La bella morte Considerazioni del giurista blogger Giovanni Cardona sulla eutanasia
Nell’antica Grecia, stoici, sofisti ed epicurei discettavano della “morte facile” e della “bella morte “, volendo significare (diversamente da noi contemporanei) una morte affrontata dall’uomo in pienezza di coscienza, nella serena accettazione delle sofferenze senza la esasperata e inutile ribellione: privilegio questo di pochi, cioè dei forti, degli spiriti eletti, estremamente sereni e coscienti.
La “bella morte” si realizzava così nel superamento della sofferenza morale più che di quella fisica e non nella morte repentina.
Per i moderni, “l’eutanasia” ha acquistato un significato diverso e cioè quello di “soppressione pietosa”, omicidio giustificato dalla pietà e dall’implicito desiderio di morte della vittima sofferente.
Alcuni lo considerano addirittura un suicidio per commissione, per delega, per mano di terzi, un atto comunque che variamente considerato, rimane destinato a sollevare problemi di natura molteplice, storici, morali, religiosi, filosofici, giuridici, scientifici, sociali.
Quale significato ha – si chiedono alcuni – una sofferenza inutile, un dolore gratuito, un supplizio destinato a concludersi irrevocabilmente con la morte?
E rispondono che liberare un malato inguaribile dalle atrocità e dagli spasimi del male rappresenta un atto pietoso, che deve ottenere un riconoscimento morale e giuridico.
Polemiche antiche, che risalgono al famoso professor Barnard, il famoso ”trapiantatore” di cuori, colui che ha restituito la speranza a migliaia di cardiopatici.
Nel corso di una conferenza stampa Barnard annunciava di aver stipulato un patto con il fratello Marius (anche lui medico e membro del gruppo di specialisti cardiologi dell’Ospedale ”Groote Schuur”), secondo cui ognuno dei due avrebbe dovuto aiutare l’altro a morire qualora si fosse ammalato di un male inguaribile e non avesse la voglia di vivere:
“Non permetterò che si giunga a una situazione in cui uno di noi sia irrimediabilmente malato e abbia perso la volontà di vivere, ma non possa far nulla per porre fine alla sua vita”.
Sembra addirittura che il mirabolante cardiochirurgo abbia rivelato d‘aver facilitato la morte della propria madre suscitando non poche e violente reazioni nel mondo cattolico.
Tuttavia Barnard non può definirsi un fenomeno mostruoso.
Esistono autorevoli e non isolati precedenti, che affiancano le tesi da lui sostenute.
Nel 1919 Charles Binet-Sanglé pubblicava a Parigi “L’art de mourir”, in cui si dichiarava partigiano dell’eutanasia: “Lo Stato – egli affermava – è responsabile del dolore; spetta allo Stato di combatterlo, con la terapeutica se esso è curabile, e, se è incurabile, con l’eutanasia“.
Nel 1922, fu proprio la Russia il primo paese a codificare l’eutanasia.
L’articolo 143 del Codice Penale delle Repubbliche Sovietiche sanciva che “L’omicidio commesso per compassione e dietro sollecitazione dell‘ucciso è esente da pena“.
E la “Krasnaya Gazeta” riportava un’applicazione pratica di eutanasia su 115 bambini colpiti da sintomi di avvelenamento mortale, uccisi mediante fucilazione, per ordine della autorità di governo.
Intorno al 1960, un medico inglese, il dott. Hermann Sanders, fu processato per avere ucciso una ammalata di cancro iniettandole nelle vene 10 cc. di aria per liberarla dal dolore.
Fu questa l’occasione che consentì a un circolo britannico, la “Euthanasia Society”, di proclamare ad alta voce la necessità che l‘eutanasia venisse legalizzata, mentre in molti ambienti degli Stati Uniti si criticava la ferma protesta dell’Osservatore Romano contro l’Eutanasia, definita dalla Chiesa dottrina sconvolgente, moralmente inaccettabile, umanamente contraddittoria.
“Solo una forma di follia può ancora spiegarla, ma non chi riesce a conservare lucida coscienza e spirito vigile“.
La voce pastorale conserva ancora oggi la sua forza.
I tentativi delle minoranze che, puntualmente riemergono quando la cronaca registra il dramma d’una coscienza debole, sono destinati a rimanere, almeno per ora, più espressioni emotive, che si tenta invano di razionalizzare, che manifestazioni di pensiero degne di assurgere al rango di messaggi.