La verità al malato oncologico Analisi del giurista blogger Giovanni Cardona sugli aspetti giuridici, etici e medici del consenso informato
Il consenso informato del paziente o di chi ha diritto di esprimerlo in sua vece – a parte i difficili casi di “stato di necessità” ovvero di più ampia “necessità medica”, che sono oggetto di controverse opinioni – è diventato, negli ultimi anni, un problema sempre più complesso.
I medici, che nel passato ne hanno poco sentita l’esigenza deontologica e giuridica, oggi ne hanno preso coscienza – anche attraverso codici deontologici più puntuali – e nel contempo lo riguardano con apprensione dall’interno di quel girone nel quale il contenzioso giudiziario li ha immersi in un clima di sorpresa, di timore e di sofferenza crescenti.
La verità al malato oncologico, e quindi la sua informazione per poterne avere il consenso ai procedimenti ed alle cure, è stato, e continua ad essere, uno degli aspetti più cruciali del problema, cui molto si deve dell’attualità del dibattito, che si incentra sul ricordo, la riproposta ed il riesame interpretativo delle norme fondamentali – ed anche delle teorie – che concernono la liceità del trattamento medico-chirurgico ed anche i precetti contenuti nei codici deontologici.
Si tratta senza dubbio di un aspetto primario della professione medica perché riguarda le radici del consenso sociale, oltre che individuale, ad una attività peculiare, com’è quella medico-chirurgica, delegata in regime di monopolio ad una classe di professionisti cui la laurea in medicina e l’abilitazione all’esercizio professionale permettono prestazioni spesso molto rischiose sul corpo e sulla mente di tutti gli altri cittadini.
Il consenso sociale alla medicina non è stato messo in discussione ed è anzi accresciuto negli ultimi decenni, ma si e accompagnato a condizioni più rigorose poste ai medici.
Ed è un equilibrio molto instabile potendosi incrinare facilmente nei casi di insuccesso, o di maggior danno, sfociando in denunce penali e civili contro i medici ed in “processi” anche più dannosi, “processi” contro di essi celebrati quasi quotidianamente dai mezzi di comunicazione davanti all’opinione pubblica: che appare sempre più sconcertata, non di rado indignata, ossessionata com’è dal vero o presunto rischio incombente della cosiddetta “malasanità”.
Negli ultimi anni la violazione dell’obbligo del consenso – obbligo cui in un passato non lontano il medico ha ottemperato e tuttora ottempera in forma spesso implicita ed inespressa, altre volte oralmente e con sommarie informazioni, oggi più frequentemente in forma scritta – è diventata una delle cause su cui si fondano processi penali e civili e che talora possono comportare addirittura l’imputazione per reati dolosi.
Nello studio di questo problema sarebbe invero facile sostenere la risolvibilità attraverso la prassi di un sistematico consenso scritto, con moduli in cui vengano inserite tutte le informazioni concernenti le ragioni del trattamento diagnostico o terapeutico prospettato al paziente e, soprattutto, i rischi cui egli può andare incontro.
Ma una riflessione che intenda andare nel profondo ed esplorare più seriamente la complessità dei fattori in gioco – senza limitarsi a prescrivere ai medici ricette di comportamento con carattere tassativo e illusoriamente liberatorio porta a capire che la questione del consenso del paziente, preceduto dall’informazione è di complessa portata morale, deontologica e giuridica e può mettere in discussione perfino le strategie generali della medicina.
Infatti la necessita professionale – che è al contempo tecnica, morale, umana, ed in ogni caso giuridica – di raggiungere un equo bilanciamento tra le contrastanti esigenze di informare in modo adeguato il paziente su progetti diagnostici e terapeutici che riguardano la sua persona (e che per di più è poco agevole spiegare ad un profano) ed il dovere deontologico e morale di non infliggergli pericolose e dolorose preoccupazioni, rende la questione realmente difficile ed intricata nelle varie circostanze.
Ciò a causa della diversità dei pazienti e delle loro malattie, ed anche delle interrelazioni che inevitabilmente si instaurano con i congiunti e talora con gli amici del paziente, malgrado essi non siano giuridicamente legittimati a fornire un proprio consenso.
Dove vi è conflitto di esigenze, è inevitabile il compromesso.
Ma il compromesso, per sua natura, va a scapito della completa soddisfazione di ciascuna istanza.
Per quanto riguarda l’informazione al malato, ed il conseguente consenso alle prestazioni mediche, risulta evidente che le necessità primarie del suo bene – diverse da caso a caso – rendono inevitabilmente imperfetti sia l’una che l’altro.
Il polimorfismo del tema richiede indubbiamente l’esame separato ed approfondito degli aspetti giuridico, deontologico ed etico, ed anche di quello di più vasta portata, che possiamo chiamare “consenso sociale informato”.
Non è inopportuno ricordare che il problema del consenso è antico per cui le ragioni della sua ritrovata attualità devono indurre a riflessioni circa le autentiche ragioni di questo fenomeno, che a nostro avviso non risiedono solo nell’invocata fine del “paternalismo medico” – che indubbiamente è esistito ed esiste – e nella diffusione attuale dell’informazione medica, bensì trova la sua matrice anche nella cultura del sospetto e della sfiducia, spesso immotivata, che si è venuta a formare in questi ultimi decenni.
Platone (Leggi, IV), nel prospettare analogie tra medico e legislatore, fa dire all‘Ateniese che ”alcuni sono medici veri e propri, mentre altri sono solo inservienti dei medici, anche se a questi ultimi non estendiamo il nome di medici”. “Ora, non importa se essi siano liberi o schiavi, ma resta il fatto che essi, secondo le disposizioni dei loro capi, imparano l’arte solo vedendola mettere in pratica e non nei suoi essenziali fondamenti teorici, cioè alla maniera in cui l’hanno appresa gli uomini liberi, per tramandarla così com’è ai loro discepoli“. Ed ancora: ”trovandosi negli stati degli infermi schiavi e degli infermi liberi, a curare gli schiavi sono per lo più quei tali inservienti i quali si spostano qua e là e li aspettano negli ospedali. E nessuno di questi medici vuole dare o ricevere spiegazioni sulle specifiche malattie che affliggono ciascuno schiavo, ma alla luce di una approssimativa esperienza, con la saccenza di un tiranno, prescrivono quel che passa loro per la mente, neanche avessero una specifica competenza in materia. Così saltano da uno schiavo malato all’altro e in tal modo alleviano al loro padrone la pratica di curare gli infermi”.
A curare le malattie degli uomini liberi è invece, per lo più, il medico libero, il quale segue il decorso del morbo, lo inquadra fin dall’inizio secondo il giusto metodo, mette al centro lo stesso malato e i suoi cari e, così facendo, nel medesimo tempo impara qualcosa dal paziente e, per quanto gli riesce, anche gli insegna qualcosa.
A tale scopo egli non fare alcuna prescrizione prima di averlo in qualche modo convinto, ma cercherà di portare a termine la sua missione che è quella di risanarlo, ogni volta preparandolo e predisponendolo con un’opera di convincimento.
Purtroppo è sempre più evidente che l’esasperazione del consenso altro non è che una faccia preoccupante della “medicina difensiva”, cioè timore del medico che eventuali complicanze del paziente, per le quali non si possa individuare una responsabilità colposa possano dar luogo ad un contenzioso giudiziario attraverso l’espediente – di questo spesso si tratta – del mancato consenso informato.
Se questo è vero, come temiamo che sia, allora il discorso sul consenso informato prende connotati distorti, lontani dalla vera e autentica professione medica, che ha come obiettivo ippocratico primario esclusivamente il bene del malato: nel quale rientra anche la cura del dolore psichico e della paura.
Oggi, nell’era della tecnica e dell‘informazione appare sempre più indispensabile, infatti, un procedimento preventivo più complesso, non confinato al rapporto medico-paziente nel momento della malattia, dove e in gioco anche, assai frequentemente, l’ineludibile (benché giuridicamente improprio nei pazienti adulti) rapporto medico-paziente-famigliari.
Si tratta del “consenso informato sociale”.
L’informazione pubblica corretta, e non trionfalistica e banalmente ottimistica, sulle più note malattie, sulla loro evoluzione e sulla cura, è quella che può preparare i futuri pazienti in una fase della vita in cui con razionalità e freddezza essi possono acquisire una adeguata preparazione in vista di eventuali trattamenti sanitari, specie se di natura oncologica.
E’ questa la vera strategia della medicina del futuro da studiarsi ed attuarsi con i metodi della comunicazione di massa da parte di scienziati e comunicatori che abbiano un onesto obiettivo di diffusione delle conoscenze sulle possibilità della medicina e sui limiti generali e locali, nonché sui rischi, nel momento in cui le persone sono ancora sane.
Solo in questo modo si sensibilizza la comunità ai costi/benefici della medicina e la si prepara ad accettare le varie conseguenze di pratiche sempre più invasive, come quelle oncologiche, sia con farmaci che con le prestazioni chirurgiche e radianti.
Il momento della “verità” può essere in tal modo preparato ed il medico avrà come alleate le informazioni di cui larga parte dei pazienti – se capaci di intendere e di volere – sono già in possesso sia pure in forma generalizzata e non specifica del proprio caso.
Allora il medico potrà individuate le caratteristiche personali del paziente, modulare una informazione umana ed onesta che non arrechi maggior danno ed inutili sofferenze.
La pietas cede le armi alla veritas con i connessi problemi etici, psicologici e culturali.