La Calabria e il sacrificio del maresciallo Antonio Sanginiti Il comandante della Stazione Carabinieri di Delianuova venne ucciso dalla ‘ndrangheta
In Calabria non si parlava ancora di ‘ndrangheta. Ne parlerà Corrado Alvaro nel 1955, ma era la stessa organizzazione che aveva martoriato e sottomesso, con violenza inaudita, la popolazione dei paesi dell’Aspromonte, della città di Reggio Calabria, dei paesi della Costa Jonica e Tirrenica. Anche i Carabinieri, presenti su tutto il territorio, furono esposti a violenze e uccisioni, pagando con la stessa vita la fedeltà al giuramento prestato. Così recita un riconoscimento conferito ad un eroe e martire dell’Arma: “Comandante di Stazione, già distintosi in precedente operazione, animato da alto sentimento del dovere e spirito di sacrificio, perseverò in difficili e laboriose indagini ed in gravosi prolungati servizi per la cattura di pericolosi banditi, che infestavano la zona. Fatto segno, proditoriamente, da due di essi, asserragliati in una capanna, a raffiche di mitra e colpi di pistola, seguiti da lancio di bombe, sostenne, a capo di un drappello di dipendenti, aspro conflitto, durante il quale, con sereno sprezzo del grave pericolo, si portò a distanza di circa tre metri dalla capanna, persistendo, audacemente, nell’azione di fuoco, finché i delinquenti caddero con le armi alla mano. Venne assassinato a tradimento, dopo circa due mesi, dal fratello di uno degli uccisi”. Fu questa la motivazione con cui il Generale C.A. Alberto Mannerini, Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri, il 22 ottobre 1951, tributò, alla memoria, come prima attestazione di merito, l’Encomio Solenne al Maresciallo d’Alloggio Antonio SANGINITI, ucciso dalla ‘ndrangheta per vendetta.
Antonio Sanginiti, cl 1910 da Petrizzi (CZ), iniziò la sua carriera a Delianova (RC), dove il destino volle che la finisse. Aveva servito lo Stato e l’Arma dei Carabinieri, quale Comandante della Stazione di Delianuova (RC), con grande senso dell’Onore Militare, meritandosi l’incondizionata stima della popolazione e dei superiori gerarchici. Sanginiti, la mattina di sabato del I settembre 1951, seppur in licenza, in compagnia di conoscenti, era seduto a un tavolo di fronte al caffè Loira, nei pressi dell’Ufficio postale, sul Corso Umberto I di Delianova. Verso le ore 10:00 comparve Angelo Macrì, giovane incensurato, fratello di Rocco e Giuseppe, arrestati dal Maresciallo Sangeniti nei primi mesi del 1951, e di Gianni, caduto in conflitto a fuoco con i Carabinieri il 3 luglio dello stesso anno. Senza farsi notare, il Macrì, con azione fulminea, pistola in pugno, indirizzando l’arma, una Beretta calibro 9, a braccio teso, contro il Maresciallo Sangenti, sparò quattro colpi a bruciapelo. Il Sottufficiale, attinto alla regione toracica, senza alcun lamento, per le gravi ferite riportate, si accasciava a terra. L’assassino fece pochi passi indietro, manifestando un senso di disprezzo verso la sua vittima e, a passi lenti, si dileguò per i vicoli circostanti con l’intento di raggiungere l’Aspromonte.
A un giovane, che gli veniva incontro domandandogli cosa fosse accaduto, disse con fermezza: “Il Maresciallo non mi chiamerà più in caserma! Per lui è finita. E finirà presto anche per qualche altra carogna”. Superati i primi momenti di sbigottimento, l’Avv. Lombardo, il Sindaco di Delianova, l’Ing. Frisina e il Dott. Leopoldo Greco, tentarono di soccorrere il Maresciallo agonizzante. Ma non ci fu nulla da fare: senza un lamento Sanginiti reclinò il capo nello spasimo della morte. Il Macrì aveva applicato la “sua legge”, la legge della ‘ndrangheta, della latitanza, della malavita, della vendetta contro il Sottufficiale dei Carabinieri che aveva contributo all’azione di bonifica sociale in un territorio in cui l’”Onorata Società” dominava da padrona incontrastata. Volle compiere la sua personale vendetta contro Sanginiti, mentre a Polsi c’era festa, per l’uccisione del fratello Giovanni, fuorilegge sanguinario ucciso durante un conflitto a fuoco con i Carabinieri. L’anello della lunga catena sporca di sangue (otto delitti erano imputabili ai fratelli Macrì) non era finita.
In Aspromonte, sui Piani di Carmelia, Macrì raggiunse un pastore, considerato confidente dei Carabinieri e responsabile dell’uccisione di suo fratello. In pieno bosco, sotto una tettoia di ramaglie, dove era stato allestito un posto di ristoro per i pellegrini di passaggio diretti al Santuario della Madonna della Montagna, rintracciò il Papalia, davanti alla tavola imbandita in compagnia di suoi amici e di alcuni pellegrini che sostavano per un breve riposo. Francesco Papalia, di quarantasette anni, non aveva avuto mai a che fare con i Macrì. Appena scorse il giovane, lo invitò a sedersi, ma ebbe un netto rifiuto. Il Macrì gli chiese un bicchiere d’acqua e gli disse di continuare a mangiare: “perché non aveva fretta e poteva ancora attendere per regolare quel conto”. Papalia comprese, dall’atteggiamento risoluto del Macrì, che stava per morire. Fu un attimo. Estratta la pistola, esplose immediatamente a bruciapelo sette colpi contro il pastore, che piegò la testa sul petto cadendo fulminato. L’assassino chiese scusa, con atteggiamento spavaldo, ai presenti “per il disturbo che aveva loro arrecato” e si allontanò per un viottolo tagliato nel fitto di un’abetaia. Fatti alcuni passi si voltò indietro e disse a quelli che gli erano più vicini: “E due! C’è ancora un terzo che scoverò ad Acquaro”.
Macrì, il futuro “re dell’Aspromonte”, quando uccise il Maresciallo Sangeniti e il pastore Papalia, aveva appena diciannove anni, nonostante i suoi fratelli maggiori avevano cercato di lasciarlo fuori dalla malavita. La notte del 3 luglio 1951, il Maresciallo Sangenitie i suoi militari, in contrada Cammarella, a quota 1200 metri, localizzarono una casupola di sassi, ricoperta di fascine e di terra, dov’era il nascondiglio di Gianni Macrì, l’ultimo dei fratelli rimasto latitante. I Carabinieri, avvicinatisi al capanno, ingaggiarono conflitto a fuoco nel quale perirono Gianni Macrì, che impugnava un mitra, e Leo Palumbo, suo favoreggiatore. Angelo Macrì era molto legato a suo fratello Giovanni, i più piccoli della famiglia, cresciuti insieme. La mente di Angelo fu ottenebrata dalla “diceria”, subito sparsasi per il paese, che Gianni era stato trucidato nel sonno e che era stato tradito da un delatore. Da qui il tragico regolamento di conti avvenuto il primo settembre successivo davanti al caffè Loria.
Per i due omicidi, i Carabinieri arrestarono venticinque persone per associazione a delinquere, poi scagionati per mancanza insufficienza di prove. Il Giudice Istruttore di Palmi, con sentenza del 3 marzo 1955, prosciolse i Carabinieri da ogni accusa, avendo aver usato legittimamente le armi nello scontro a fuoco con Giovanni Macrì e Leo PALUMBO, rinviando a giudizio Angelo Macrì, latitante, per duplice omicidio premeditato e aggravato nei confronti del Maresciallo Antonio Sanginiti e il pastore Francesco Papalia. Angelo Macrì, soprannominato “re dell’Aspromonte”, lasciò la Montagna e, attraverso la Francia, raggiunse gli Stati Uniti dove, a Buffalo, venne catturato. Di lui rimarrà una terribile leggenda.
Il Presidente della Repubblica, Senatore, Luigi Einaudi, in data 16 ottobre 1954, conferiva al Maresciallo Sanginiti Antonio la Medaglia d’Argento al Valor Civile, riconoscendo l’atto di coraggio, nonché l’ammirevole esempio di abnegazione e di attaccamento al dovere, avendo ingaggiato, con il latitante e con il suo favoreggiatore, aspro conflitto a fuoco, conclusosi con la morte dei due malfattori. I figli dell’Aspromonte e di Delianuova non vogliono dimenticare Antonio, né la sua famiglia, rinnovando idealmente con lui l’Onore Militare, lo stesso che lo spinse sino all’estremo sacrifico.