Di Michele Caccamo
Sulla spiaggia stanotte è il silenzio: ho davanti la costa siciliana, stesa e accesa di tensione come fosse la schiena dell’Oriente. Penso che con quell’isola siamo legati per le felci, e che basterebbe un battito d’ali per separarci.
Lo stretto di Messina è un covo di dolore, che anche la grande calma del mare sembra rappresentare un’insidia.
Fruscia come una brezza la memoria della mia resa, e quella di quanti sono rimasti seduti lasciando affogare la fiducia di un intero popolo. Di quelli che bastava una preghiera per salvarsi l’anima, lasciando indietro ogni volontà. Lasciando che i malavitosi facessero l’effetto del fantasma con lo spavento.
E mi tornano nel ricordo i grandi tumuli macchiati di sangue, le macerie luttuose in ogni famiglia, e senza farne mistero la nostra colpevole complicità.
È inutile ogni pompa partigiana davanti a questo universo: siamo trasvolati dalla sorte di Dio, ma pensiamo di poterne suonare le fila. Lo capissero gli uomini della mia terra, guarderebbero a questo etere infinito piuttosto che alla loro presunzione di essere titani. Non rimarrebbero con le orecchie abbassate, a oziare sulla nostra distruzione. Piegati come fossero i civili sconfitti, per caso scampati alla morte. Con le catene ad anelli ritorti messe ai piedi.
Ci difendiamo, stupidi quanto i fanatici, chiudendo il riccio, pecchì diri ‘ndi poi ma sentiri no. E non riceviamo gli allarmi per l’innocenza dei nostri figli. E guardiamo alle disgrazie altrui come fossero lontane, e per noi impossibili.
Per non ribellarci ci aggrappiamo finanche alla campagna, al restauro della vita contadina, e che noi potremmo vivere soltanto guardando le trecce possenti degli ulivi. Deboli, ignobili e traditori. Capaci di camminare su di una palla pur di non scegliere e reagire.
E penso, che è anche vero che ci hanno chiuso gli occhi con le regie passate nel tempo: francesi, piemontesi, democristiani, ‘ndranghetisti. Manti scuri nella luce del nostro cielo. E che hanno infilato dappertutto i fili spinati per circondarci. Ma penso che forse ci hanno fatto comodo, e che la nostra indolenza non è stata capace di svegliarsi. E che nessuno di noi ha voluto tenere gli occhi aperti.
E penso che neanche sapevamo vederci morti: mentre interravano i fusti tossici nelle montagne dell’Aspromonte, mentre davano il latte acido alla nostra terra; mentre seppellivano sott’acqua le navi e le scorie. E che quegli uomini erano dei cani, e che hanno fatto aprire il guanto alla morte. E hanno svegliato il cancro che dormiva, che adesso polverizza le sue imboscate nella Piana di Gioia Tauro o nel marchesato di Crotone.
E penso che neanche abbiamo visto i monti delle pulci che ci hanno impiantati nel cuore, e che simili alla cenere ci hanno soffiati via dalla nostra antichità nobile.
E penso che forse sì, a reggere la nostra vigliaccheria è stata anche la Storia.
La Calabria, così, è un errore.
E noi oggi viviamo come avessimo i ragni nel cuore, e le siringhe del contagio piantate ovunque: elettrici come i topi senza ragione; abbiamo le serpi nelle dita, e il sentimento di pietra.
Pur di non cercare la nostra forza viviamo come avessimo deciso di mantenere il contatto con il maligno.
E non ci rendiamo conto di essere polvere per le nostre strade, di avere ognuno un campanaccio per la regola di essere gregge. E tentiamo di rifugiarci nelle mancanze governative, nell’assenza dello Stato. E nella nostra impossibilità di contrastare un esercito di delinquenti: quando basterebbe un piscio solo e collettivo per annegarli. Bugiardi, conniventi, manutengoli. Siamo ignoranti, potendo essere geniali; siamo senza fantasia, potendo essere anarchici. Ma stiamo nelle nostre case, lasciando il futuro nel vuoto, e i nostri figli fasciati dall’incertezza.
Perché Dio ci hai fatti così aridi e coperti di malaugurio? E perché ci hai messi in mezzo a tutta questa gente che ancora pensa a uccidersi, come attingesse dal sangue un corteggio al potere?
Me lo chiedo: perché io da bambino le ho viste le anime volare fuori dal corpo, e le budella raccolte in un secchio davanti all’ospedale. Perché l’ho anche vista una mamma strofinare il seno nel sangue del figlio morto, per chiedere vendetta.
Me lo chiedo e forse per questo avrò i miei anni di purga, decisi dai miei conterranei che pur di non togliere gli scheletri dalle loro case mi accuseranno di ingratitudine e di un settarismo per me improbabile; li avrò da coloro che pensano che ovunque ci siano sacchi capaci di contenere le loro debolezze, e immaginano che tanto ci sarà sempre un eroe con i merletti alle dita che saprà addobbare ogni nostro dispiacere.
La Calabria potrebbe essere una terra divinata, non avesse le piattole nel cuore e le croci e le voci di sciagure. E tutti questi uomini morti mentre vivono.
No, non ho piacere di questa mia origine, di tutto questo coraggio corto.
E dico, perdinci, è così ignota la chiave del riscatto? Così difficile vestirsi di valore? Finirla con questa pronità?
Perché Dio hai fatto la Calabria fronzuta di segreti e paure, e così ambigua? Perché non hai ancora previsto il suo tonfo nelle acque del mediterraneo? Avessi la capacità del cemento armato io la seppellirei. Perché è inutile rimanga così.
Ma poi penso che ci basterebbe un pettine, e le nostre mani finalmente decise, per togliere con pochi colpi i grilli che ci saltano in testa.
Ci basterebbe un giunco nella schiena per rialzarci. Ci basterebbe diventare un coro, e metterci davanti alla vastità di questo mare per farci ascoltare senza bisogno di soffi nelle trombe. Ci basterebbe avere un sapore primaverile e una potenza enorme nel petto. Ci basterebbe essere capaci di scavare come le talpe nella nostra pessima volontà.
Ci hanno gettati, persone ancora vive, in questa muta e putrida esistenza; sapendo che la nostra sola reazione sarà sempre e solo una smorfia con il volto.
Gente di qua, provate a mettervi in bocca la voce di chi vi lascia: le sue parole di dannazione e sofferenza sono amore sacro. Non state agli angoli, non lasciate che poche persone reggano il vostro destino. Non è nella piazza della pigrizia che si formano gli avvenire. Correte ai ripari, purificate l’aria, alzate un sipario che sia definitivamente alba. Agite come aveste un incarico segreto per la salvezza della comunità. Uscite per le strade, con la bella vita negli occhi e un cuore magnifico e serio: con una nuova educazione per i giovani.
No, così rimanendo, non ho piacere di questa mia origine, la prenderei a bastonate.
Michele Caccamo