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TAURIANOVA (RC), SABATO 14 DICEMBRE 2024

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La lunga notte di Obama

La lunga notte di Obama

| Il 10, Nov 2012

Editoriale di Bartolo Ciccardini

La lunga notte di Obama

Editoriale di Bartolo Ciccardini

 

 

Ho seguito la lunga campagna elettorale di Barack Obama con distacco e con serenità.

Sono un appassionato di storia politica degli Stati Uniti d’America. Sono un cultore delle vicende elettorali della più antica democrazia moderna, la democrazia americana. Considero l’avvento di Obama alla Presidenza il fatto nuovo di questo decennio: l’emergere di un paese guida a base multietnica e multiculturale, diverso dall’America dei Padri Costituenti e dall’America potenza mondiale impegnata per tre volte nel secolo XX° a salvare l’Europa dai suoi fantasmi. (Alludo alla prima guerra mondiale che non sarebbe stata vinta dagli alleati senza l’intervento americano, alla seconda guerra mondiale contro il fascismo, ed infine alla guerra fredda che impedì al comunismo di conquistare l’Europa).

Il Presidente Obama può anche essere stato un mediocre Presidente, limitato da un Congresso nemico, intimidito dalla sua stessa aspirazione a raggiungere un accordo bipartisan che i suoi nemici non gli avrebbero mai concesso, paralizzato da una crisi economica lasciatagli in eredità dall’incosciente Presidente che lo aveva preceduto. In questa situazione, obiettivamente difficile, le sue capacità di guida e di mediazione non hanno raggiunto grandi risultati, ma tuttavia il solo fatto di essere il Presidente di un’America totalmente diversa dall’America di Roosvelt e dall’America di Kennedy, è stato un evento storico di tale importanza da non poter essere cancellato.

Il messaggio vero della presidenza di Obama ha colto nel segno quando ha suscitato un consenso mondiale ed una serie di sommovimenti, che è stato difficile giudicare nell’arco di quattro anni. Il discorso del Cairo ha indicato una strada nuova all’Africa e ha sollevato le speranze di autogoverno del mondo islamico. Il metodo colloquiale di trattativa nel Medioriente ed in Asia, l’interesse accorto ed accorato alle vicende della crisi europea, avevano già segnalato la novità di un Presidente globale, che aveva la cultura necessaria per fare una politica planetaria.

Invece la campagna elettorale si è svolta sui temi importanti, ma geograficamente limitati, della crisi economica, di cui Obama non era responsabile, e sul risentimento profondo di un’America tradizionale, provocato da nobili motivi di amore per la propria tradizione, ma anche da meno nobili rancori dettati dalla inconfessata paura di un sopravvento di nuove etnie e di nuove culture. Di qui l’accusa irrazionale ad Obama di non essere cittadino americano, di essere statalista, di essere socialista, di essere comunista, di essere islamista. Sarebbe stata più sincera e più liberatrice l’accusa franca di essere “nero” e per di più “nero africano” di seconda generazione e non “nero americano” di sesta o settima generazione.

L’America ha avuto il suo attacco di allergia forte, che ha dato luogo ad una campagna elettorale dura, concitata e passionale, quale non si era vista da tempo.

Ma io, nel mio profondo amore per la democrazia americana, avevo sottovalutato questi aspetti ed avevo dedicato poca attenzione ad uno scontro elettorale in cui credevo che il Presidente uscente avrebbe facilmente vinto.

Per questo dopo una noiosa partita di Champion’s League (fra un improbabile Milan in crisi berlusconiana ed uno sconosciuto Malaga), ho acceso, per dovere di giornalista, i rituali salotti elettorali di Vespa e di Mentana. Ho trasalito.

Mi sono accorto che qualche cosa non andava ed ho improvvisamente temuto che Obama avrebbe potuto perdere. Tutto stava ad indicare che la forte rincorsa di Romney si sarebbe trasformata in un uragano. I dati degli Stati favorevoli ad Obama stentavano a venire, mentre giungevano, gonfi di alte percentuali, i dati degli Stati tradizionalmente favorevoli ai repubblicani e quindi a Romney. Negli Stati democratici Obama superava faticosamente il pareggio. Negli stati repubblicani Romney aveva proiezioni con medie altissime. La vittoria nell’Ohio, stato strategico particolarmente curato da Obama, non maturava. E la piccola maggioranza di Obama in Florida si trasformava in piccola maggioranza di Romney. La Pennsylvania e la Virginia sembravano perdute ed incominciava intanto la lunga sequenza dei piccoli stati delle praterie, tutti tradizionalmente in mano ai repubblicani.

Per alcune ore ho avuto paura che Obama avesse perso.

Non mi spaventava la personalità conservatrice del candidato repubblicano, né quel residuo di isolazionismo in politica estera che lo portava a giudicare la Russia e la Cina come nemici tradizionali, gli interventi bellici come esercizio del potere imperiale americano, e la risposta dura di Netanyahu come cosa da approvare. Spiego il perché: la Presidenza degli Stati Uniti non è un potere autocratico che possa fare o disfare a suo piacimento. È soprattutto il punto di equilibrio di una serie di strutture autonome, efficienti e preparate che mantengono inalterati i presupposti di ogni politica. Altra era la mia paura, fondata sulla qualità del potere che avrebbe retto la politica mondiale. E per dirla in parole da titolo di giornale: “Quale sarebbe stato il principio ispiratore dell’Impero Americano nel secolo XXI°?”.

La rancorosa, irata e determinata reazione della pur nobile tradizione americana bianca, anglosassone, monoculturale ed autoreferenziale, a quale impero avrebbe dato origine?

E che fine avrebbe fatto il tentativo di interpretare la forza della democrazia come proseguimento dell’azione unificante, federale, democratica ed anticoloniale che aveva fatto nascere l’America?

A poco a poco le luci del mattino hanno disperso questi timori. All’alba, quando ancora Ohio, Florida, Virginia non erano stati assegnati, la vittoria in Pennsylvania, New Hampshire, Iowa, Nevada, Colorado, ha chiuso la partita.

Obama manteneva i suoi stati, vinceva nel numero dei delegati e poi, pian piano, si riappropriava della maggioranza, benché minima, del voto elettorale. Non una vittoria, ma un segnale che il suo esperimento poteva continuare.

Sono andato con la memoria a quel ragazzo che, in un piccolo cinema di una piccola città bombardata, vedeva i film di Frank Capra che non aveva potuto vedere sotto il fascismo. Un ragazzo che si innamorava della democrazia americana dei giovani James Stewart e Gary Cooper. Mi venivano in mente le lezioni di un signore italo americano, amico di Sturzo, che durante la Resistenza ci affabulava sui valori della democrazia americana. Mi sono sempre entusiasmato fin dai tempi di Kennedy per quella immane cerimonia irriducibile e festosa che sono le primarie. Ed allora, ho pensato all’effetto che poteva avere in un mondo attonito e stupefatto, la figura del cittadino Romney che dice al suo nemico: “Io pregherò per te”. E la preghiera del vincitore: “Che Dio vi benedica e benedica l’America!”. Ed anche io ho pregato con loro: “Dio benedica l’America!”.