitutto è difficile immaginare un’azione efficace della BCE senza l’appoggio della Banca Centrale Tedesca. Ma, ancor di più, la sentenza sembra essere un attacco alla Corte di Giustizia UE e al primato del diritto dell’Unione.
Il Trattato sull’Unione Europea stabilisce chiaramente che è la CGUE a porre la corretta interpretazione del diritto UE; e, com’è pacificamente accettato, è il diritto UE a prevalere su quello degli Stati membri. Nondimeno, sentenzia la Corte Costituzionale tedesca, la CGUE si sarebbe pronunciata “semplicemente in maniera incomprensibile” con riguardo all’azione della Banca Centrale Europea e di conseguenza avrebbe agito “ultra vires”; in altre parole, a dire della Corte tedesca, ogni volta che l’interpretazione fornita dalla CGUE “si debba considerare arbitraria da una prospettiva oggettiva”, gli Stati membri potrebbero (rectius, dovrebbero) ignorarla, perché eccedente le prerogative garantite dai Trattati. Inutile a dirsi, le considerazioni sull’arbitrarietà “da un punto di vista oggettivo” sarebbero rimesse ai giudici nazionali, di fatto chiudendo fuori la CGUE dal suo compito interpretativo.
La cosa non è sfuggita né alle istituzioni europee né agli Stati membri: da un lato la Commissione ha reagito con una certa durezza alla sentenza, riaffermando il primato del diritto dell’Unione, dall’altro il Governo sovranista polacco (che sta affrontando delle procedure d’infrazione per aver gravemente intaccato lo Stato di diritto in Polonia) ha esultato ricordando i limiti dell’integrazione europea. Il ministro delle Finanze tedesco ha cercato di vedere il bicchiere mezzo pieno, notando come la Corte abbia riconosciuto la conformità delle misure all’art. 123 TFUE. Anche il ministro Gualtieri si è dimostrato abbastanza fiducioso della riuscita del dialogo tra BCE e Germania. Se così fosse, lo scontro giurisprudenziale verrebbe sterilizzato, almeno nell’immediato.
Quello che dovrebbe essere chiaro a questo punto è che il diritto non esiste né agisce in un vuoto, bensì influenza e risente a sua volta delle influenze di fattori non giuridici. Non è un caso che dopo la sentenza tutti abbiano rivolto lo sguardo al nuovo programma di acquisto della BCE da 750 miliardi di euro – il PEPP – varato in risposta alla crisi innescata dalla pandemia di Covid-19 e che per ora sta tenendo a galla l’Italia e gli altri Paesi deboli dell’Eurozona. In teoria la sentenza tedesca non riguarda affatto questo strumento. E tuttavia, in un Europa sempre più in affanno il rischio (per ora lontano) è che sia messa in discussione l’unica attuale e concreta reazione dell’Unione alla crisi.
Paradossalmente, questo potrebbe rafforzare l’integrazione europea: di fronte al pericolo che la BCE perda il proprio “bazooka” e che quindi gli Stati più fragili restino scoperti, i Paesi del nord potrebbero decidersi a rafforzare l’Unione in materia fiscale (o, chissà, ad accettare dei bond comuni europei). Ma al di là delle previsioni più o meno ottimistiche, in una certa misura bisogna ammettere che la Corte tedesca ha ragione: non dovrebbe essere compito, di Draghi allora e di Lagarde adesso, continuare con l’accanimento terapeutico su un’Unione moribonda. La discussione sul futuro dell’Europa non può essere affidata né agli istituti monetari né alle Corti costituzionali. Spetta al popolo, e di riflesso ai Parlamenti, dibattere e confrontarsi sul da farsi. Come per tutte le crisi, oggi viviamo infatti un’opportunità straordinaria per riformare in meglio gli apparati tanto interni quanto internazionali. Questo dipenderà dalla forza con cui ciascuno farà valere le proprie idee in tema di Europa e di democrazia. L’Unione Europea non può continuare a essere intesa come un corpo estraneo al tessuto democratico, in cui nel bene e nel male sono i burocrati e i tecnici a mandare avanti tutto imponendo le proprie regole da Bruxelles. Bisogna avere il coraggio di ammettere i successi dell’integrazione europea e i suoi fallimenti; di entrambi ce ne sono abbastanza per parlare a lungo e di entrambi si può fare tesoro per migliorare il progetto dell’Unione. Ma se non si riporterà l’Europa ai cittadini e i cittadini all’Europa si renderanno vane tutte le conquiste di democrazia e pace che abbiamo ottenuto in quasi settant’anni di cooperazione.