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TAURIANOVA (RC), GIOVEDì 21 NOVEMBRE 2024

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L’Antimafia a scuola. Indottrinamento e proselitismo «Fatti non foste per viver come bruti ma per seguir virtute e conoscenza» Dante Alighieri. Inchiesta del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie

L’Antimafia a scuola. Indottrinamento e proselitismo «Fatti non foste per viver come bruti ma per seguir virtute e conoscenza» Dante Alighieri.  Inchiesta del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie
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Tutto è rito, e l’antimafia è liturgia. “Non ci interessa la retorica, la
liturgia ripetitiva. Perché 24 anni dopo Capaci e 24 dopo via D’Amelio, il
rischio c’è. Come per certa antimafia da operetta”. Così Mimmo Milazzo,
segretario della Cisl Sicilia, il 21 maggio 2016 a quasi un quarto di secolo
dalle stragi mafiose. Era il 23 maggio del 1992 quando un’esplosione
devastante mandò per aria, sulla A29 nei pressi di Palermo, la Fiat Croma in
cui viaggiavano il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e
gli agenti della scorta Rocco Dicillo, Vito Schifani e Antonio Montinaro.
Quasi un mese dopo a perdere la vita furono, con Paolo Borsellino, Walter
Eddie Cosina, Claudio Traina, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Agostino
Catalano. Un’ecatombe. Ma il cui anniversario, sostiene Milazzo, “non può
essere una mera occasione formale, dentro e fuori dal palazzo. L’ennesimo
show”.

Scuola ed antimafia, scrive Franca De Mauro. Franca De Mauro è figlia di
Mauro De Mauro e nipote di Tullio De Mauro, Linguista e Ministro della
Pubblica Istruzione. C’è un equivoco che ricorre frequentemente sia
all’interno della scuola, e questo è grave, sia all’esterno: cioè che noi
insegnanti si faccia educazione alla legalità soltanto quando, per un motivo
contingente, affrontiamo un tema, per così dire, monografíco: la storia
della mafia, mafia e latifondismo in Sicilia, la vita di Peppino Impastato,
di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino, di Placido Rizzotto, di Pio La
Torre… ahimè, l’elenco potrebbe essere anche più lungo. Ma noi insegnanti,
questo è il mio parere, facciamo educazione alla legalità quando facciamo
nostre le dieci tesi di educazione linguistica, quando, cioè, insegniamo ai
nostri alunni a muoversi da protagonista all’interno dell’universo della
comunicazione. Quando insegniamo ad ascoltare e comprendere, a leggere e
comprendere, a parlare e scrivere con chiarezza nelle diverse situazioni
comunicative e con scopi diversi. Solo allora saranno in grado di scegliere.
Perché se ci limitiamo a proporre argomenti antimafia, e non diamo loro il
possesso della lingua, noi conosceremo diecimila vocaboli e saremo liberi,
loro ne conosceranno sempre mille e saranno schiavi. Saremo sempre noi a
scegliere per loro. Sceglieremo, giustamente, un impegno per la legalità, ma
saremo noi a scegliere, non loro. E, uscendo dalla scuola, i ragazzi, così
come dimenticano immediatamente date, fatti, personaggi, letture,
dimenticheranno quanto diciamo sulla legalità. E dovremo registrare di non
aver neanche scalfito il consenso sociale verso la mafia, di non avere
intaccato la cultura mafiosa. Ma se daremo agli alunni gli strumenti
linguistici per capire un articolo di giornale, il discorso di un politico,
un volantino sindacale, il telegiornale, la Costituzione, forse il loro
impegno per la legalità sarà più concreto e duraturo. La cultura facilita
scelte etiche, non le rende immediate, me ne rendo conto: certo ‘don Rodrigo
aveva più cultura di Renzo, Andreotti più di un operaio che vendeva il suo
voto per un pacco di pasta… però se Renzo, se quell’operaio avessero avuto
gli strumenti per difendersi da angherie, raggiri, soprusi, per lottare
contro l’illegalità… per loro le cose sarebbero andate meglio. In un’epoca
in cui le grandi ideologie, l’aggregazione politica non esistono quasi più,
in cui la Tv spazzatura è il modello di riferimento culturale per
moltissimi, dare agli alunni gli strumenti per comprendere, per smascherare
promesse messianiche, ideali di ricchezza facile e veloce, questo diventa la
vera scommessa della scuola per la legalità.

Istruzione o Indottrinamento? Scrive David Icke. L‘istruzione esiste allo
scopo di programmare, indottrinare e inculcare un convincimento collettivo,
in una realtà che ben si addica alla struttura del potere. Si tratta di
subordinazione, di mentalità del…non posso, e del non puoi, perché è questo
ciò che il sistema vuole che ciascuno esprima nel corso nel proprio viaggio
verso la tomba. Ciò che noi chiamiamo istruzione non apre la mente: la
soffoca. Così come disse Albert Einstein, “l’unica cosa che interferisce con
il mio apprendimento, è la mia istruzione.” Egli disse anche che
“l’istruzione è ciò che rimane dopo che si è dimenticato tutto quanto si è
imparato a scuola”. Perché i genitori sono orgogliosi nel vedere che i loro
figli ricevono degli attestati di profitto per aver detto al sistema
esattamente quanto esso vuole sentirsi dire? Non sto dicendo che le persone
non debbano perseguire la conoscenza ma – se qui stiamo parlando di libertà
– noi dovremmo poterlo fare alle nostre condizioni, non a quelle del
sistema. C’è anche da riflettere sul fatto che i politici, i funzionari del
governo e ancora giornalisti, scienziati, dottori, avvocati, giudici,
capitani di industria e altri che amministrano o servono il sistema,
invariabilmente sono passati attraverso la stessa macchina creatrice di
menti (per l’indottrinamento), cioè l’università. Triste a dirsi. Molto
spesso si crede che l’intelligenza e il passare degli esami siano la stessa
cosa.

Giuseppe Costanza ha deciso di parlare perché a suo parere troppi lo fanno a
sproposito. C’ è un uomo che più di altri avrebbe titolo a dire qualcosa
sull’apparizione di Riina junior in Rai e sulla lotta alla mafia in
generale. È Giuseppe Costanza, l’autista di Giovanni Falcone negli ultimi
otto anni di vita del magistrato, dal 1984 fino al 23 maggio 1992. Costanza
era a Capaci, scrive Alessandro Milan per “Libero Quotidiano” il 18 aprile
2016. Di più, Costanza era a bordo della macchina guidata da Falcone e
saltata in aria sul tritolo azionato da Giovanni Brusca. Eppure in pochi lo
sanno. Perché per quei paradossi tutti italiani, e siciliani in particolare,
da quel giorno Costanza è stato emarginato. Non è invitato alle
commemorazioni, pochi lo ricordano tra le vittime. Ho avuto la fortuna di
conoscerlo, di essere suo ospite a cena in Sicilia e ho ricavato la
sensazione di trovarmi di fronte a qualcuno che è stato più del semplice
autista di Giovanni Falcone: forse un confidente, un custode di ricordi e,
chissà, uno scrigno di segreti. Che però Costanza dispensa col contagocce:
«Perché un conto è ciò che penso, un altro è ciò che posso provare». Un
particolare mi colpisce del suo rapporto con Falcone: «Il dottore – Costanza
lo chiama così – aveva diritto a essere accompagnato in macchina, oltre che
da me, dal capo scorta. Ma pretendeva che ci fossi solo io».

Perché non si fidava di nessun altro?

«Quale altro motivo ci sarebbe?».

Cominciamo da Riina a “Porta a Porta”?

«Mi sono rifiutato di vederlo. Solo a sapere che questo soggetto era stato
invitato da Bruno Vespa mi ha dato il voltastomaco. Vespa qualche anno fa ha
invitato pure me, mi ha messo nel pubblico e non mi ha rivolto una sola
domanda. Ora parla con il figlio di colui che ha cercato di uccidermi. I
vertici della Rai dormono?».

Cosa proponi?

«Lo Stato dovrebbe requisire i beni che provengono dalla vendita del libro
di Riina. Questo si arricchisce sulla mia pelle».

Lo ha proposto la presidente Rai Monica Maggioni.

«Meno male. Ma tanto non succederà nulla. D’altronde sono passati 24 anni da
Capaci senza passi avanti».

Su che fronte?

«Hanno arrestato la manovalanza di quella strage. Ma i mandanti? Io un’idea
ce l’ho».

Avanti.

«Presumo che l’attentato sia dovuto al nuovo incarico che Falcone stava per
ottenere, quello di Procuratore nazionale antimafia».

Ne sei convinto?

«Una settimana prima di Capaci il dottore mi disse: “È fatta. Sarò il
procuratore nazionale antimafia”».

Questa è una notizia.

«Ma non se ne parla».

Vai avanti.

«Se lui avesse avuto quell’incarico ci sarebbe stata una rivoluzione. Sempre
Falcone mi disse che all’ Antimafia avrebbe avuto il potere, in caso di
conflitti tra Procure, di avocare a sé i fascicoli. Chiediti quali poteri ha
avuto il Procuratore antimafia in questi anni. E pensa quali sarebbero stati
se invece fosse stato Falcone».

Chi non lo voleva all’Antimafia?

«Forse politici o faccendieri. Gente collusa. Ma queste piste non le sento
nominare».

Torniamo ai mandanti.

«L’attentato a Palermo è un depistaggio, per dire che è stata la mafia
palermitana. Sì, la manovalanza è quella. Ma gli ordini da dove venivano? Ti
racconto un altro particolare. Io personalmente, su richiesta di Falcone,
gli avevo preparato una Fiat Uno da portare a Roma. E lui nella capitale si
muoveva liberamente, senza scorta. Se volevano colpirlo potevano farlo lì,
senza tutta la sceneggiata di Capaci. Ricorda l’Addaura».

21 giugno 1989, il fallito attentato all’Addaura. Viene trovato
dell’esplosivo vicino alla villa affittata da Falcone.

«Io c’ero».

All’Addaura?

«Sì, ero lì quando è intervenuto l’artificiere, un carabiniere. Eravamo io e
lui. Lui ha fatto brillare il lucchetto della cassetta contenente
l’esplosivo con una destrezza eccezionale. Poi ha dichiarato in tribunale
che il timer è andato distrutto. Ha mentito. Io ho testimoniato la verità a
Caltanissetta e lui è stato condannato».

Invece come è andata?

«L’esplosivo era intatto. Lo avrà consegnato a qualcuno, non chiedermi a
chi. Evidentemente lo ha fatto dietro chissà quali pressioni».

Falcone aveva sospetti dopo l’Addaura?

«Parlò di menti raffinatissime. Io posso avere idee, ma non mi va di fare
nomi senza prove. Attenzione, io non generalizzo quando parlo dello Stato.
Ma ci sono uomini che si annidano nello Stato e fanno i mafiosi, quelli
bisogna individuarli».

23 maggio 1992: eri a Capaci.

«Ma questo agli italiani, incredibilmente, non viene detto. Quella mattina
Falcone mi chiamò a casa, alle 7, comunicandomi l’orario di arrivo. Io
allertai la scorta. Solo io e la scorta in teoria sapevamo del suo arrivo».

Cosa ricordi?

«Falcone, sceso dall’aereo, mi chiese di guidare, era davanti con la moglie
mentre io ero dietro. All’altezza di Capaci gli dissi che una volta arrivati
mi doveva lasciare le chiavi della macchina. Lui istintivamente le sfilò dal
cruscotto, facendoci rallentare. Lo richiamai: “Dottore, che fa, così ci
andiamo ad ammazzare”. Lui rispose: “Scusi, scusi” e reinserì le chiavi. In
quel momento, l’esplosione. Non ricordo altro».

Perché la gente non sa che eri su quella macchina?

«Mi hanno emarginato».

Chi?

«Le istituzioni. Ti sembra giusto che la Fondazione Falcone non mi abbia
considerato per tanti anni?».

La Fondazione Falcone significa Maria Falcone, la sorella di Giovanni.

«Io non la conoscevo».

In che senso?

«Negli ultimi otto anni di vita di Giovanni Falcone sono stato la sua ombra.
Ebbene, non ho mai accompagnato il dottore una sola volta a casa della
sorella. Andavamo spesso a casa della moglie, a trovare il fratello di
Francesca, Alfredo. Ma mai dalla sorella».

Poi?

«Lei è spuntata dopo Capaci. Ha creato la Fondazione Falcone e fin dal primo
anno, alle commemorazioni, non mi ha invitato».

Ma come, tu che eri l’unico sopravvissuto, non eri alle celebrazioni del 23
maggio 1993?

«Non avevo l’invito, mi sono presentato lo stesso. Mi hanno allontanato».

È incredibile.

«Per anni non hanno nemmeno fatto il mio nome. Poi due anni fa ricevo una
telefonata. “Buongiorno, sono Maria Falcone”. Mi ha chiesto di incontrarla e
mi ha detto: “Io pensavo che ognuno di noi avesse preso la propria strada”.
Ma vedi un po’ che razza di risposta».

E le hai chiesto perché non eri mai stato invitato prima?

«Come no. E lei: “Era un periodo un po’ così. È il passato”. Ventitré anni e
non mi ha mai cercato. Poi quando ho iniziato a denunciare il tutto
pubblicamente mi invita, guarda caso. Comunque, due anni fa vado alle
celebrazioni, arrivo nell’aula bunker e scopro che manca solo la sedia con
il mio nome. Mi rimediano una seggiola posticcia. Mi aspettavo che Maria
Falcone dicesse anche solo: “È presente con noi Giuseppe Costanza”. Niente,
ancora una volta: come se non esistessi».

L’ emarginazione c’è sempre stata?

«Un anno dopo la strage di Capaci sono rientrato in servizio alla Procura di
Palermo ma non sapevano che cavolo farsene di un sopravvissuto. Così mi
hanno retrocesso a commesso, poi dopo le mie proteste mi hanno ridato il
quarto livello, ma ero nullafacente».

Per l’ennesima volta: perché?

«Ho avuto la sfortuna di sopravvivere».

Come sfortuna?

«Credimi, era meglio morire. Avrei fatto parte delle vittime che vengono
giustamente ricordate ma che purtroppo non possono parlare. Io invece posso
farlo e sono scomodo. Diciamola tutta, questi presunti “amici di Falcone”
dove cavolo erano allora? Ma chi li conosce? Io so chi erano i suoi amici».

Chi erano?

«Lo staff del pool antimafia. Per il resto attorno a lui c’era una marea di
colleghi invidiosi. Attorno a lui era tutto un sibilìo».

Tu vai nelle scuole e parli ai ragazzi: cosa racconti di Falcone?

«Che era un motore trainante. Ti racconto un episodio: lui viveva in
ufficio, più che altro, e quando il personale aveva finito il turno girava
con il carrellino per prelevare i fascicoli e studiarli. Questo era
Falcone».

È vero che amava scherzare?

«A volte raccontava barzellette, scendeva al nostro livello, come dico io.
Però sapeva anche mantenere le distanze».

Tu hai servito lo Stato o Giovanni Falcone?

«Bella domanda. Io mi sentivo di servire lo Stato, che però si è dimenticato
di me. E allora io mi dimentico dello Stato. L’ho fatto per quell’ uomo,
dico oggi. Perché lo meritava. È una persona alla quale è stato giusto dare
tutto, perché lui ha dato tutto. Non a me, alla collettività».

Il presidente Mattarella non ti dà speranza?

«Io spero che il presidente della Repubblica mi conceda di incontrarlo.
Quando i miei nipoti mi dicono: “Nonno, stanno parlando della strage di
Capaci, ma perché non ti nominano?”, per me è una mortificazione. Io
chiederei al presidente della Repubblica: “Cosa devo rispondere ai miei
nipoti?”».

Questo silenzio attorno a te è un atteggiamento molto siciliano?

«Ritengo di sì. Fuori dalla Sicilia la mentalità è diversa. Devo dire anche
una cosa sul presidente del Senato, Piero Grasso».

Prego.

«Di recente, a Ballarò, presentando un magistrato, un certo Sabella, come
colui che ha emanato il mandato di cattura per Totò Riina, mi indicava come
“l’autista di Falcone”.

Ma come si permette questo tizio? Io sono Giuseppe Costanza, medaglia d’oro
al valor civile con un contributo di sangue versato per lo Stato e questo mi
emargina così? “L’autista” mi ha chiamato. Cosa gli costava nominarmi?».

Costanza, credi nell’ Antimafia?

«Non più. Inizialmente dopo le stragi c’è stata una reazione popolare
sincera, vera. Poi sono subentrati troppi interessi economici, è tutto un
parlare e basta. Noi sopravvissuti siamo pochi: penso a me, a Giovanni
Paparcuri, autista scampato all’ attentato a Rocco Chinnici, penso ad
Antonino Vullo, unico superstite della scorta di Paolo Borsellino. Nessuno
parla di noi».

Il 23 maggio che fai?

«Mi chiudo in casa e non voglio saperne niente. Vedo personaggi che non
c’entrano nulla e parlano, mentre io che ero a Capaci non vengo nemmeno
considerato. Questa è la vergogna dell’Italia».

Non li voglio vedere, scrive Salvo Vitale il 22 maggio 2016. Stanno
preparando il vestito buono per la festa. Passeranno la notte a lustrarsi le
piume. E domani, l’uno dopo l’altro, con una faccia che definire di bronzo è
un eufemismo, correranno da una parte all’altra della penisola cercando i
riflettori della tivvù, il microfono dei giornalisti, per inondarci della
loro vomitevole retorica su twitter, facebook, e in ogni angolo della rete;
loro, tutti loro, gli assassini di Giovanni Falcone, della moglie, e dei tre
agenti della sua scorta, saranno proprio quelli che ne celebreranno la
memoria. Firmandola. Sottoscrivendola. Faranno a gara per raccontarci come
combattere ciò che loro proteggono. Spiegheranno come custodire l’immensa
eredità di un magistrato coraggioso; loro, proprio loro che ne hanno
trafugato il testamento, alterato la firma, prodotto un perdurante falso
ideologico che ha consentito ai loro partiti di rinverdire i fasti di un
eterno potere. Li vedremo tutti in fila, schierati come i santi. Ci sarà
anche chi oserà versare qualche calda lacrima, a suggello e firma
dell’ipocrisia di stato, di quel trasformismo vigliacco e indomabile che ha
costruito nei decenni la mala pianta del cinismo e dell’indifferenza,
l’humus naturale dal quale tutte le mafie attive traggono i profitti delle
loro azioni criminali. Domani, non leggerò i giornali, non ascolterò le
notizie, non seguirò i telegiornali, e men che meno salterò come una pispola
allegra da un mi piace all’altro su facebook a commento di striscette
melense e ipocrite che inonderanno la rete con una disgustosa ondata di
piatta e ipocrita demagogia. Domani, uccideranno ancora Giovanni Falcone,
sua moglie e la sua scorta. E io non voglio farne parte.

E un altro giorno di Borsellino è andato, scrive Luca Josi per “Il Fatto
Quotidiano” il 21 luglio 2015. Stormi di parole alate, visi contriti,
rugiada di lacrime. Qualche minuto, una crocetta sopra, e la terra ha
continuato il suo giro intorno al sole. Ci si rivede l’anno prossimo per
ascoltare nuove cronache sudate di dolore, impregnate di partecipazione e
narrazione per “sensibilizzare i cittadini e non dimenticare”. Bene. Tra i
sacerdoti laici chiamati a celebrare il rito e la liturgia della memoria, la
Rai. Sostenuta dal nostro canone per onorare il contratto di servizio con lo
Stato la Rai dovrebbe informare gli italiani così da contribuire al loro
crescere civile; nello Stato appunto. Molto bene. Parafrasando l’audizione
de “La primula rossa di Corleone” alla Commissione Antimafia – quella in cui
l’interrogato in merito all’esistenza della mafia, rispose: “Se esiste
l’antimafia esisterà anche la mafia” – la Rai certifica l’esistenza dello
Stato. Ne è infatti la tv. Benissimo. Veniamo al punto. Ero un imprenditore
del panorama televisivo italiano (un gruppo che ha avuto centinaia di
dipendenti, ha prodotto migliaia di ore di programmi, ha conquistato cinque
Telegatti, premi di ogni genere e tanti altri primati da snocciolare). Per
una produzione in Sicilia, davvero poco fortunata, il gruppo è fallito (ma
non starò a ricordare il carrozzone di schifezze, angherie e miserie che
hanno prodotto questo scempio). C’è solo un punto che vorrei puntualizzare
nel giorno successivo alle retoriche per Borsellino. Il 7 giugno 2007 il più
stretto collaboratore di un direttore della Tv di Stato mi telefona per
raccomandarmi un tizio per la nostra produzione Rai (tra l’altro
Educational!): “… un personaggio locale di qui – siciliano – di dubbia
provenienza, che comunque pare non faccia molte, come dire, non faccia molti
problemi insomma, si accontenta di molto poco e cioè di, di, di, veramente
… insomma pare che sia, che sia tranquillizzante insomma la cosa. Non lo è
per le sue tradizioni e per le sue origini, però, non lo so io comunque ti
ho avvertito …”. Non ho nemmeno bisogno di registrare l’assurdo. L’acuto
dirigente fa tutto da sé lasciando il messaggio sulla mia segreteria
telefonica (la si può ancora ascoltare su il fattoquotidiano.it: Agrodolce,
i raccomandati e uomini in odor di mafia). Dal giorno successivo metto a
conoscenza della telefonata i dirigenti competenti. Penso che si tratti
ancora del caso di un singolo, ma gli anni successivi mi dimostreranno,
ampiamente, che non era così. Incontri successivi e lettere per denunciare
la situazione producono il silenzio. Di fronte a tutto questo il mio gruppo,
nella mia persona di allora presidente, decide di procedere penalmente verso
i protagonisti della nostra distruzione. Il 4 dicembre 2011, dopo la
pubblicizzazione della telefonata incriminata il protagonista della stessa
risponde così a il Fatto Quotidiano: “Si sa che quando le produzioni vanno
in Sicilia, devi sottostare alle regole legate alle tradizioni dell’isola”
per aggiungere “ho chiamato Josi, e lui mi fatto una scenata incredibile,
dicendo che lui ‘ rapporti con mafiosi non li voleva avere, mai e poi mai”.
Il 17 dicembre 2011 sarà la cronaca giudiziaria a confermarne la veridicità
di questa interpretazione. Infatti, la DDA di Palermo farà eseguire ventotto
arresti all’interno del Clan Porta Nuova. Nel mirino dello stesso, la
produzione di Canale 5, Squadra Antimafia Palermo Oggi. Non erano attratti
dal contenuto editoriale della fiction, ma dall’opportunità di controllarne
i servizi di trasporto, il catering per la troupe e di assumere come
comparse parenti e affiliati (oltre all’opportunità di fornire droga
all’interno della produzione). Tutto questo avveniva a pochi chilometri
dagli stabilimenti del nostro gruppo televisivo con l’aggravante che noi si
era capaci di occupare fino a 440 comparse al mese per una prospettiva di
diversi anni – le soap opera possono durare decenni – in uno dei distretti a
più alta disoccupazione giovanile europea. Il 23 ottobre 2012 – sei mesi
dopo dalla messa in onda della fiction Paolo Borsellino – I 57 giorni, per
Rai Uno: – la vicenda incontrerà una conclusione tragicamente solare.
L’imprenditore “proposto” nella telefonata dall’incaricato Rai verrà
arrestato dalla Polizia di Palermo, insieme al fratello, per i reati di
estorsione e associazione mafiosa (trattavasi d’imprenditori polivalenti
che, oltre a una struttura dedicata alle forniture di servizi per lo
spettacolo, diversificavano con un’attività di pompe funebri). La sua
compagine era riuscita a infiltrarsi all’interno di un’altra produzione
esterna Rai, Il segreto dell’acqua (fiction sul tema della lotta alla
mafia). Purtroppo dall’azienda pubblica che impegna gli imprenditori a
sottoscrivere corposi Codici Etici e Codici Antimafia non si sono mai
registrate riflessioni sulle singolari vicende risultate forse troppo
neorealiste. In compenso le fiction antimafia, continueranno a prolificare
perché “non possiamo permetterci di abbassare la guardia”. Antimafia e
magistratura. L’alleanza malsana che Falcone rifiutò. Indagine sui
professionisti della patacca che hanno trasformato l’antimafia in una
macchietta della giustizia politica, scrive Giuseppe Sottile il 12 Maggio
2016 su “Il Foglio”.

Prologo. “Tutto pagato mio”. Quando l’onorevole Salvo Lima varcò la soglia
del bar “Rosanero”, i picciotti di don Masino Spadaro, boss della Kalsa e re
del contrabbando, formarono – così, spontaneamente – due piccole ali di
folla. L’onorevole si inconigliò nel mezzo e salutò prima a destra e poi a
sinistra. Raggiunse il banco e ordinò il caffè. “Lei, carissimo onorevole,
merita questo ed altro”, declamò cerimonioso don Masino. Ma senza fortuna.
Perché l’onorevole continuò a masticare il suo bocchino di madreperla,
quello con la molletta interna e la cicca estraibile, senza pronunciare
sillaba. Si limitò solo a guardarli, quei picciotti. E guardandoli gli
significò che se avevano qualcosa da dire potevano anche dirla. Tanto lui
era in campagna elettorale e li avrebbe certamente ascoltati. Figurarsi però
se don Masino poteva mai lasciare una simile entratura a Vincenzo
Mangiaracina, detto “Scintillone”, pizzicato otto anni prima per tentato
omicidio, e appena uscito dall’Ucciardone; o a Filippo Paternò, detto
“Cardone”, che nell’aprile del 1989 andò per sparare e fu sparato, e parlava
con mezza bocca perché l’altra era praticamente affunata in un nodo
cavernoso di osso, muscolo e pelle; o a Lillo Trippodo, detto “Cacauovo”
perché prima di ogni tiro, scippo o rapina che fosse, aveva sempre un dubbio
da manifestare ma poi puntava la pistola ch’era una meraviglia. “Tutti bravi
ragazzi, onorevole”, disse don Masino presentando cumulativamente i
picciotti disposti a semicerchio, come gli ami di una paranza. Ma
l’onorevole Lima ostinatamente non parlava. Se ne stava appoggiato al
bancone, con la tazzina di caffè appiccicata alle dita. Fino a quando, don
Masino – e che boss sarebbe stato, altrimenti – non si armò di coraggio e
mirò a quello che, per lui, era il cuore del problema. “Mi dica, onorevole:
che dobbiamo fare con quei cornuti di Ciaculli che si sono inventati questa
minchiata del rinnovamento…”. Il tema, in effetti, era molto delicato.
Delicatissimo. “La sbirrame di Leoluca Orlando e padre Pintacuda ha fatto
breccia. Ora fanno tutti gli antimafiosi, anche a Ciaculli, ma in realtà
sono semplicemente cornuti. Così cornuti che, nei loro confronti, il fango è
acqua minerale”. Ciaculli, Orlando, Pintacuda. L’onorevole si cambiò di
faccia. Posò la tazzina sul bancone e ringraziò per il caffè. Ma don Masino
gli puntò al petto l’ultima domanda: “Sono o non sono cornuti, quelli di
Ciaculli?”. L’onorevole si bloccò sulla soglia. Si abbottonò il cappotto,
alzò il bavero del colletto, infilò un’altra sigaretta nel bocchino di
madreperla e sentenziò: “Gentuzza… Gentuzza e nulla più”.

Svolgimento. Che Dio ce ne guardi. Nessuno qui si azzarderà a definire
“gentuzza” gli uomini dell’antimafia, anche se dentro la compagnia di giro
ci ritrovi qualche pataccaro, come Massimo Ciancimino, già processato e
condannato per avere invischiato in storiacce di mafia dei galantuomini che
non c’entravano nulla; o come quel Pino Maniaci, che per anni si è spacciato
come giornalista coraggioso ed è finito sotto inchiesta per estorsione:
secondo la procura di Palermo sparava fuoco e fiamme ma, sottobanco,
prometteva benevolenza soprattutto a chi aveva la compiacenza di allungargli
la mille lire. No, nessuno qui si azzarderà a definire “gentuzza” gli uomini
dell’antimafia. Perché dentro quel mondo non ci sono solo degli inquisiti
sui quali prima o poi dovrà essere detta una parola di verità. Ci sono anche
e soprattutto figli che hanno assistito al martirio del padre, come Claudio
Fava o Lucia Borsellino o Franco La Torre; o sorelle, come Maria Falcone,
che portano ancora negli occhi il terrore di avere visto, su un tratto di
autostrada sventrato dal tritolo, il sangue versato dal proprio fratello.
No, questi nomi non possono essere trascinati in polemiche da quattro soldi.
Nemmeno quando uno di loro – ed è il caso di Salvatore Borsellino, fratello
di Paolo, il giudice assassinato in via D’Amelio – se ne va in giro per
Palermo ad abbracciare Massimuccio Ciancimino, il figlio di don Vito, prima
celebrato come “icona dell’antimafia” e poi gettato negli abissi chiari
dell’inattendibilità dagli stessi pupari che lo avevano offerto a giornali e
talk-show come il testimone del secolo, l’unico in grado di rivelare gli
intrighi delle cosche e di scardinare finalmente l’impero di Cosa nostra,
con le sue ricchezze e i suoi misteri, con i suoi boss e i suoi picciotti,
con le sue coperture e le sue complicità. Non chiameremo “gentuzza” neppure
quelli che hanno utilizzato l’antimafia per amministrare al meglio i propri
affari, per intramare nuove e più sofisticate imposture, per costruire nuove
e più spregiudicate carriere; o per meglio aggrapparsi alla grande mammella
dei beni sequestrati ai mafiosi – terreni, case e aziende – diventati
all’improvviso una immensa terra di nessuno sulla quale hanno mangiato a
quattro mani, fino a ingozzarsi, magistrati e cancellieri, avvocaticchi e
commercialisti. E non chiameremo “gentuzza” nemmeno i tanti narcisi che pure
popolano questo mondo. Non c’è magistrato che non abbia i suoi quattro
angeli custodi, non c’è papavero dell’antimafia che non abbia diritto a una
sorveglianza, non c’è pentito, vero o fasullo, che non pretenda una tutela
particolare. Ah, le scorte. A volte hai il sospetto che siano diventate gli
svolazzi del nuovo potere: Rosario Crocetta, il governatore della Sicilia
che ha trasformato l’antimafia in una macchietta della politica, può contare
su cinque blindate, pagate dalla regione a peso d’oro. Uno spreco? Guai a
pensarlo, ma immaginate l’effetto che fa il suo scorrazzare in lungo e in
largo per l’Isola con tutto questo fragore o il suo arrivo, a ogni fine
settimana, a Gela o a Tusa Marina, dove altri militari sono impegnati a
presidiare le sue case. Oppure pensate a quale timore o a quale riverenza vi
spingerà, se mai capiterete all’aeroporto di Palermo, la visione di Roberto
Scarpinato, procuratore generale del Palazzo di giustizia e Gran Sacerdote
dell’Antimafia, scortato all’imbarco per Roma non da uno ma da cinque agenti
in borghese. Tre dei quali non lo mollano nemmeno quando tutti i passeggeri
sono già dentro l’aereo. Ragioni di sicurezza, si dirà. E sarà anche vero,
ma una domanda andrebbe comunque posta: e se la mafia fosse ancora governata
da quegli stragisti che rispondevano al nome di Totò Riina e Bernardo
Provenzano quanti uomini sarebbero necessari per scortare il dottore
Scarpinato? Forse sette, forse sette volte sette. La verità, tanto per
andare subito al sodo, è che il Piazzale degli eroi – nel quale sono stati
collocati tutti i campioni della lotta a Cosa nostra – rifiuta tenacemente
di accettare quello che gli storici più coscienziosi, come Salvatore Lupo,
hanno accertato con la forza dei loro studi e della loro onestà. E cioè che,
dopo una guerra durata oltre trent’anni, il risultato è che la mafia ha
perso e lo stato ha vinto. Una verità semplice ma capace di mandare a gambe
per aria non solo il concetto mistico di antimafia ma anche tutte le
impalcature – e i privilegi e i narcisismi – che attorno a un tale concetto
sono state costruite. Questo spiega perché la tesi del professore Lupo sia
stata tanto sbeffeggiata durante una infausta audizione alla commissione
parlamentare presieduta da Rosy Bindi. E spiega anche perché una fetta
ancora consistente della magistratura palermitana insiste nel portare avanti
un processo senza capo né coda qual è quello sulla fantomatica trattativa
tra la mafia e alcuni vertici degli apparati statali. Quel processo serve
per tenere in piedi il postulato che la storia della Repubblica abbia un
doppio fondo, e che dietro ogni verità, anche dietro quella processualmente
accertata, ci sia sempre una verità nascosta. Un azzardo, non c’è dubbio. Ma
che consente a quei magistrati particolarmente votati alla militanza
politica, di chiamare in causa qualunque esponente del potere costituito.
Ricordate cosa combinò Antonio Ingroia, procuratore aggiunto oltre che
maestro compositore e arrangiatore della Trattativa, pochi mesi prima di
presentarsi con una sua lista, Rivoluzione civile, alle elezioni politiche
di tre anni fa? Intercettò il presidente della Repubblica, Giorgio
Napolitano, e ci impiantò sopra un casino mediatico di proporzioni tali da
fare tremare le colonne del Quirinale. Nel braccio di ferro, Ingroia ha
perso e Napolitano ha vinto. Ma il partito dei magistrati che vogliono
tenere sotto tiro il potere politico resta ancora forte e agguerrito. Con
una aggravante: che questo partito ha saputo anche costruirsi un’antimafia
di supporto. L’antimafia di Massimo Ciancimino e di Salvatore Borsellino,
tanto per fare un doloroso esempio: dove il fratello del giudice assassinato
diventa fraternissimo amico del figlio di don Vito per il semplice fatto che
il pataccaro è stato contrabbandato dalla magistratura politicizzata come
l’unico grimaldello capace di violare il sancta sanctorum dei segreti
mafiosi. Ai tempi di Giovanni Falcone, questa alleanza malsana non si
sarebbe stretta. E non si è stretta. Ricordate il caso del falso pentito
Giuseppe Pellegriti? Eravamo alla fine degli anni Ottanta e l’antimafia di
quel tempo – i leader erano Leoluca Orlando e il gesuita Ennio Pintacuda –
si era aggrappata all’indiscrezione secondo la quale il pentito Pellegriti,
un delinquentucolo di periferia, avrebbe accusato Salvo Lima,
plenipotenziario di Giulio Andreotti in Sicilia, di essere il mandante
dell’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Falcone andò al
carcere di Alessandria. E, dopo avere verificato che Pellegriti sosteneva
soltanto cose non vere, lo incriminò per calunnia. Non la passò liscia.
L’antimafia di Orlando e Pintacuda – quella che aveva inventato la formula
del “sospetto come anticamera della verità” – se la legò al dito e scatenò
contro Falcone una offensiva senza precedenti. Fino ad accusarlo di tenere
le prove nascoste nei cassetti; o a esporlo, nel corso di un indimenticabile
Maurizio Costanzo Show, a una gogna tanto ingiusta quanto feroce.
L’antimafia di oggi, quella finita nella polvere con tutti i suoi
imbroglioni e i suoi pataccari, si è prestata invece a tutte le manovre
giudiziarie, anche le più avventate e le più spregiudicate. E forse anche
per questo, alla fine, è rotolata nel burrone profondo dell’irrilevanza. Chi
è quell’uomo? – chiede a un certo punto il Signore. “E’ uno che imbratta di
tenebra il pensiero di Dio. Parla senza sapere quello che dice”, risponde
Giobbe.

La Carlucci e il PdL contro i libri di scuola: “Propagandano il comunismo,
vanno cambiati”, scrive “Giornalettismo” il 12/04/2011. Secondo 19 deputati
del Popolo delle Libertà, scrive l’agenzia Dire, c’è bisogno di una
commissione d’inchiesta per valutarne l’imparzialità. Ma il testo che più si
distingue “per la quantità di notizie partigiane e propagandistiche” è,
secondo i 19 deputati Pdl, quello di Camera e Fabietti. In Elementi di
storia, citano, viene descritta l’attuale presidente del Pd, Rosy Bindi,
come la “combattiva europarlamentare” che, ai tempi della militanza nella
Democrazia cristiana, sollecitava ad “allontanare dalle cariche di partito”
tutti “i propri esponenti inquisiti”. E come viene descritto l’antagonista
Berlusconi? Nel 1994, citano ancora i parlamentari dalle pagine del libro di
testo, “con Berlusconi presidente del Consiglio, la democrazia italiana
arriva a un passo dal disastro”. Secondo gli autori, “l’uso sistematicamente
aggressivo dei media, i ripetuti attacchi alla magistratura, alla Direzione
generale antimafia, alla Banca d’Italia, alla Corte costituzionale e
soprattutto al presidente della Repubblica condotti da Berlusconi e dai suoi
portavoce esasperarono le tensioni politiche nel Paese”. L’elenco dei libri
“naturalmente potrebbe continuare ancora per molto – conclude il Pdl – ma
bastano questi esempi per capire la gravità della questione”.

Dr Antonio Giangrande Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber,
presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.