La precaria bellezza dell’umanità dell’uomo di Dio Riflessione di don Leonardo Manuli
Mi sembra opportuno fare una premessa, consapevole della convenienza o meno dell’argomento – forse non offrirei una riflessione critica e obiettiva – a parlare del prete, da un lato con il rischio di “portare acqua al mio mulino” (cicero pro domo sua), dall’altro, eccessivamente critico, perché vivendo all’interno si ha contezza di alcune dinamiche e tensioni, con un’esperienza diversa rispetto a chi osserva dall’esterno. Ogni generazione narra la propria visione della realtà e della storia. Nel caso del prete, rimarrà sempre quel sottile “mistero” sulla “vocazione” di questo “uomo di Dio”. Impastati in un immaginario culturale, religioso e sociale oggi “pluralistico”, contaminato da etichette e da ruoli, a causa anche di un mancato rinnovamento culturale del tempo che cambia, chi è davvero il prete? Qual è la sua identità? Le aspettative verso il prete rimangono sempre alte.
Al centro del gossip, oggi su scala glocale, le incoerenze e gli scandali abbassano il gradimento, anzi fanno audience per le incursioni mediatiche. Intorno a lui vi è sempre una curiosità, a volte malsana, incapace di cogliere il segreto di una scelta, che oggi sembra anacronistica e impossibile da comprendere. Piuttosto che aggredire la figura “sacrale”, meglio scoprirne le cause del calo di “consenso”, di fronte ad una società distratta e superficiale, poco attenta alle “cose dello spirito”, al quale il prete è impreparato innanzi alle sfide culturali e sociali che si trova ad affrontare, a volte lontano dalla vita quotidiana del popolo e dai problemi del territorio.
Gli si chiede tanto da lui, esperto con i giovani e vicino alle famiglie, attento ai membri più anziani della comunità, solidale con i poveri e buon osservatore delle dinamiche sociali, giocherellone e possibilmente dotato di un po’ di fashion. Il prete soprattutto deve essere uno con le spalle larghe, tali da portare il peso di tutta la parrocchia, un uomo da leadership, senza autoritarismi, anche se abituato alla gerarchia: “Io sono il parroco!”, “Io sono il vescovo!”. E il laico? Il battezzato? Nonostante i fedeli frequentino la comunità e la parrocchia, – oggi sempre più esigui – essi non hanno un’idea chiara dei “consigli evangelici” che il prete è chiamato a vivere con gioia. Cosa significano alla cultura di oggi la castità, la povertà e l’obbedienza? Sono ancora attuali? Il celibato è ancora possibile? Lo stile di vita del prete corrisponde alla piacevole potenzialità dei beni che offre il mondo? La testimonianza del prete non sta nell’autorealizzazione o nell’autodeterminazione di sé stesso, ma nella libertà e dedizione radicale nel quale i “consigli evangelici” divengono una componente fondamentale nella sequela radicale di Cristo.
Il prete è “l’uomo di Dio” a servizio del suo popolo, ma è anche l’uomo non “arrivato” che sperimenta una maturità umana in continuo sviluppo. Non è un uomo solitario, anche se la sua solitudine lo aiuta a rientrare in sé stesso. In una società “desacralizzata”, supertecnologica ed efficiente, direi post-umana, dove il corpo e l’affettività hanno assunto una componente importante e la dimensione spirituale è stata accantonata per dare spazio ad altre spiritualità, c’è ancora bisogno del prete? E poi, perché la donna non può ricevere il sacerdozio? Accennavo alle cause per il quale a volte c’è una percezione verso il loro ruolo troppo enfatizzata, di vedere in esso un “superuomo” oppure di incasellarlo in modelli rigidi e incapaci di andare oltre. L’identità del prete non dipende dalla sua leadership o dalla sua performance, ma di aver trascurato un aspetto importantissimo per la sua “riuscita” e “realizzazione”: “Il prete è prima di tutto un uomo che ricorda all’uomo Dio”. Fa difficoltà considerare questo, perché la dimensione dell’incarnazione fa problema. È la “regione più sensibile” e critica per considerare la “crisi” del modello mai esistito del prete perfetto o ideale.
Oggi l’immaginario culturale è chiaro sia cambiato, anche se ancora il prete riveste un ruolo “istituzionale” e di “rispetto”, la profezia non sta solo nell’essere “poveri” o più dediti alle “cose dello spirito” quanto nel divenire quel “lievito” che deve far fermentare tutta la pasta. Egli è sempre sotto esame, in un mondo diventato ostile, fuori e dentro. Come guardiamo il ruolo del prete? Missionario? Sociale? Spirituale? Dotto in teologia e nelle scienze profane? Ecumenico? Un visionario che fa uso del telescopio e crede ancora nell’aldilà? Uno stratega della pastorale? Per alcuni, egli opera in un ambito lavorativo come tutti gli altri, carrierista e arrampicatore per il potere, dove si è imborghesito, pagato “profumatamente”, e non se ne fa un mistero. Il pericolo del prete non sta nel fatto che sia o no aperto troppo al “mondo” oppure se stia sempre chiuso in “sagrestia” circondato e baciato dai suoi più fedeli collaboratori. Ritengo, tout court, che egli è in formazione continua, sia intellettuale che spirituale, umana e pastorale, dove gli apprendisti (seminaristi), quando sono selezionati con cura, dove occorrono competenza, coraggio, disciplina e soprattutto vocazione, possono rinnovare la chiesa e la società, per affrontare le sfide del momento presente senza perdere di vista il cuore della missione da trasmettere all’uomo e alla donna di oggi.