La commedia delle leggi Considerazioni del giurista blogger Giovanni Cardona sul raffronto tra commedia e legislazione
E‘ un paradosso che la ricerca della giustizia sia affidata a un condannato?
Una risposta potremmo cercarla in un episodio letterario che ci porta agli inizi del seicento, al secolo dell’inquisizione: “Misura per misura” di William Shakespeare.
Grande poema indefinibile, grande opera di teatro inclassificabile, questa che è troppo tragica per essere commedia e troppo ironica per essere tragedia.
Vi troviamo in tutta la sua centralità, appena camuffato dagli esangui e puerili amori che sorreggono la trama, il problema dell’ordine e della misura del mondo.
In una Vienna scalcinata e decadente il Duca, stanco di una città ormai abituata alla troppa libertà ed adusa alla clemenza, decide di allontanarsi per qualche tempo dalla scena politica, lasciando i compiti di governo al più integerrimo dei propri consiglieri: “l’abbiamo eletto a sostituirci in nostra assenza, gli abbiamo prestato il nostro terrore.” E non c’è ancora Hobbes a suggerire le parole a Shakespeare… C’è, però, Montaigne con quella sua disincantata visione di un mondo dominato da leggi che “hanno credito non per il fatto che sono giuste, ma per il fatto che sono leggi“.
Passato lo scettro avviene di tutto: il “terrore” ceduto dal Duca si abbatte a caso, incarcerando e condannando a morte per un nonnulla, mentre proprio l‘incorruttibile detentore del potere si rivela una bestia lussuriosa, pronta al ricatto, alla corruzione, all’assassinio pur di soddisfare i propri desideri.
E poi abbiamo fratelli che invitano le sorelle a prostituirsi, amici che si tirano indietro nel momento del bisogno, donne disposte a tutto per riconquistare la “posizione perduta”: il trionfo dell’ipocrisia, del pregiudizio, della maldicenza, di ogni tipo di canaglie.
Infine, come in ogni commedia che si rispetti, ritorna il duca a mettere le cose a posto. Sennonché la misura a cui riporta l’ordine della città non ha senso: premia gli ingiusti e punisce i giusti; giustifica il male e quasi lo esalta; ignora il bene e quasi lo irride.
Il male esiste, lo vediamo, lo tocchiamo, possiamo misurarlo, sembra suggerire Shakespeare: l’uomo pratica l’ingiustizia e quindi ne ha la misura, può allungarla e dilatarla a suo piacere, può contrapporre “misura a misura”, ma la giustizia dove sta? Chi la vede?
La vita è una presa in giro, i tribunali sono una messa in scena.
Pessimismo, sarcasmo, ironia?
Shakespeare sembra anticipare quella dissoluzione del mondo occidentale che sarà poi, proprio ai nostri giorni, perfettamente rappresentata da quell’altro grande indagatore della giustizia, forse il più acuto del nostro secolo che è Durrenmatt.
Tutto è in vendita nella città di Gullen in cui torna la “vecchia signora” per perpetrare la propria vendetta: “L’umanità signori miei, è fatta per le borse dei milionari; con il mio potere finanziario ci si può permettere un ordinamento del mondo. E siccome il mondo ha fatto di me una puttana, adesso io ne faccio un casino. Decente è solo chi paga, ed io pago…“.
Trovatemi il prezzo e vi darò la misura del mondo!
La parabola si conclude: non ha senso mettere in scena il mondo perché il mondo è una messa in scena.
Per questo non siamo più capaci di tragicità.
Possiamo leggere Sofocle come Shakespeare, ma solo per dar luogo a grotteschi stereotipi con cui classificare dolori di testa e pruriti esistenziali: il complesso di Edipo, il dubbio amletico.
L’unica possibilità che rimane è la commedia, la farsa, la necessità di prendere sul serio e l’impossibilità di prendere sul serio l’uomo.